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Full text of "Bollettino dell'Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato n. 87 2020"

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ACCADEMIA DEGLI EUTELETI 
DELLA CITTÀ DI SAN MINIATO ALTEDESCO 


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ISSN 2281-5: 





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ANNO XCVIII - 2020 N. 87 





BOLLETTINO 


DELLA 





DELLA CITTÀ DI SAN MINIATO 


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Rivista di Storia — Lettere — Scienze ed Arti 


Direzione ed Amministrazione Palazzo Migliorati - San Miniato al Tedesco 


ISSN 2281-: 


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ACCADEMIA DEGLI EUTELETI — BOLLETTINO N. 87 














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de 


La direzione del Bollettino dell’Accademia degli Euteleti 
esprime la sua gratitudine 
alla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato 
che, con il suo contributo, 
sostiene la pubblicazione del presente volume. 


Con il contributo della 
Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali 
Ministero per i Beni e le Attività Culturali 


BOLLETTINO 


DELLA 





DELLA CITTÀ DI SAN MINIATO 


Rivista di Storia — Lettere — Scienze ed Arti 


n. 87 


SAN MINIATO AL TEDESCO - DICEMBRE 2020 





Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 
Piazza XX Settembre, 21, 56027, San Miniato (PI). 


accademiacuteleti@gmail.com 





Accademia fondata il 2 ottobre 1822 con Reale e Imperiale Rescritto Sovrano 
del Granduca di Toscana 

Accademia istituita il 10 Luglio 1947 con Decreto di riconoscimento 

della personalità giuridica 

Decreto del Presidente della Repubblica Italiana del 10 Luglio 1947, 
Presidente De Nicola. 


Bollettino dell’Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato n° 87/2020 


Il Bollettino è edito con il contributo 
della Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato — anno 2020 


L'Accademia degli Euteleti riceve il contributo della Direzione Generale 
per i Beni Librari c gli Istituti Culturali del Ministero per i Beni 
e le Attività Culturali 





Comitato scientifico 

Saverio Mecca, presidente 

Luca Macchi 

Roberta Roani 

Il programma editoriale di ciascun numero della rivista è elaborato dal Comitato Scientifico 
che applica una procedura di selezione, valutazione e miglioramento editoriale. 

La selezione degli autori avviene su invito. 


Stampato in 400 copie non numerate su carta Fedrigoni Arcoset, 90 gr, usomano, di pura 
cellulosa ecologica 

Finito di stampare a San Miniato presso la Tipografia Bongi, Via Augusto Conti 10, 

San Miniato, Pisa 


Progetto grafico: Saverio Mecca 
Fotografia sovracoperta: Luca Lupi 
Messa in pagina: Photochrome - Empoli 


Iscritto nel Registro dei Periodici presso la Cancelleria del Tribunale di Pisa in data 2 settembre 1958, n° 11 


ISSN 2281-521X 
Bollettino della Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 
[Testo stampato] 


Diritti di riproduzione 2020: Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 


Ai lettori del Bollettino 


In questo anno di crisi pandemica l'Accademia degli Euteleti si è trovata 
a sospendere tutte le attività nella propria sede, le conferenze, gli incontri e le 
mostre di arte, ma non poteva sospendere la pubblicazione del suo Bollettino 
annuale. Il 12 dicembre 2020 è pubblicato e distribuito. 

Il Bollettino n° 87 di questo anno 2020 propone, come sua tradizione, 
un'ampia e qualificata selezione di articoli dei Soci e degli studiosi invitati alla 
collaborazione. I contributi trattano temi di riflessione sul periodo che stiamo 
vivendo, storia, storia dell’arte e dell’architettura in Toscana e del territorio; la 
qualità dei contributi lo rendono non solo uno dei più importanti bollettini delle 
accademie toscane, ma anche uno strumento per la costruzione della storia dei 
nostri luoghi. 

La varietà e diversità dei contributi, appropriata al carattere di miscella- 
nea, nel sommarsi negli anni come tessere di un mosaico compone un ritratto 
continuamente arricchito del territorio di San Miniato, del Valdarno e della To- 
scana: una risposta alle esigenze di conoscenza critica della comunità mediante 
un costante impegno culturale e scientifico dell’Accademia e degli autori che 
contribuiscono. 

Rivolgiamo di nuovo un appello a tutti i soci, gli amici e i sostenitori 
dell’Accademia, alle Istituzioni del territorio perché ne sostengano, anche econo- 
micamente, le attività e le pubblicazioni a beneficio dell’intera comunità. 

Un particolare ringraziamento va rivolto alla Fondazione Cassa di Rispar- 
mio di San Miniato e al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turi- 
smo. 


San Miniato, lì 12 dicembre 2020 


Il Presidente dell’Accademia degli Euteleti 
Saverio Mecca 


INDICE 


MARIA FANCELLI p. ll 
Don Ruggini, un secolo 


FRANCESCO MAGRIS 15 
Apocalittici e integrati in tempi di Covid-19 


SAVERIO MECCA 31 


Scuola e università: un'accelerazione verso il futuro 


MARIO CACIAGLI 35 
Memorie di un lager 


MICHELE FEO 37 
L'annunciazione, gli Angeli, il Corano 


LAMIA HADDA 61 
Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica 


in Campania (XI-XII secolo) 


GIOVANNI COPPOLA 83 
Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 


DANIELE VERGARI 119 
Da Landeschi a Ridolfi: sperimentazioni agrarie 
e paesaggio in Valdelsa fra il XVIII e il XIX secolo 


ROSSANO NISTRI 131 
Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe dei contadini 
di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari. 


LORENZO BACCI 159 
Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne 
di Terricciola: dalla documentazione archeologica a quella archivistica 


GIUSEPPE A. CENTAURO 181 
La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 


MARIO BRUSCHI 215 
Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 


STEFANO RENZONI 297 
Per Pasquale Cioffo, quadraturista e scenografo napoletano 
nella Toscana del Settecento 


COSTANTINO CECCANTI - ANNA VENTIMIGLIA 
Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di 


FABIO SOTTILI 
Aggiunte per Clémence Roth 


LUCA MACCHI 
Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 


CLAUDIA MASSI 
“Il mobile e la sua costruzione” di Giuseppe Giorgio Gori 
Appunti per le lezioni del corso universitario tenuto nell’A.A. 1940-41 


GIOIA ROMAGNOLI 
La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 


RICCARDO SPINELLI 

“Lappeggio è bello e buono: è il centro, è il soglio Delle delizie: 
e dirlo un paradiso”. Famigli e familiari nella quadreria 

del cardinale Francesco Maria de’ Medici 


FABIO SOTTILI 
La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 


CLAUDIA MARIA BUCELLI 
Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 


FEDERICO CECCANTI 


Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 


FRANCESCA RUTA 
Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato. Terza Parte 


CRISTINA GUERRA 
Restaurata la tela della Madonna del Carmine: un recupero devozionale 


FRANCESCO FIUMALBI 
Sull’epigrafe che ricorda il soggiorno di Clemente VII a San Miniato 


ANTONELLA BERTINI 
La scuola elementare di Ponte a Egola 
dal Marianellato, 1868 al Piazzale, 1896 


i architettura, agrimensura e ornato 


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297 


311 


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ALEXANDER DI BARTOLO 
Notizie di diversi letterati di San Miniato al Tedesco 
dal “Magazzino Universale” di Bencivenni Pelli 


ROBERTO BOLDRINI 
Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 


LUIGI GIUNTI, BRUNA GOZZINI, 
GIOVANNI GOZZINI, MANUELA PARENTINI 
Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 


FRANCESCO FIUMALBI 
La strage della stazione di San Miniato — 7 Aprile 1944 


GIUSEPPE CHELLI 
I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. Una esperienza 
di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 


Vita dell’Accademia 2020 


565 


575 


601 


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Don Ruggini, un secolo 





MARIA FANCELLI 


Ripensare Don Giancarlo Ruggini (1920- 1973) nel centenario della nascita 
e a cinquant'anni dalla morte, significa per me ripensare un protagonista della 
vita spirituale, sociale ed artistica di San Miniato e, insieme, una figura tra le più 
alte della cultura cattolica italiana; non ultimo, un sacerdote amico che ho avuto 
la fortuna di conoscere, alla cui memoria vorrei dedicare queste brevi riflessioni. 

Se i profondi rivolgimenti politico-sociali degli ultimi decenni, l’avanzato 
processo di secolarizzazione e gli eventi epocali che stiamo vivendo ci fanno pare- 
re molto lontano il tempo in cui Don Ruggini ha vissuto e operato, forse proprio 
la distanza temporale ci permette oggi di vedere in una prospettiva storica l’ecce- 
zionalità della sua vicenda di uomo e di sacerdote. L’eccezionalità di una vita che 
la morte ha stroncato nel pieno della maturità e del vigore intellettuale e morale, 
a 53 anni; di fronte alla quale si prova ancora commozione e stupore. 

In tempi e in modi diversi la città di San Miniato, la Diocesi e l’Istituto del 
Dramma Popolare e altre Istituzioni a lui legate hanno ricordato la sua figura e 
onorato la sua memoria con incontri, giornate di studio e alcune pubblicazioni. 
Lo stesso hanno fatto riviste nazionali e riviste locali, tra cui “Erba d'Arno” e “Il 
Grandevetro”, nonché i quotidiani toscani “La Nazione”, “Il Tirreno” e, natural- 
mente, il settimanale diocesano “La Domenica”. 

Dobbiamo però i a due libri, oggi purtroppo esauriti, se Don Rug- 
gini, già pochi anni dopo la sua morte, ha avuto un pieno riconoscimento e 
un'ampia eco anche sul piano nazionale. Si tratta di due fondamentali contributi 
che costituiscono ancora oggi il punto di partenza per nuove riflessioni e appro- 
fondimenti sulla persona e sull’opera. 

Mi riferisco al libro del regista e studioso di teatro Andrea Mancini e a quello 
di Aristodemo Viviani, mitico docente di filosofia al Liceo Scientifico di San Mi- 
niato. Due libri molto diversi e per più versi complementari. 


Il primo, scritto con grande partecipazione e rigore, pertiene alla migliore 
storiografia teatrale. Apparve da Pàtron a Bologna nel 1979 con il titolo La ma- 
schera e la grazia. La politica culturale dei cattolici attraverso le feste del teatro di San 
Miniato. Aveva la prestigiosa introduzione di Ludovico Zorzi e ricostruiva con 
passione laica l’intera avventura teatrale di Don Ruggini nel quadro della politica 
culturale cattolica. 

Nelle prime pagine Mancini disegnava in maniera sintetica ma molto efficace 
la situazione in cui aveva preso vita quel teatro: lo spirito di ricostruzione postbel- 
lica, il sentimento antifascista, il sostegno di alcuni parlamentari democristiani 
toscani, la memoria della strage del luglio 1944, la scoperta delle potenzialità 
scenografiche delle strade e della piazza del Duomo nel quale si era consumata 
la recente tragedia. Quindi entrava nel merito delle feste del teatro, raccogliendo 


11 


Maria Fancelli 





e leggendo criticamente tutta la documentazione possibile sui testi, sui registi, 
sugli spettacoli e sugli attori e, naturalmente, sui cittadini fondatori. E da quella 
storia faceva emergere con chiarezza la parte che Don Ruggini vi aveva svolto 
come Direttore Artistico: la parte di un uomo che fin dal primo spettacolo del 
1947 si era avvicinato al mondo del teatro con l’impeto di un combattente e che 
aveva visto nella scena uno strumento di verità, di lotta e di avanzamento sociale. 
Mancini ne ha ripercorso tutte le tappe: dai primi scontri con gli enti finanziatori 
fino alle più aspre battaglie; dalla rete di rapporti culturali e religiosi con Firenze 
e poi con Pisa, dagli inizi che videro a San Miniato le maggiori figure del teatro 
italiano fino all’audace scelta de La luce della stella dell'alba; una scelta fatale che 
nel luglio 1972 costrinse Don Ruggini, accusato dalla destra democristiana di 
antiamericanismo e filocomunismo, a lasciare l’amatissimo Istituto dopo venti- 
cinque anni di attività. 

Il libro di Andrea Mancini si conclude in maniera quasi teatrale, con la pub- 
blicazione di una drammatica lettera di dimissioni, che fa chiarezza sulle vere 
ragioni della rottura intervenuta tra il Direttore Artistico e l’Istituto. Vale la pena 
di rileggere il brano finale di questa lettera, anche se si tratta di una lettera privata, 
destinata ad una signora senza nome e, molto probabilmente, mai spedita: 

“.. Ma prima di tutto la libertà. Se non si può più dire quel che sha da dire, 
anche l’arte è inutile e falsa. Perché non c'è arte che non sia prima di tutto sincerità. 
Io almeno la penso così. Ma quello che penso io da anni faceva storcere la bocca a chi 
teneva in mano i cordoni della borsa del teatro di San Miniato. E così è arrivato il 
momento dell'aut-aut: il momento della restaurazione andreottiana: o allinearsi 0 
andarsene. E me ne sono andato. Non è il primo caso e, purtroppo, non sarà l'ultimo”. 


Il libro di Aristodemo Viviani, uscito per le Edizioni del Cerro (Pisa) nel 
1986, simpone per lo stesso rigore e si potrebbe anche dire, nonostante la dif- 
ferenza di età dei due autori, per la stessa passione. Come recita il titolo, questo 
libro non riguarda un periodo o un pezzo di storia del teatro, ma l’intera vita di 
un uomo nell’arco del suo tempo, l’evolversi tumultuoso del suo pensiero e della 
sua fede: Un tempo un uomo. É come precisa il sottotitolo si parla di Educazione 
Teatro Valori nel pensiero di Don Giancarlo Ruggini. 

Non è solo una biografia ben documentata, ma una ricerca a tutto campo 
nel tentativo di ricollegare le varie esperienze di vita e di trovarne il filo condut- 
tore: partendo dalla vocazione si... al tempo del servizio militare e della 
campagna al fronte russo; dalla formazione teologica nel Seminario vescovile di 
San Miniato all'impegno pastorale nelle parrocchie di Roffia e di San Lorenzo, 
dall’attività di Direttore Artistico del Dramma fino alle molteplici prove nel cam- 
po della scuola. Anche Viviani ha studiato lettere e carte di vari archivi, ma si è 
concentrato in modo particolare su quelle di carattere teorico e pedagogico. Ha 
ricostruito le letture fondative di Don Ruggini, dalla filosofia kantiana all'estetica 
di Benedetto Croce; gli apporti del pensiero cattolico contemporaneo da Arman- 
do Carlini a Vittorio Sainati, dal cristianesimo sociale di Gronchi alle aperture 
planetarie di Giorgio La Pira e Padre Balducci; ha riletto perfino i testi di teoria 
economica con i quali Don Ruggini si documentava per capire i problemi del 
mondo del lavoro, la transizione che vedeva passare sotto i suoi occhi dalla socie- 
tà rurale a quella industriale. Un lungo capitolo è dedicato, infatti, all'impegno 
nell’Associazione Cattolica dei Lavoratori Italiani, che Don Ruggini voleva più 


12 


Don Ruggini, un secolo 





politicizzata e meno assistenziale. Sono gli anni di studio nel Convento di san 
Francesco durante i quali si attenua la ei filosofica, cresce e si consolida 
l'interesse verso i temi dell'economia. Scrive Viviani (p.111) che: “Idrocarburi, 
Mercato Comune Europeo, Euratom, Piano Vanoni... sono i campi d’indagine 
e di discussione del nostro studioso nella seconda metà degli anni Cinquanta”. 
Scriveva Don Ruggini nel 1957 “Le ACLI sono la mia vera vocazione” (Viviani, 
p- 93). Un’affermazione che lascia stupefatti, ma che ci dice molto sulla vastità e 
intensità del suo impegno sociale e politico. 

Se Mancini dunque fa rivivere nel sacerdote Don Ruggini soprattutto l’uomo 
di teatro, Viviani ha inseguito il filo che a suo parere tiene insieme tutte le arti- 
colazioni della sua complessa personalità; cogliendo questo filo in un'unica pas- 
sione pedagogica, per cui l’attività teatrale sarebbe stata soprattutto l’espressione 
visibile di un progetto educativo totalizzante. Una passione pedagogica rimasta 
forte e viva anche quando la salute cominciava ormai a vacillare pericolosamente. 
Tanto che, da questo punto di vista, furono in molti a pensare che Don Ruggini 
era morto non casualmente al Liceo, ovvero nel luogo nel quale più si dispiegava 
la sua vocazione didattica. 

Si diceva all’inizio che il tempo di Don Ruggini ci appare oggi lontano. Ef- 
fettivamente, quando Don Ruggini è morto, nel dicembre 1973, era ben diverso 
l'assetto del mondo. C'erano ancora l'Unione Sovietica e i blocchi contrapposti. 
Nell’agosto di quell’anno era morto Walter Ulbricht, le Germanie erano due, e 
tali pareva che dovessero restare. 

Soltanto alcuni anni dopo la morte di Don Ruggini, e dopo un duro decennio 
di piombo, nel 1989, il crollo del muro di Berlino dimostrò che la storia non era 
finita come da tempo andava dicendo un noto filosofo, ma che aveva ripreso a 
correre vertiginosamente. Si prese atto che una compagine potente come l’Unio- 
ne sovietica poteva dissolversi e che le Germanie potevano tornare a riunirsi; si 
vide soprattutto che aveva inizio una nuova storia e che vertiginosi cambiamenti 
economici, tecnologici e climatici, nonché il minaccioso spettro della guerra nu- 
cleare, avrebbero spostato l’asse della storia occidentale ed eroso rapidamente il 
terreno sul quale era fiorita la vocazione potente di Don Giancarlo Ruggini. 

Con le parole del Vescovo di San Miniato Andrea Migliavacca, dobbiamo dire 
che non viviamo più da tempo in una società cristiana: per i processi di globaliz- 
zazione, per i fenomeni migratori, per le sempre crescenti ingiustizie sociali e per 
la perdita di significato di tante istituzioni statuali, partitiche, religiose. 

Per questo il tempo di Don Ruggini appare come travolto dall’accelerazione 
dei mutamenti storici. Per questo tanto più ci appare quasi un miracolo che ri- 
sulti oggi ancora viva l'Istituzione che Don Ruggini ha più amato: l’Istituto del 
Dramma Popolare di San Miniato. Un miracolo che n società post-cristiana 
proprio il Dramma continui a operare nonostante le difficoltà finanziarie, la crisi 
dei testi e il tramonto degli orizzonti di fede. In un certo senso la lunga vita dell’I- 
stituto del Dramma Popolare, la più longeva istituzione teatrale italiana, è oggi il 
più tangibile omaggio alla memoria di Don Ruggini e dei suoi amici fondatori e 
compagni di strada. 

Anche in occasione dei cento anni dalla nascita, nonostante la pandemia in 
corso, l’Istituto del Dramma Popolare - su consiglio di Andrea Mancini - ha co- 
raggiosamente deciso di ricordare Don Ruggini con la presentazione di un libro 
di quale il suo nome non compare mai. Ne è autore il giornalista e scrittore 


13 


Maria Fancelli 





Mario Lancisi che gli ha dato un titolo e sottotitolo molto espliciti: / folli di Dio: 
La Pira, Milani, Balducci e gli anni dell'Isolotto. 

In questo libro Don Ruggini non c'è, si diceva, ma c'è il suo tempo e ci sono 
tutti coloro che venivano a San Miniato e con i quali egli aveva un fervido scam- 
bio di idee e di progetti. Forse anche in virtù della sua assenza il libro di Lancisi 
ci permette paradossalmente di vedere meglio le diverse esperienze di Firenze 
e di San Miniato, di coglierne le analogie e i parallelismi, e di capire il ruolo e 
il contributo specifico della nostra città. Di capire che San Miniato è stato un 
laboratorio parallelo dei movimenti cattolici i e il luogo dove, per una 
singolare convergenza di destini individuali e collettivi, si è cercata e sperimentata 
un'altra forma dell’agire cristiano: la via del teatro, dell’immaginazione scenica e 
dell’operare artistico, la via di una pedagogia teatrale e popolare. 

Attraverso la rilettura dei libri di cui ho parlato credo di aver capito forse per 
la prima volta tutta la complessità della figura di Don Ruggini e A 
teatrale che lui ha vissuto; e nello stesso tempo anche la necessità di ritornare su 
tanti temi e problemi che da quelle pagine emergono continuamente. Il primo 
passo da fare è la riedizione dei testi di Andrea Mancini e Aristodemo Viviani. 

Chiudo questo breve e disordinato ricordo di Don Ruggini auspicando che 
le ragioni che hanno reso così straordinaria la sua vita e la sua opera e che han- 
no contribuito alla crescita morale e culturale di San Miniato possano tornare 
a interessare le nuove generazioni. Che giovani studiosi possano riprendere in 
mano questa vasta materia storica, riordinare gli archivi dove sono custodite tante 
testimonianze ancora inesplorate, raccogliere l’epistolario disperso, studiarlo e 
renderlo pubblico. 

Fare ricerca rimane oggi il modo migliore per sostenere l’Istituto del Dramma 
Popolare e per onorare degnamente la memoria del suo maggior combattente: 
Don Giancarlo Ruggini, nato a San Miniato l' 11 ottobre su) 1920 e battezzato 
nella Chiesa di Santo Stefano. 


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Apocalittici e integrati in tempi di Covid-19 





FRANCESCO MAGRIS 


La ressa politica e mediatica sul Covid-19 

La drammatica crisi sanitaria ed economica legata alla pandemia del Co- 
vid-19, dopo una relativa pausa nell'estate 2020 che sembrava aprire la strada ad 
un timido ritorno alla normalità, ricomincia ciclicamente a dar segni d’inquie- 
tanti nuove impennate, con l’indice di riproduzione RO che sembra seguire una 
dinamica erratica in cui si alternano fasi di contrazione con altre di drammatica 
ripresa. Come c'è da aspettarsi, questa dinamica riattizza la violenta contrapposi- 
zione fra la gran parte della comunità scientifica — oggi in particolare rappresen- 
tata da bai immunologi ed epidemiologi — che non rinuncia ad utilizzare 
toni allarmistici e quindi a raccomandare l’adozione di protocolli sanitari ispirati 
alla prudenza e alla profilassi, e un pensiero scettico che, se non sempre giunge al 
punto di negare l’esistenza stessa del virus, quantomeno ne relativizza la velocità 
di diffusione e la gravità che non sarebbe peggiore, secondo alcuni, di una nor- 
male influenza stagionale. 

Quest'attitudine viene, ovviamente e violentemente, screditata dalla comu- 
nità scientifica e da alcune forze politiche che, negandone ogni fondamento 
scientifico, la liquidano come “complottista” e “negazionista”. In particolare, la 
maggioranza politica attualmente al governo in Italia è propensa ad attuare e 
pure a rinforzare protocolli sanitari aventi come obiettivo h prevenzione e il ral- 
lentamento dei contagi; questo non solo perché il Governo ha accesso a dati più 
precisi sulla reale gravità e progressione dell'epidemia, ma probabilmente pure 
perché vuole evitare l'accusa d’irresponsabilità qualora l'eventuale aggravarsi della 
crisi fosse imputabile ad una sottovalutazione del rischio e quindi alla mancata 
adozione di misure tempestive ed appropriate. 

L’attitudine ibrida nei confronti della scienza e di come essa propone di gestire 
la pandemia del Covid-19, sembra riprodurre, in un rinnovato contesto, Di dia- 
lettica descritta negli anni Sessanta da Umberto Eco in Apocalittici e integrati. Da 
una parte vi sarebbero gli “apocalittici” odierni, non più aristocraticamente critici 
della cultura di massa, bensì profondamente pessimisti circa il destino dell’Oc- 
cidente e disillusi quanto alla capacità della scienza di frenare o ritardare un de- 
clino politico, sociale ed economico divenuto oramai irreversibile; la scienza, al 
contrario, contribuirebbe, pure volontariamente, ad accelerare questo processo di 
dissoluzione perseguendo un piano perverso di smantellamento, in nome del suo 
sapere incontrovertibile, di tutto un sistema di valori sui quali si fonda la civiltà 
occidentale per instaurare un nuovo ordine etico-politico-economico. È curioso 
osservare come fra gli apocalittici non sia talora difficile imbattersi in un insolito 





!  DEAMS, Università di Trieste e LEO, Università di Orléans. 


15 


Francesco Magris 





e inedito connubio tra forze di estrema destra e di estrema sinistra, che Gadda 
definirebbe “accoppiamenti poco giudiziosi”. 

I moderni “integrati” sarebbero invece coloro che condividono una visione 
entusiasta e ottimista della scienza e attribuiscono ai suoi progressi prodigiosi po- 
teri di risoluzione dei problemi, inclusi quelli sanitari. Nonostante la dura prova 
cui la pandemia del Covid-19 sottopone la tenuta delle complesse articolazioni 
politiche, sociali ed economiche, gli “integrati” non nutrono il minimo dubbio 
sul fatto che la scienza, col tempo, permetterà di superare brillantemente la crisi 
e aprirà la strada ad un avvenire molto più radioso di come lo dipingono alcuni 
pessimisti ontologici. 

La schiera degl “intergrati” è vasta ed eterogenea e sembra ingrossarsi progres- 
sivamente fino a includere noti personaggi mediatici provenienti dalla cultura, 
dallo spettacolo e dallo sport, sn alcuni divi che nel passato hanno costruito 
la loro carriera intorno alla celebrazione iconografica della loro “vita spericolata” 
e che ora invitano con grande enfasi i loro fan ad adottare comportamenti “vir- 
tuosi”. In Italia, pure la Chiesa e i sindacati sembrano aver deciso di collaborare 
con il Governo nell’implementazione e nel rispetto pure di quelle misure che 
limitano l'esercizio e l’espressione delle loro funzioni dite 

L’enfasi martellante e ossessiva con cui a volte si raccomanda il rispetto delle 
regole sanitarie chiamando in causa la responsabilità individuale nei confronti 
di collettività — ad esempio i costi sociali che un'eventuale contagio comporta 
— sembra comunque decretare un passaggio epocale da una concezione della sa- 
lute interpretata come un diritto ad una che invece scorge nella salute e nella sua 
tutela un dovere, sia etico sia politico ed economico. In quest'ottica, l’esperienza 
patologica e le sue cure saranno sempre di più un privilegio dei ceti abbienti, non 
solo per una tradizionale questione economica in termini di risorse disponibili 
per aftrontarle; in nome di un certo benessere materiale si potrà, infatti, pure 
rivendicare una superiore legittimità “morale” ad ammalarsi. 

La polarizzazione radicale del pubblico fra allarmismo e scetticismo, va os- 
servato, è uno dei tipici aspetti di quella che Bauman definisce la “modernità 
liquida”, caratterizzata da un frenetico sforzo d’identificazione e di adattamento 
al “gruppo” con cui condividere, pena l’esclusione, gli stessi oggetti di odio e di 
disprezzo, in una logica comunitaria che conduce inevitabilmente alla rinuncia di 
ampi spazi della libertà individuale. 

Ovviamente la volontà da parte del pubblico di rispettare i protocolli sanitari 
proposti per frenare l'epidemia, siano essi obbligatori o meno, dipende da vari 
fattori. Un ruolo chiave è giocato dalle opinioni individuali sull'efficienza delle 
stesse misure sanitarie, opinioni altamente volatili ed eterogenee in virtù dell’in- 
certezza oggi imperante sul tema ma certamente influenzate dalla divulgazione 
delle periodiche statistiche ufficiali sull'efficacia dei provvedimenti attuati nel 
recente passato in termini di persone infettate, malate e decedute. Ma l’infor- 
mazione ufficiale può essere amplificata o ridimensionata pure dalla copertura 
mediatica dei principali mezzi di comunicazione, i cui toni variano fra l'estremo 
allarmismo e l'estremo scetticismo. Inoltre la credibilità delle misure di conteni- 
mento può essere rinforzata o indebolita a seconda della radicalità e della durata 
delle stesse misure. Per esempio, un prolungato lockdown potrebbe venire perce- 
pito come insostenibile e quindi non ciediule con la conseguenza di non venire 
pienamente rispettato. Ovviamente, pure l’introduzione di sanzioni amministra- 


16 


Apocalittici e integrati in tempi di Covid-19 





tive e penali influisce in maniera non trascurabile sulle decisioni di rispettare o 
meno i protocolli sanitari. 

La guerra mediatica, che comporta conseguenze drammatiche sulla qualità 
e sulla fluidità dell’informazione, influenza in maniera determinante il grado di 
percezione del rischio da parte della gente e la sua volontà di rispettare le misure 
di contenimento della pandemia. Non è infatti un mistero che in molti paesi, 
ad esempio in Italia e in Francia, sotto la spinta dello scetticismo propagato e 
inculcato da certi media, le misure che proibiscono gli assembramenti di persone 
vengono sistematicamente ignorate in alcune circostanze e in alcuni luoohi quali 
discoteche o party privati. 

Se i toni allarmistici transitano soprattutto attraverso i canali d'informazione 
ufficiali e i mass-media più tradizionali — quotidiani, radio e televisione — lo 
scetticismo nei confronti della reale minaccia rappresentata dal Covid-19 è am- 
plificato dalla spettacolare entrata in scena del “sesto potere” mediatico, i social 
network. Se da una parte l'avvento dei social network potrebbe stimolare un pro- 
cesso di democratizzazione dell'accesso all’informazione, dall’altra la loro fruizio- 
ne pressoché illimitata può aprire la strada ad un’anarchia informativa, all’interno 
della quale non solo è assente ogni controllo delle fonti cui si attinge, ma pure i 
vari “bloggers”, “you tubers” e “influencers” piuttosto che informare trovano una 
tribuna propizia per esprimere le proprie opinioni, magari senza poter esibire 
delle adeguate credenziali politiche, culturali o morali. Il pericolo è una prolife- 
razione di fake news (ma pure le fonti ufficiali e i media tradizionali a volte non 
sono esenti da tali responsabilità) e di provocazioni che non di rado degenerano 
in detestabili dichiarazioni di odio e di disprezzo. 

Da qualunque tribuna provenga, lo scetticismo viene spesso sbandierato al 
fine di delegittimare quei governi in carica (ad esempio in Italia, Germania e 
Francia) o quelle forze di opposizione (come in USA e Brasile) che esprimono 
maggiore preoccupazione per una curva epidemiologica con marcate tendenze 
al rialzo. A questo proposito, si cerca di cavalcare il malcontento popolare e la 
legittima preoccupazione delle persone riguardo al loro futuro che viene dipinto 
a tinte fosche qualora fossero adottate nuove drastiche misure di contenimento 
provocando inevitabilmente un'ulteriore e violenta caduta del PIL e dell’occupa- 
zione. Qualcuno si spinge fino al punto d’interpretare le misure restrittive quale 
tentativo disperato del capitalismo, da tempo indebolito, segnato da profonde 
crisi e privato di gran parte della propria credibilità, di sopravvivere a se stesso 
effettuando una svolta autoritaria, magari ispirandosi al modello cinese in cui i 
principi di mercato coesistono efficacemente e senza troppi complessi con del- 
le restrizioni fondamentali delle libertà politiche, sociali e culturali. A_ questo 
proposito, con un’accattivante trovata semantica, si fa riferimento (ad esempio 
il filosofo Diego Fusaro) ad un “capitalismo terapeutico” che sarebbe l'aspetto 
organizzativo con cui il “nuovo ordine mondiale” cercherebbe di riconfigurarsi 
per non soccombere. Esso perseguirebbe un disegno egemonico basato su una 
progressiva plebeizzazione dei ceti medi produttivi e di quelli popolari; vedendosi 

ure negata e derisa la propria identità di classe, questi abbandonerebbero ogni 
di di lotta per ridursi a facile strumento di controllo asservito alle esigenze del 
capitale globalizzato e transfrontaliero. Dietro tale piano si celerebbero volti noti 
della finanza internazionale, quali George Soros o Bill Gates, il cui attivismo pre- 
datorio, in sinergia con l’establishment politico occidentale, verrebbe esercitato 


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Francesco Magris 





sotto la copertura di una filantropia e umanitarismo militanti. 

La relativizzazione dei pericoli reali del Covid-19 si accompagna a volte a 
spiegazioni alternative a quelle ufficiali sulla sua origine, che non sarebbe naturale 
ma Lu di qualche manipolazione umana, fra l’altro suggerita dal celebre pre- 
mio Nobel per la medicina Luc Montagnier. Si cerca in tal modo di discreditare 
l’intero insieme di valori, credenze e norme che fungevano da collant sociale in 
quanto intorno ad essi si formava un certo consenso generale, e si seminano in- 
vece sospetti e diffidenza. 

Raduni politici vengono di frequente organizzati col proposito di violare le 
misure sanitarie come l’uso della mascherina e il distanziamento sociale; il tutto 
in un clima di sovraeccitato e animoso antagonismo, non esente spesso da un 
linguaggio nazionalistico e xenofobo che denuncia l’ingerenza dei poteri sovra- 
nazionali nella politica interna che riguarda la gestione dell'emergenza sanitaria e 
del fenomeno migratorio. Si giustifica quest'azione politica in nome della libertà 
individuale che sarebbe minacciata dalle misure liberticide di contenimento della 
pandemia, in quanto rappresenterebbero un'indebita interferenza pubblica nella 
sfera privata, come sostiene pure il movimento no-vax, in qualche modo affine 
nei suoi tratti scettici e anti-sistema, contestando l’obbligatorietà dei vaccini. 

Sorprendentemente, il background ideologico di tali movimenti che fanno 
appello in maniera martellante al valore inalienabile della libertà individuale, af- 
fonda spesso le sue radici in teorie politiche ed economiche di matrice statalista, 
tradizionalista e autoritaria che identificano proprio nell’individualismo, nella li- 
bertà economica e nella deregolamentazione finanziaria e morale la madre di tutti 
i mali nonché dello stesso e inevitabile declino dell'Occidente. Esempi di questo 
sono il neopaganesimo terzomodialista di Alain De Benoist o il comunitarismo 
tradizionalista di Marcello Veneziani e, più di recente, la “quarta teoria politica” 
del pensatore russo Aleksandr Dugin, sa auspica un'inedita alleanza strategica 
fra comunismo sovietico e ortodossia religiosa per creare un argine politico e cul- 
turale a quella che egli considera la dittatura del capitalismo apolide e transfron- 
taliero e della sua “aristocrazia finanziaria” svuotata di ogni residuo spirituale. 

Alcuni paesi, come l'Ungheria di Viktor Orban, hanno chiamato in causa lo 
“stato d'emergenza” per effettuare delle virate autoritarie e sospendere la demo- 
crazia. Ma pure governi di centrosinistra, come in Italia, sono non di rado accu- 
sati di voler “politicizzare” la crisi sanitaria per rafforzare il controllo sui cittadini 
e prolungare la loro permanenza alle redini del comando. E la dottrina di Carl 
Schmitt, secondo la quale la “capacità di decidere sullo stato di eccezione” costi- 
tuirebbe il connotato essenziale della sovranità; solo nello “stato d’eccezione” e 
nella capacità di decidere su di esso, il governo dimostra di possedere una reale 
autorità che si estende oltre le pratiche UL “governance” ini 

Come ricorda, fra gli altri, Giorgio Agamben, la tesi di Schmitt ha costituito 
un importante supporto teorico per i provvedimenti che consentirono al nazi- 
smo di rafforzare il proprio potere, ma trovò pure alcune sue formulazioni negli 
anni Settanta, ad esempio in America Latina, quando fu invocata allo scopo di 
rovesciare le istituzioni democratiche di alcuni paesi in nome della lotta contro 
movimenti additati come rivoluzionari e sovversivi. Pure in Italia, negli anni bui 
del terrorismo, si esagerarono — secondo alcuni — i pericoli derivanti dalla sovver- 
sione “rossa” e “nera” per giustificare l'adozione di misure di carattere eccezionale, 
in conformità con quella che è stata teorizzata come la “strategia della tensione”. 


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Apocalittici e integrati in tempi di Covid-19 





Naomi Klein in Shock economy a questo proposito è chiara: le politiche neo- 
liberiste (privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, compressione dei salari) sono 
spesso i. senza il consenso popolare, approfittando di uno shock, provo- 
cato espressamente per questo scopo (si pensi al golpe cileno nel 1973), oppure 
di natura esogena, come l’uragano Katrina nel 2005. Lo stesso Mario Monti, in 
una conferenza tenuta presso la Luiss il 22 febbraio 2011, ha dimostrato una 
sconcertante onestà dichiarando, a supporto delle misure d’austerità che si ap- 

restava a varare, che esse possono trovare un consenso popolare solo quando 
‘il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle 
perché c'è una crisi in atto, visibile, conclamata” aggiungendo quindi che “non 
dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi, per 
fare passi avanti”. 

Molti studi scientifici recenti si propongono di fornire alle autorità pubbliche 
degli efficienti strumenti di previsione sulla progressione dell’epidemia; in parti- 
Le di come essa possa venire rallentata dai vari protocolli sanitari e da come e 
quanto essi vengono rispettati. Inoltre, valutando l'impatto della comunicazione 
sulle decisioni o meno di rispettare i protocolli, si possono suggerire alle autorità 
gli organi di comunicazione da privilegiare e quelli da controllare, ovviamente 
nel rispetto della libertà di espressione, al fine di indurre gli agenti ad adottare 
comportamenti compatibili con un'inversione verso il basso della curva epide- 
miologica. 

Se la scienza mai come oggi sembra sotto accusa, la sua risposta è anch'essa 
martellante e decisa. Essa non perde l'occasione di contrapporre la certezza e 
l’irrefutabilità di molte sue teorie e scoperte allo scetticismo scientifico, che essa 
liquida come puro prodotto dell’irrazionalità, della superstizione e dell’ignoranza 
di un'umanità completamente sprovvista di cultura scientifica. Celebri scienziati, 
come il premio Nobel per la fisica Richard Feynman — autore pure di accattivanti 
e agili saggi divulgativi, in cui espone le proprie idee sull'attività di ricerca e il 

iacere, pure estetico, che deriva dal suo esercizio — già nel passato hanno cele- 
o l'estensione potenzialmente illimitata del metodo scientifico quando sia 
applicato correttamente, rivendicando in particolare la necessità di affrancarlo da 
ogni residuo irrazionale e spirituale. Il risultato è un rifiuto totale, ad esempio, di 
ogni possibile conciliazione fra fede e ragione, fede e logica, fede e scienza, come 
invece auspicava Benedetto XVI. 

Tuttavia, come evidenziano alcuni scienziati, sembra oggi assente un reale con- 
senso scientifico sull'origine, sui meccanismi di propagazione, sulla reale carica 
virale e sul reale tasso di mortalità del Covid-19; in altre parole, manca una “vera” 
teoria, che si possa quindi prestare a una serie di test atti a verificarla o a confu- 
tarla, e che possa oftrire degli efficaci strumenti di orientamento e di previsione 
e quindi di contrasto dell'epidemia. Vi sono invece scienziati che, nonostante la 
loro inflazionata presenza mediatica, sembrano non spingersi oltre a tautologiche 
e fragili formule del tipo “post hoc, ergo propter hoc”, confondendo, forse pure 
volutamente, relazioni di causalità con quelle di semplice correlazione. 

In tal modo la scienza si espone ad un'aspra offensiva da parte di chi l’accusa 
di superbia, di arroganza e pure di essere asservita a poteri politici ed economici 
a fini propagandistici ed elettorali. Qualcuno suggerisce che gli scienziati do- 
vrebbero, in un contesto incerto e mutevole come quello odierno, utilizzare una 
retorica più discreta ed interlocutoria, magari riconoscendo apertamente come 


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Francesco Magris 





lo stato di avanzamento della ricerca non sia in fondo ancora approdato a delle 
conclusioni chiare e definitive sul Covid-19. 

La forza della scienza, infatti, è esaltata proprio quando, liberatasi dalle pretese 
di approdare a verità assolute e incontrovertibili, essa si mette invece a riflettere 
sui suoi stessi limiti, s'interroga su se stessa e procede, come auspicava Francis 
Ysidor Edgeworh, per “approssimazioni successive” e non per troppo ambiziosi, 
improvvisi e discontinui balzi in avanti. La scienza deve nutrirsi della consapevo- 
lezza che l’accesso alla verità è solo un obiettivo asintotico: ci si avvicina sempre 
di più senza mai tuttavia raggiungerla, evitando di ridursi al ruolo di custode e 
vestale di un sapere iniziatico ed inaccessibile a chi non appartiene alla comuni- 
tà scientifica e alla quale verrebbe affidato in esclusiva il compito di guidare ed 
emancipare le masse dall’ignoranza e dal pregiudizio. 

Compito della scienza non è quello di dettare il comportamento delle masse, 
bensì di dialogare con i cittadini i quali non possono che trarre giovamente da 
una cultura pure scientifica. Questo appare ancora più urgente alla luce di come 
il sapere scientifico in Italia non versa in buone condizioni: ad esempio, un rap- 

orto OCSE del 2017 colloca gli italiani al penultimo posto nella capacità di 
hi di calcolo. Tuttavia sembra i l'ignoranza scientifica non susciti particolari 
complessi, tanto che la sua ammissione pubblica è accompagnata da un fare ci- 
vettuolo. Come se fosse un vezzo, un aspetto simpatico della persona, cui invece 
non si perdona il fatto di non aver letto l’intera Recherche o il libro vincitore 
dell’ultimo premio Strega. 

Rigorosi scienziati — quali ad esempio Arnaldo Benini, Carlo Rovelli e Paolo 
Zellini — sono per fortuna anche maestri di una divulgazione scientifica alta- 
mente stimolante ed accessibile. Pure il filosofo Giulio Giorello ha contribuito a 
popolarizzare il sapere scientifico, insitendo come esso significhi pure creatività, 
ingegno e vita stessa in quanto si colloca nel cuore ia esistenziale 
ed artistica, magari a volte rompendo certi presupposti morali, inclusi alcuni 
suoi propri, come fece all’epoca Giordano Bruno. Lo scientismo tetro e acritico 
rischia invece di scivolare nell’Utopia totalitaria positivista di Auguste Compte 
che, in nome di un “ordine e progresso” scientifici illimitati che garantirebbero la 
convergenza verso una verità unica e condivisa all'unanimità, rifiutava e liquidava 
ogni dibattito, dissenso e confronto dialettici quali residui rozzi, primitivi e or- 
mai superati degli stadi “religiosi” e “filosofici” dell'umanità, precedenti l'avvento 
trionfale di quello “positivo”. 

La scienza, come sostenevano Carl Friedrich Gauss o Robert Musil per voce 
del suo Torless, deve essere aperta al dialogo e al confronto; per questo motivo 
deve riflettere sui dubbi e sulle critiche 1 le vengono rivolti, ancora di più 
su quelli provenienti dal suo stesso interno. Lo spirito scientifico autentico si 
contrappone ad ogni visione dogmatica e rigida della realtà per rimanere invece 
fedele al principio della laicità, che permette di delimitare la propria sfera di 
competenza da quelle che pertengono invece ad altri ambiti, come quello della 
morale, della politica, del sentimento e delle credenze individuali. 

Già a volte nel passato la scienza ha dimostrato un certo irrigidimento dogma- 
tico come, ad esempio, quando reagì alla misteriosa scomparsa di Ettore Majo- 
rana. Se, almeno secondo l’affascinante interpretazione che ne dà Roberto Finzi, 
essa fu frutto di un tormentato disincanto da parte del grande scienziato sul senso 
stesso ed ultimo dell’intera attività di ricerca, fu invece imputata sbrigativamente 


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Apocalittici e integrati in tempi di Covid-19 





e ipocritamente dalla comunità scientifica —intollerante di fronte ad ogni messa 
in discussione dei suoi metodi ed assiomi — ad una crisi mistica o, il che molti 
considerano lo stesso, alla follia. 

Di fronte alle alternative, entrambe nichiliste e anti-dialettiche, rappresenta- 
te, da un lato, dallo scientismo acritico degli “integrati” e, dall’altro, dallo scet- 
ticismo reattivo e regressivo degli “apocalittici”, forse mai come oggi si rivela 
utile e prezioso il suggerimento di Umberto Eco di mantenersi in una posizione 
equidistante che medi e soppesi con equilibrio e raziocinio fra esigenze sanitarie, 
emergenza economica e libertà di espressione. 


Le questioni irrisolte del metodo scientifico 

La comprensione della crisi sanitaria in corso e l'individuazione di quei pro- 
tocolli con cui può essere con maggiore efficienza contrastata, abbiamo visto, 
richiedono come condizione preliminare una riflessione, che non sia solo su- 
perficiale, sul ruolo della scienza, sulle sue enormi potenzialità ma pure sui suoi 
inevitabili limiti. Con l’esplosione del metodo scientifico, avvenuta nel corso del 
XVI secolo, gli scienziati, non a caso, si sono profondamente e ossessivamente 
interrogati ii senso e sul contenuto del loro oggetto di studio; in particolare essi 
si sono confrontati col fumoso e fuggente concetto di verità, con la possibilità 
concreta di poterne decretare l’esistenza oggettiva e di coglierla nella sua interezza 
o con un grado più o meno elevato di approssimazione. Tutti questi interrogativi 
hanno sollevato pure la questione delle procedure logiche ed empiriche più effi- 
caci per valutare i progressi e le scoperte scientifiche; in altre parole per separare 
il vero dal falso, le asserzioni che godono di un certo fondamento da I che 
ne sono sprovviste. 

In particolare, sin da Platone ed Aristotele, passando attraverso Cartesio, 
Kant, l'empirismo inglese e il positivismo francese, ci si è domandati se i sensi 
permettano di accedere alla realtà oggettiva — ad esempio per mezzo del meccani- 
smo del “rispecchiamento” del dato oggettivo nell’osservatore — o se l’esperienza 
empirica ci restituisca una sua immagine distorta o, ancora e seguendo Hegel, se 
il reale sia in fondo pure un prodotto del pensiero. Ma è soprattutto nel corso del 
XX secolo che è fiorita e si è sviluppata quella branca del sapere e della filosofia fi- 
nalizzata a studiare il rapporto incerto e ambiguo fra indagine scientifica e verità: 
epistemologia, ossia la teoria della conoscenza. 

Nel corso degli anni Venti del Novecento si affermò, sulla scia dell’empirio- 
criticismo di Ernst Mach, una teoria epistemologica destinata ad influenzare per 
i due decenni successivi il pensiero scientifico e non solo scientifico. Tale teoria si 
compattò nel “neopositivismo logico” e fu elaborata da un gruppo di pensatori, 
fra i quali Moritz Schlick, Rudi Carnap, Otto Neurath, Philipp Frank, Hans 
Hahn, che parteciparono al celebre “Circolo di Vienna”, le cui riunioni videro 
pure la presenza occasionale di Ludwig Wittgenstein. Il neopositivismo logico, 
sostanzialmente, propone lo sviluppo, all’interno di una teoria scientifica, delle 
sue strutture logiche — preferibilmente espresse nel linguaggio matematico — che 
ne costituirebbero l'elemento “positivo”, per poi procedere ad un controllo em- 
pirico (momento “normativo”) delle sue cla. ossia la sua conformità ai 
fatti. In tale ambito, una teoria dotata di una certa struttura logica possederebbe 
una valenza pure normativa solo qualora venisse, possibilmente in maniera reite- 
rata, verificata sperimentalmente. 


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Francesco Magris 





Tuttavia, nel corso degli anni Trenta, Karl Popper pubblica la celebre Logica 
della scoperta scientifica, in cui critica il criterio verificazionista in virtù dei suoi 
limiti logici dovuti al fatto che una verifica definitiva richiede un numero infi- 
nito di esperimenti. Popper osserva come una teoria sia invece facilmente “falsi- 
ficabile”, in quanto ciò richiede una sola osservazione empirica contraria che la 
smentisce immediatamente. Ad esempio, l’affermazione “tutti i corvi sono neri” 
non sarà mai verificabile con certezza, neppure in seguito ad un numero arbitra- 
riamente elevato di osservazioni di corvi neri, mentre l'apparizione di un unico 
corvo bianco sarà sufficiente a confutarla. 

Il criterio falsificazionista viene utilizzato per separare le scienze considerate 

“vere” da quelle ritenute “false” o, piuttosto, vaghe ed ambigue: secondo Popper, 
si può, infatti, fare riferimento ad una teoria scientifica solo qualora essa compor- 
ti delle asserzioni che risultano falsificabili, ovvero che possano venire sottoposte 
ad un numero arbitrariamente elevato di test empirici. Questo spiega perché 
alcune discipline, ad esempio la psicanalisi o l'economia, al contrario della fisica 
o della biologia, non rientrano pienamente nella categoria delle scienze: le loro 
asserzioni, in virtù dell’ambiguità con cui sono formulate e Ha difficoltà di esse- 
re testate in laboratorio, non risultano, infatti, confutabili, al pari della credenza, 
come suggerisce Dario Antiseri, dell’esistenza degli dei dell’ Olimpo. 

Il criterio falsificazionista stabilisce pure l'orizzonte temporale all’interno del 
quale una teoria rimane valida insieme al processo logico ed empirico secondo il 
quale si articola il suo superamento. Una teoria, infatti, secondo Popper, rimane 
valida, per quanto quasi sempre provvisoriamente, fino al momento in cui viene 
falsificata. Man mano che essa supera sempre più test empirici, essa diventa più 
attendibile, o, nel linguaggio di Popper, il suo grado di “corroborazione” aumen- 
ta, per quanto la smentita empirica sia sempre in agguato. È questo dunque lo 
schema secondo il quale si sviluppa e articola la dialettica che vede un costante 
avvicendamento di teorie non ancora confutate empiricamente e teorie invece 
ormai falsificate. 

Come Popper è ben consapevole, vi sono tuttavia dei grossi problemi pratici 
legati alla procedura della falsificazione. Ad esempio, se un test empirico non 
riproduce i risultati previsti dalla teoria, non sarà mai del tutto evidente se ciò sia 
dovuto all’incoerenza della teoria stessa oppure ad errori nella procedura speri- 
mentale o ancora a fattori esogeni fuori d lano umano. Per questa ragione, 
ogni singola esperienza empirica deve essere effettuata neutralizzando l’influsso 
delle variabili non coinvolte nella struttura logica della teoria stessa, secondo la 
tipica formula del “ceteris paribus”. Ma ciò risulta spesso un compito arduo se 
non impossibile qualora le variabili che appaiono nel modello esplicativo sia- 
no potenzialmente di numero spropositato, come nel caso delle scienze sociali. 
Sotto questo punto di vista, non è ad esempio possibile riprodurre e valutare 
per mezzo di esperimenti controllati gli effetti di un incremento dell’offerta di 
moneta sull’inflazione — sempre secondo la formula “ceteris paribus” — in quanto 
le variabili coinvolte nel modello sono pressoché illimitate e quindi impossibili 
da isolare. 

Il falsificazionismo popperiano presuppone implicitamente che ogni evidenza 
empirica possa essere “. orme al massimo ad un'unica teoria, altrimenti non 
sarebbe possibile individuare qual’è quella precisa che un'eventuale osservazione 
empirica discordante mette in discussione. A quest'osservazione, in alcune opere 


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Apocalittici e integrati in tempi di Covid-19 





quali La scienza e i dati del senso, risponde negli anni Sessanta il logico Wilard 
Quine, che propone un “relativismo ontologico” secondo il quale ogni dato em- 
pirico può venire spiegato a partire da diverse teorie pur fra loro conflittuali. 
Questo conduce ad un rifiuto sia del verificazionismo sia del falsificazionismo, in 
quanto il confronto di una teoria con l'evidenza empirica non permette di espri- 
mere nessun giudizio definitivo. Infatti, anche qualora i dati empirici confutasse- 
ro una certa teoria, questa potrebbe essere salvata per mezzo di qualche modifica 
appropriata. Il pensiero scientifico interagisce quindi con l'evidenza empirica ed 
effettua, sulla base di quest'ultima, delle opportune revisioni che gli permettano 
eventualmente di superare un confronto problematico con la realtà. 

All’inizio degli annni Sessanta, nella sua principale opera La struttura delle 
rivoluzioni scientifiche, Thomas Kuhn propone il superamento del falsificazioni- 
smo puro di Popper e s’interroga sul significato di ‘paradigma scientifico”. Egli 
lo identifica nella condivisione di una serie di convinzioni all’interno della co- 
munità scientifica, facendo dunque astrazione dal loro concreto grado di verosi- 
miglianza con la realtà. Finché le credenze prevalenti all’interno della comunità 
scientifica sono stabili e non sono oggetto di critiche rilevanti, il paradigma do- 
mina il dibattito e mantiene minoritarie le alternative proposte da altri scienziati. 
Tuttavia all’interno di un paradigma emergono sempre delle questioni enigma- 
tiche che richiedono risposte appropriate. Nella misura in cui le risposte offerte 
dal paradigma dominante sono sufficientemente chiare e convincenti, esso supera 
brillantemente l’esame e rimane allo stadio di quella che Kuhn definisce la “nor- 
malità”, una sorta di “routine” scientifica. 

Tuttavia, come sempre avviene, ad un certo punto all’interno di un paradigma 
sorgono delle “anomalie”, ossia delle questioni alle quali esso si rivela capace di 
rispondere solo con grande difficoltà e che aprono la strada a spiegazioni alterna- 
tive. Se il numero di anomalie all’interno di un determinato dii comincia 
a moltiplicarsi, si può assistere ad uno “slittamento di paradigma” ossia all’emer- 
gere di un nuovo paradigma caratterizzato da una serie di nuove convinzioni e 
risposte. 

Ad un certo punto arriva il momento in cui il nuovo paradigma risulta capace 
di offrire delle spiegazioni migliori alle anomalie che erano affiorate all’interno 
del vecchio paradigma, anomalie divenute nel frattempo troppo numerose per 
non minarne l’attendibilità. E a questo punto che ha luogo una “rivoluzione 
scientifica” per mezzo della quale il nuovo paradigma soppianta, nel seno della 
comunità scientifica, il vecchio. Tuttavia la rivoluzione scientifica non è né rapida 
né semplice; al contrario, il processo di avvicendamento fra paradigmi può essere 
molto lungo e tortuoso, in virtù dell’inerzia cui sono sottoposte le vecchie teorie 
e alla difficoltà e lentezza con cui le nuove cominciano a circolare fra la comunità 
scientifica, che ne stabilisce la forza persuasiva e il grado di consenso. Questo 
spiega, secondo Kuhn, il fatto che non di rado le teorie maggiormente in voga 
non sono necessariamente le migliori. 

Successivamente, sempre negli anni Sessanta, Imre Lakatos, in particolare ne 
La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, cercherà di conciliare il falsi- 
ficazionismo di Popper, secondo il quale una teoria scientifica deve venire ab- 
bandonata sulla base, in pratica, di una sola osservazione contraria, con l’idea di 
Kuhn secondo la quale la scienza è invece caratterizzata da lunghi periodi di “nor- 
malità”, nel corso dei quali certe teorie continuano a venir sostenute e condivise 


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Francesco Magris 





dalla comunità scientifica nonostante vengano riscontrate delle “anomalie” che 
in parte le smentiscono empiricamente. Lakatos, a questo fine, rifiuta il carattere 
decisivo del falsificazionismo e riprende l’analisi di Kuhn, rilevando anch'egli 
come la teoria predominante in una data epoca non è per forza quella vera e possa 
sopravvivere a delle smentite empiriche. 

Tuttavia, piuttosto che porre l’accento sulla posizione dominante di un dato 
paradigma lb interno della comunità scientifica, Lakatos ipotizza l’esistenza di 
più “programmi di ricerca” in competizione fra loro, i quali si basano su postulati 
accettati senza riserve da parte di coloro che si riconoscono in essi. Questi po- 
stulati costituiscono il “nucleo duro” del programma di ricerca e da essi derivano 
delle implicazioni che devono essere successivamente testate empiricamente. Tut- 
tavia un programma di ricerca non è immediatamente smentito — e quindi non 
deve venire abbandonato — qualora sia sottoposto a delle falsificazioni, ossia non 
superi alcuni test empirici, in quanto esibisce un certo grado di resistenza. Gli 
scienziati che aderiscono ad un programma di ricerca difendono, infatti, il suo 
nucleo teoretico dai tentativi di Bisfcazione cingendolo di una serie di “ipotesi 
ausiliarie”. 

Lakatos, respingendo il falsificazionismo di Popper secondo il quale una teoria 
smentita sperimentalmente (ossia una teoria alla quale la natura dice chiaramente 
“no”) stabilisce che piuttosto di parlare di teorie “false” bisogna fare riferimento 
a delle teorie che risultano “incoerenti” alla prova dei fatti. Ma questa incoerenza 
può essere risolta senza abbandonare il programma di ricerca e senza intervenire 
sul nucleo della teoria, bensì modificando in maniera appropriata le ipotesi ausi- 
liarie. Se tali modifiche sono in grado di offrire nuove spiegazioni alle incoerenze 
emerse nel frattempo, il nucleo non viene intaccato e il programma viene definito 
“progressivo”. Altrimenti, qualora le modifiche non apportino i risultati sperati in 
termini di nuovi fatti, ossia il lavoro di falsificazione proceda in maniera Lu 
e reiterata, il programma entra nella sua fase “degenerativa”. E a questo punto che 
si può assistere all'affermazione di un programma di ricerca nuovo che può sop- 
piantare il vecchio, anche se la dinamica \. resiede all’avvicendamento è lunga 
e tortuosa in virtù di alcune inerzie, fra cui l'abitudine e la consuetudine, da parte 
della comunità scientifica, di condividere certe pratiche e credenze. Lakatos, in 
tal modo, oftre una spiegazione al fatto che spesso si assiste alla coesistenza di 
teorie diverse e a volte pure contraddittorie fra loro. 

Negli anni Settanta, Paul Feyerbend, nella sua celebre opera Contro il metodo 
non scevra di un contenuto pure provocatorio, ribadisce la possibilità, già evocata 
sia da Kuhn sia da Lakatos, di come diverse teorie possano coesistere pacifica- 
mente. Feyerbend esacerba la polemica contro il aliiizion ano popperiano, 
sottolineando come esso sia fuorviante in quanto nessuna teoria interessante è 
mai coerente con tutti i fatti che la riguardano. Feyerbend, in tal modo, non solo 
riconosce il pluralismo scientifico come una configurazione naturale che dovreb- 
be emergere in ogni dibattito scientifico, ma pure lo esalta da un punto di vista 
normativo, rilevando come la varietà degli approcci giovi all’intero progresso del 
sapere, in quanto moltiplica il ventaglio delle spiegazioni offerte ai fatti osservati. 
Proprio al fine di massimizzare il numero delle alternative paradigmatiche, Feyer- 
bend propugna un anarchismo metodologico finalizzato a rimuovere quanti più 
possibili limiti alla creatività scientifica. La scienza, in altre parole, deve venire 
affrancata da ogni costrizione metodologica, anche correndo il rischio di appro- 


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Apocalittici e integrati in tempi di Covid-19 





dare ad un relativismo scientifico che porrebbe sullo stesso piano, ad esempio, la 
dignità della fisica o della chimica e quella dell'astrologia. 

Un approccio epistemologico alternativo è quello “bayesiano”, sviluppato e 
diffuso in particolare dal matematico ed economista italiano Bruno de Finetti ne- 
gli anni Sessanta e Settanta. Quest’approccio mira a ridimensionare le ambizioni 
della scienza a lanciarsi alla ricerca del “certo”, considerate vacue e velleitarie, per 
consigliare invece di inoltrasi nel territorio dell’’incerto”, un concetto misurato 

er mezzo dello strumento probabilistico soggettivo, inteso, scrive de Finetti, 
‘come il grado di fiducia di un dato soggetto riguardo al verificarsi di un dato 
evento”. In altre parole, ogni asserzione dovrebbe essere caratterizzata da un gra- 
do di fiducia che il soggetto attribuisce al suo contenuto di verità; la conoscenza 
infatti non è mai assoluta e definitiva bensì solo parziale, frammentaria e mute- 
vole in funzione delle circostanze e del tempo. Questo permetterebbe, secondo 
de Finetti, di superare il tradizionale dogmatismo dell’oggettività del mondo che 
oppone frontalmente il “vero” al “falso”, per sostituirlo con procedure valutati- 
ve probabilistiche finalizzate ad inferire piuttosto il “probabile” dal “probabile”. 
Ovviamente, all’interno di tali procedure, de Finetti è ben consapevole di come 
si corra il rischio di cadere nell’arbitrarietà; a tal fine egli richiede quale precon- 
dizione che tali procedure soddisfino degli assiomi di coerenza logica, pena la ne- 
gazione del loro status di scientificità. Il certo e l’impossibile corrisponderebbero 
dunque a due estremi dotati di scarso fondamento logico e dovrebbero allora ve- 
nire quanto più possibile espunti dallo stesso linguaggio scientifico; ogni cosa, fe- 
nomeno e asserzione si collocano piuttosto nel terreno del più o meno probabile. 

Le conseguenze filosofiche, solaio e sociali di quest'approccio probabilisti- 
co soggettivo sono evidenti: l'estrema cautela con cui si fa riferimento alla cate- 
goria dell’“impossibile”, sostituito piuttosto dal concetto meno stringente e più 
elastico dell'“improbabile”, fornisce un fondamento logico affinché l’anelito a 
trasformare e migliorare il mondo — non più regolato da leggi probabilistiche 
oggettive e indipendenti dal soggetto che si troverebbe dunque nell’impossibilità 
logica e pratica di modificarle — possa venire convertito in pratica. L'Utopia non 
è più dunque un vacuo e ingenuo velleitarismo di natura idealista ma scopre in- 
vece tutto il suo potenziale realismo, che a livello politico si traduce nella versione 
pragmatica del riformismo per mezzo del cui esercizio l’uomo può incidere sul 
suo destino e su quello della società intera, avendo come ostacolo da superare 
unicamente il proprio “grado d’ignoranza”. 

La natura probabilistica del rapporto che lega il soggetto con il proprio ogget- 
to d'osservazione ha trovato la sua definitiva conferma nella fisica dei quanti con 
il principio d’indeterminazione di Heisenberg. Esso stabilisce non solo l’impos- 
sibilità di calcolare con certezza e simultaneamente la posizione e la velocità di 
una particella subatomica ma pure come queste variabili siano irrimediabilmente 
influenzate dalla presenza dello stesso soggetto osservante. Si giunge quindi alla 
conclusione che è impossibile separare il soggetto dall’oggetto non solo pratica- 
mente ma pure logicamente, come vorrebbe invece un certo empirismo naif in 
quanto fra i due scorre un flusso circolare d'influenza reciproca. 


Il ruolo ambiguo della verità nelle discipline umanistiche 


Come si è visto, in tutte le discipline scientifiche il concetto di verità, al con- 
trario dell’aspirazione platonica a coglierla nella sua totalità, è vago, ambiguo e 


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Francesco Magris 





vaporoso. Tuttavia, i risultati ottenuti, nonché le procedure metodologiche adot- 
tate, nelle scienze definite “dure” sono più facilmente sottoponibili a dei con- 
trolli e a delle valutazioni. Questo è principalmente dovuto al fatto che le loro 
asserzioni possono in una certa misura venire testate empiricamente per mezzo 
di esperimenti controllati che permettono quindi di esprimere giudizi dotati di 
un certo grado di oggettività e quindi di affidabilità. Diverso invece è il discorso 
sulle scienze umane e sociali, in virtù della loro difficoltà ad essere sottoposte a 
confronti diretti e non distorti con la realtà. Questo spiega, almeno in parte, la 
pluralità di punti di vista, di metodologie e di approcci 4 da sempre anima il 
dibattito all’interno delle scienze sociali, al contrario del maggiore grado di omo- 
geneità paradigmatica che regna fra le scienze della natura. 

Le scienze umane includono una vastissima gamma di discipline le quali, per 
quanto abbiano dei tratti molto diversi fra loro, condividono come oggetto di 
analisi l’uomo, calato nelle sue variegate dimensioni, a volte contrastanti e dif- 
ficilmente riconducibili l'una all’altra: ad esempio la psicologia, l'economia, la 
sociologia, l’arte, la storia o ancora la politica. Se questi ambiti ci sono familiari 
in quanto ci coinvolgono pure personalmente, tuttavia, se analizzati da vicino, 
essi sembrano sfuggire ad ogni definizione precisa, come il concetto di tempo per 
Sant'Agostino, che alla domanda su che cosa esso fosse, rispondeva “Se nessuno 
m'interroga, lo so. Se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so”. 

Le scienze umane prese nel loro insieme danno vita ad una pluralità di pro- 
spettive, aventi tutte per oggetto l'elemento comune ed accumunante rappresen- 
tato dalle relazioni e interazioni che si vengono a stabilire fra gli uomini in ogni 
particolare circostanza. L'uomo, al contrario degli animali, al momento della na- 
scita è, infatti, un soggetto indeterminato e provvisorio, privo di caratteristiche 
definitive; è invece col tempo che si perfeziona e che assume progressivamente 
un'identità per mezzo dell’esperienza, dell'educazione che gli viene trasmessa, dei 
luoghi o delle persone che si trova a frequentare, delle comunità in cui si trova a 
vivere. L'uomo è dunque in perpetuo divenire, sempre mutevole, mai uguale a se 
stesso: la sua evoluzione avviene, come scrive Marco Aime in Pensare altrimenti, 
“grazie a ciò che chiamiamo cultura, che in fondo è quella parte di natura che 
spetta a noi realizzare”. 

Le scienze umane s’inoltrano nei diversi ambiti in cui la nostra semplice con- 
dizione di esseri umani necessariamente si specchia. In ognuno di essi emerge una 
modalità di relazionarsi agli altri; ad esempio quella di convivere, di comunicare, 
di confrontarsi, di scambiare o di donare. Le relazioni umane possono pure ab- 
bracciare le cose, ad esempio il nostro rapporto con la natura, con il corpo, con la 
mente e con il cibo, ma abbracciano pure entità trascendenti, che per alcuni sono 
delle creazioni necessarie all'uomo per far fronte alle sue paure. 

Se dubbio è lo stesso carattere scientifico delle discipline umanistiche, le loro 
asserzioni sembrano allora gravitare piuttosto nell'orbita vaga e incerta dell’opi- 
nione; a questo proposito, non va dimenicio che “doxa”, “opinione”, indica 
l'opposto di verità. Non deve, infatti, sorprendere come spesso l’attività di ricerca 
nel campo delle scienze umane sia, inconsapevolmente o no, condizionata da una 
visione del mondo e da un'ideologia che n stesso studioso condivide a priori e 
si propone di diffondere. I risultati ottenuti, che eventualmente confermeranno 
le “preferenze” ideologiche e politiche dello scienziato, godranno quindi solo in 
apparenza del marchio certificativo della “neutralità” scientifica. 


26 


Apocalittici e integrati in tempi di Covid-19 





L'impegno “politico” che spesso ispira la ricerca nel campo umanistico trova 
un formidabile supporto nel linguaggio per mezzo del quale esso si esprime. La 
scelta di un efficace approccio retorico può, infatti, contribuire in maniera deter- 
minante alla penetrazione delle proprie opinioni nel mercato delle idee. Questo, 
infatti, si rivela a volte sensibile, piuttosto che al contenuto oggettivo di verità 
insito in un determinato pensiero, all'eleganza formale e sintattica per mezzo del 
quale viene comunicato, eleganza che alla fine ne determina la capacità di sedu- 
zione e di persuasione. Certamente, pure il linguaggio utilizzato dalle scienze del- 
la natura, ad esempio quello algebrico-geometrico, può assumere delle varietà più 
o meno accattivanti, affascinanti e quindi persuasive. Tuttavia esso è vincolato a 
muoversi negli spazi ristretti delle strutture logico-matematiche, con il risultato 
di lasciare pochi margini di libertà alla creatività stilistica. 

Le scienze umane, molto più di quelle della natura, devono pure fare i conti 
con i vincoli sociali ed istituzionali che influenzano e pure determinano l’accet- 
tabilità o meno dei loro contenuti. Il pluralismo ideologico e metodologico che 
caratterizzerebbe l’attività di ricerca nel campo umanistico e sociale, infatti, è, 
secondo alcuni, solo apparente. Al suo interno, non a caso, è sempre riscontrabile 
un “mainstream” che stabilisce le linee guida e l'agenda scientifica e include la 
maggioranza degli studiosi. Se l’esistenza di una corrente dominante può, da un 
lato, essere favorevolmente accolta come l’affermazione di un sapere “migliore”, 
dall’altro si rischia una deriva “autoritaria” che conduce alla marginalizzazione 
delle alternative minoritarie e, magari, alla diffusione e imposizione incontrastata 
di un “pensiero unico”. La supremazia del “mainstream” si rafforza a volte pure 
per mezzo della rivendicazione di una sua presunta superiorità “morale”, che ten- 
de a stigmatizzare gli avversari di “immoralità”, “scorrettezza” e a volte pure di 

sovversione”. 

La corrente dominante, inoltre, tende a rafforzarsi a scapito dei suoi avversari 
pure in virtù degli stretti rapporti che intrattiene con le maggiori istituzioni, quali 
enti pubblici, istituti di ricerca, università e mass-media. Questi legami facilita- 
no, agli studiosi che si riconoscono pubblicamente nel mainstream, l’accesso a 
uk e ad altri incarichi e responsabilità istituzionali, a finanziamenti di vario 
tipo e alla massimizzazione della visibilità delle riviste in cui essi pubblicano, con 
il risultato pure di attrarre sempre più numerosi e nuovi studenti nelle loro isti- 
tuzioni. Studenti eventualmente da “indottrinare” opportunamente per garantire 
in futuro la perpetuazione di un determinato pensiero. 

Abbiamo quindi stabilito come, all’interno della speculazione teorica nel- 
le scienze umane, un ruolo preponderante sia giocato dagli interessi “politici” 
condivisi dai ricercatori appartenenti al “mainstream”, i quali orientano ed in- 
fluenzano in maniera pure totalitaria le linee di ricerca da perseguire e gli aspet- 
ti metodologici da adottare. Tuttavia esistono da sempre, e sempre per fortuna 
esisteranno, correnti minoritarie che si oppongono strenuamente al mainstream, 
sul piano sia ideologico sia metodologico. Questo conduce a porsi la domanda 
se le scienze umane siano dei saperi di carattere conflittuale — che descrivono, 
ad esempio, delle incompatibilità di interessi fra gli uomini o fra gli uomini e le 
istituzioni — o se piuttosto veicolano una visione armonica della società e del suo 
funzionamento. 

Questa domanda è ancora più pertinente per quel che riguarda la scienza 
economica. Essa, infatti, a cavallo fra il secolo XIX e il secolo XX, ha subìto 


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Francesco Magris 





una trasformazione epocale riguardo sia al proprio oggetto di studio sia alla sua 
metodologia di analisi. Il pensiero “classico” dell'Ottocento — si pensi a Ricardo, 
Malthus, Marx e Mill — era infatti principalmente interessato a studiare le leggi 
del moto, ossia l'evoluzione di lungo periodo, del capitalismo, inteso come un 
sistema allocativo-distributivo storicamente determinato e caratterizzato dalla di- 
visione del lavoro e dallo scambio di merci tramite il mercato. La conclusione cui 
si perveniva in maniera quasi unanime era una certezza logica del tramonto inevi- 
tabile del capitalismo, in quanto vittima di devastanti e ineliminabili conflitti che 
sarebbero sorti al suo interno; per Ricardo il conflitto fra capitalisti e proprietari 
terrieri, per Marx, invece, quello fra capitalisti e proletariato. 

Il secolo XX vede invece imporsi la cosiddetta scuola “marginalista” o “neo- 
classica”, la quale concepisce l'economia, come osserva Robert Heilbroner, non 
più come lo studio dell'evoluzione e trasformazione nel lungo periodo delle strut- 
ture economiche e dei rapporti di produzione, ma piuttosto come l’analisi del 
comportamento razionale dei sin oli agenti economici da cui sarebbe possibile 
inferire una meccanica dello scambio fondata, scrive Lionel Robbins, sulla “con- 
dotta umana nel momento in cui, data una graduatoria di obiettivi, si devono 
operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi”. In quest'ottica 
il concetto dinamico di “sviluppo” economico viene abbandonato per venire so- 
stituito da quello statico di “equilibrio” che, come indica la 00 si riferisce 
piuttosto ad una situazione di “quiete” in cui vengono a trovarsi le forze di mer- 
cato dopo essere state sollecitate in funzione della massimizzazione e del persegui- 
mento dei loro obiettivi. La visione economica conflittuale e dialettica, dai forti 
accenti rivoluzionari, cede allora definitivamente il passo, almeno fino ad oggi, 
ad una visione armonica e stabile della società, dai Eri accenti implicitamente 
conservatori. 

La potenza metodologica sottostante all’ipotesi della razionalità individuale si 
presta allora facilmente ad una sua possibile estensione a tutte le discipline uma- 
nistiche e sociali. Non a caso, in un recente e già celebre articolo dal titolo 7he 
Superiority of Economists, gli studiosi Marion Fourcade, Etienne Ollion e Yann 
Algan sostengono la superiorità dell'economia nell’ambito delle discipline sociali, 
chiamando a sostegno della loro tesi la sua “insularità” e la sua “impermeabilità” 
rispetto ai contributi provenienti dalle altre scienze sociali; inoltre, sottolineano 
l’importanza che le discipline economiche attribuiscono alla dimensione della 
“rete” nei metodi di accesso alla pubblicazione e — richiamandosi forse involon- 
tariamente a Max Weber — mettono in evidenza la marcata influenza sociale della 
professionalità dell’economista, che si tramuta in forme di accesso facilitato alle 
funzioni di “expertise”. 

A testimoniare la presunta “superiorità” dell'economia vi è pure, in questi 
tempi cupi di coronavirus, l’inflazionata esposizione mediatica degli economisti 
che a tratti sembrano oscurare la visibilità persino dei virologi, degli infettologi 
e degli epidemiologi; con essi, gli economisti intrattengono rapporti ambigui ed 
incerti, entrando a volte in aspra polemica e, altre volte, stringendo invece fugaci 
e fragili alleanze o perlomeno patti temporanei di non aggressione reciproca. 

In ogni caso, qualora correttamente utilizzate, sui scienze umane pos- 
sono veicolare un pensiero che coscientemente mira ad oltrepassare, per quan- 
to a volte con difficoltà, i confini della geografia umana spaziale, temporale 
e mentale a far propri degli ideali di frontiera, senza ml retoriche o 


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Apocalittici e integrati in tempi di Covid-19 





ideologiche, semplificatrici di realtà che sono invece complesse. Di fronte alle 
minacce di un mondo globalizzato che sembra annullare ogni individualità 
o differenza, l’unica arma che molti ritengono essere rimasta a loro dispo- 
sizione è il tracciamento di limiti e frontiere ben netti e precisi, al di fuori 
dei quali mantenere a distanza l’altro, la cui presenza è percepita come una 
“intrusione”. Spetta alle scienze umane rivendicare, pure dal punto di vista 
scientifico, il ruolo fondamentale assunto da valori come la tolleranza, la tute- 
la della diversità, l’apertura all’altro. Essi non sono velleità annacquate, prive 
di relazione con il reale che ci circonda ma presupposti necessari alla stessa 
relazionalità. 

Le paure nascono e si sviluppano dal non sapere (o non volere) guardare 
quello che realmente siamo e quello che realmente sono gli altri. L'identità 
monadica è solo un mito autodistruttivo per la civiltà e “immorale” quando 
viene fomentato per fini “politici” all’interno del gruppo. Essa non corrispon- 
de a nessuna delle società esistite, che invece appaiono sempre, al loro inter- 
no, frutto d’intrecci e incroci d’identità, in un continuo e nutriente flusso di 
scambio reciproco con il loro “altro” e “diverso”. 


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Francesco Magris 





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30 


Scuola e università: un'accelerazione verso il futuro 





SAVERIO MECCA 


“Visti gli esami sostenuti, visto l’esame speciale superato con voto 110 e lode, 
in nome Lila Repubblica Italiana la proclamo Dottore Magistrale in Architettu- 
ra”. Dallo scorso marzo si sono svolte sessioni di laurea per migliaia di studenti 
di tutte le discipline, le commissioni si sono riunite e io ho appena proclamato la 
formula di sempre. Ma tutto intorno è cambiato. 


Stiamo vivendo un periodo, un anno fa impensabile e impensato, di accelera- 
zione di un cambiamento intenso che era già in atto. Fra i tanti cambiamenti un 
valore sembrava solido e intoccabile, l'insegnamento in presenza in aula in pochi 
giorni ha svelato anche fragilità e insufficienze: molti alzano comunque lamenti 
per la qualità perduta, molti vedono la possibilità di rinnovare e innovare come si 
studia e si apprende nelle scuole e nelle università. In pochi giorni, in pochi mesi, 
costretti da eventi drammatici, studenti e docenti immersi in una condizione di 
incertezza profonda, hanno sperimentato, in una situazione di emergenza, che 
per la Scuola e per l’Università l'insegnamento a distanza può essere percepito 
sia come un surrogato, una rinuncia, ma anche uno dei modi con cui si possono 
creare, trasmettere e condividere conoscenze; un modo diverso dalla lezione tra- 
dizionale, ma con potenzialità ancora da esplorare e che le nuove generazioni di 
studenti e docenti praticheranno. 


Stiamo comprendendo che la contrapposizione fra insegnamento tradizionale 
in presenza e insegnamento ct... a distanza, fra università e università 
telematiche, fra scuola in presenza e scuola a distanza, è una contrapposizione 
che guarda al passato , che ci distrae e non ci aiuta a guardare al futuro, anche 
prossimo, in cui dovremo integrarle. 


Stiamo imparando che l'insegnamento a distanza può essere efficace e utile 
(sicuramente gradito alla maggior parte degli studenti universitari, in particolare 
agli studenti pendolari e fuori sede), ma non deve essere pensato in alternativa 
all'insegnamento tradizionale, perché può consentire una gestione dei tempi di 
studio più fluida e meno rigida, può mantenere e anche far aumentare nelle aule 
“digitali” la frequenza e partecipazione attiva, sicuramente nei periodi dramma- 
tici di clausura, può favorire una maggiore consapevolezza e capacità di gestire il 
proprio tempo e le proprie attività, sia per i docenti che gli studenti. 

In questo quadro sembra che la pandemia abbia accelerato anche la transi- 
zione, sostenuta e stimolata dalla diffusione dell’accesso alla rete web, verso una 
nuova concezione del lavoro e una nuova scansione del tempo del lavoro e della 
vita personale, diversa da quella che l’organizzazione scientifica del lavoro aveva 
reso nel XX secolo quasi naturale e senza alternative. 


31 


Saverio Mecca 





Stiamo imparando che l'insegnamento a distanza può favorire il diritto alla 
formazione, facilitando gli studenti non residenti nelle città sedi universitarie, 
aumentando l’accessibilità agli studi per gli studenti lavoratori, facilitando i fuori 
corso e riducendone la sensazione di Li e di disinteresse delle università, 
aiutando gli studenti pendolari che possono passare meno tempo nei trasporti 
pubblici, aiutando tutti coloro che per malattia o temporanei impedimenti non 
possono recarsi nelle aule. 

Stiamo imparando che potremo più facilmente avere studenti da tutto il mon- 
do, che potranno avvicinarsi alla nostra cultura, potranno studiare e fare amicizia 
con gli studenti italiani, che forse potremo averne di più. Stiamo imparando che 
così potremo internazionalizzare le università italiane, aprirle al mondo diffon- 
dendo insieme al sapere la lingua italiana. 

Stiamo imparando che sul piano ecologico-ambientale, l'insegnamento a di- 
stanza riduce la mobilità non essenziale cu dalla frequenza dei corsi in pre- 
senza, riduce il fabbisogno di trasporti pubblici e privati, i consumi di energia e 
carburanti, l'inquinamento e la produzione di anidride carbonica, diminuisce i 
costi dello studio e, progettando e innovando adeguatamente la formazione, ne 
aumenta la Watendilià per l’intera società. 


Stiamo imparando che il lavoro del docente può e deve cambiare, arricchirsi, 
potenziarsi con i nuovi strumenti che oggi più facilmente di prima consentono 
di preparare meglio e in anticipo le lezioni, di registrarle e di condividerle con 
gli studenti, e, se ben fatte, di averle pronte per gli anni successivi o di metterle a 
disposizione di altri studenti, costruendo progressivamente una biblioteca di le- 
zioni ben fatte, un archivio della conoscenza comunicabile. Negli anni successivi 
il minore impegno nelle lezioni tradizionali dai supporti digitali già preparati, 
potrebbe consentire al docente di avere più tempo per dedicarsi al Di in pre- 
senza e prossimità con gli studenti, di innovarlo e valorizzarlo. 

Stiamo imparando che serviranno, subito, tanti nuovi giovani ricercatori e 
docenti, che serviranno docenti integrativi, magari con esperienze professionali 
o specialistiche qualificanti, che serviranno tutor che possano insieme al docente 
seguire piccoli gruppi di studenti per meglio curare e sostenere i processi di ap- 
prendimento, li dovremo stare meno in aula e più in laboratorio, virtuali e rea- 
li, dove docenti, studenti e dottorandi, giovani ricercatori in formazione e tutor, 
esperti e professionisti lavorino insieme a progetti di ricerca innovativi. 


Stiamo imparando che per le scuole e per le università serviranno ambienti 

iù belli, che meritino il costo e il tempo della frequenza speso in più rispetto alla 

ORA di aule virtuali, che avremo meno bisogno di aule tradizionali, mono- 

funzionali, e più di ambienti polifunzionali per il lavoro di relazione diretta fra 

docente e studente, per il lavoro autonomo di gruppi di studenti, di laboratori 
didattici e di ricerca, di più servizi e infrastrutture. 

Stiamo imparando che in molte discipline, non solo quelle per definizione 
creative come l’architettura e il design, la formazione dovrà fondarsi sul rapporto 
pedagogico, antico e moderno, di “maestro-apprendista” per la ricerca di soluzio- 
ni innovative di problemi complessi, basarsi su uno stretto dialogo fra studente 
e docente e fra studenti nell’esplorare, scegliere e sviluppare soluzioni a problemi 
aperti, che si possono strutturare solo in una interazione serrata. 


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Scuola e università: un'accelerazione verso il futuro 





Stiamo imparando che se attraverso la tecnologia si ripropone un testo da 
leggere o una lezione da ascoltare, se si chiede agli studenti di avere un ruolo 
passivo rispetto ad una lezione proposta semplicemente guardando uno schermo, 
allora si rimane dentro la formazione tradizionale che giustamente soffre nel pas- 
saggio ad una aula virtuale. Perché la nuova formazione sia realmente capace di 
ci. le competenze digitali e innovative è necessario che proponga realtà 
virtuali, simulazioni, mondi da esplorare, ecosistemi digitali di apprendimento 
in cui gli studenti possano avere un ruolo attivo, possano esplorare e conoscere 
la realtà virtuale che hanno di fronte, possano agire sui modelli dei fenomeni 
che studia, possano assumere delle decisioni e valutarne gli effetti, possano essere 
progressivamente protagonisti critici e riflessivi della conoscenza che loro stessi 
costruiscono intervenendo su una realtà virtuale e interagendo con altri studenti 
e con i docenti. 


Stiamo imparando che serviranno piattaforme diverse da quelle che ora stiamo 
usando tutti: le piattaforme nate per le aziende non sono adatte all’insegnamento 
a distanza. Servono piattaforme di proprietà pubblica, perché le piattaforme che 
i grandi dell’informatica come Google, Cisco e Microsoft mettono a disposizione 
non solo funzionano parzialmente per ciò che ci servirebbe, ma mentre le usiamo 
producono una quantità enorme e continua di dati, i famosi “big data”, che sono 
il loro vero profitto. Dati e profili che noi stiamo cedendo inconsapevolmente e 
dei quali non saremo più proprietari: quando qualcosa nella rete web è gratis, il 
prodotto siamo noi! 

Ma stiamo imparando che le piattaforme possono non solo estrarre i nostri 
profili, ma anche possono sottrarci le nostre conoscenze, imparando da noi e 
dalle nostre interazioni con strumenti di intelligenza artificiale. Stiamo impa- 
rando che dovremmo avere il prima possibile una piattaforma pubblica, aperta, 
che, progettata appositamente per l’insegnamento, ci consenta non solo di creare 
ambienti virtuali migliori, ma anche di potenziare e arricchire la didattica in 
presenza, assicurando il controllo pubblico dei dati, dei profili e delle conoscenze 
generate dalle attività didattiche. 


Stiamo imparando che le conoscenze sono il nostro patrimonio intangibile, la 
nostra cultura, il nostro territorio e non possiamo rischiare che ci vengano carpi- 
te, sottratte, raccolte, elaborate e sistematizzate, e quindi riprodotte a beneficio di 
altri sistemi economici. 

Stiamo imparando che in questa prospettiva possiamo avere un'importante 
opportunità per restituire alle comunità educative di ogni livello la conoscenza 
approfondita dell'uso consapevole del digitale, delle tecnologie ad esso collegate 
e degli strumenti e tecniche di comunicazione rese disponibili dal digitale stesso. 

Stiamo imparando che la Scuola e l’Università non potranno sottrarsi al do- 
vere di interpretare i nuovi scenari globali che stanno modificando rapidamente 
le relazioni sociali, i modi di produrre, i modi di spostarsi, che l’innovazione 
didattica avrà un ruolo centrale nei processi di produzione e diffusione della co- 
noscenza, che troverà nei nuovi ambienti digitali supporto e stimolo ai processi di 
cambiamento per offrire risposte sempre più efficaci alle esigenze di conoscenza 
della società. 


33 


Saverio Mecca 





Stiamo imparando che la pandemia e la clausura hanno accelerato e radicaliz- 
zato cambiamenti che erano già in atto, che le nuove tecnologie della informazio- 
ne e della comunicazione, che già stiamo utilizzando anche nella vita quotidiana, 
ci hanno, oggi, nella distanza obbligata aiutato ad accorciare le distanze fra noi 
e, domani, a costruire una nuova scuola e una nuova università più aperta, più 
inclusiva, più capace di formare i nuovi cittadini. 


34 


Memorie di un lager 





MARIO CACIAGLI 


Lotte Zeissl era nata a Vienna nel 1920. 

Il 25 novembre del 1943 cadde vittima di una razzia della Gestapo nell’Uni- 
versità di Clermond-Ferrand, che frequentava dal 1938 e dove aveva già conse- 
guito il titolo di licenziata in letteratura francese. Risiedeva a Riom, nei pressi di 
Clermont-Ferrand, come ospite 44 pair di una famiglia del luogo. Aveva ancora 
la carta d’identità austriaca e venne quindi considerata ostaggio quale “ex austria- 
ca”, il che comportò qualche alleggerimento della condizione di prigioniera, ma 
non le evitò il campo di concentramento. 

Dopo la prigionia in una caserma di Clermont-Ferrand venne trasferita a 
Compiègne e scoprì il primo lager di donne e poi nella fortezza di Romain- 
ville. Da qui, dopo un estenuante viaggio in carro bin venne internata nel 
lager di Ravensbriick, dove sarebbe rimasta otto mesi, dal 21 agosto 1944 al 28 
aprile 1945. Ad ottanta chilometri a nord di Berlino, Ravensbriick era il più 
grande lager femminile. Vi passarono circa 200.000 donne e vi morirono 92.000. 

Lotte Zeissl ritornò a Vienna soltanto il 2 luglio 1945. Nel 1949 sposò Walter Do- 
rowin. Fece l'insegnante di francese e tedesco nelle scuole e morì a Vienna nel 2008. 

Un piccolo libro di 104 pagine uscito nel 2019 raccoglie le sue memorie di 
un'epoca di prove estreme: Lotte Dorowin-Zeissl, Zeit der Priifungen. Acht Mo- 
naten im KZ Ravensbriick. Il libro è stato curato da Gerald Stourzh e pubblicato 
dalla casa editrice Mandelbaum di Berlino e Vienna. 

Il libro raccoglie le risposte ad un formulario del 1946, il testo di una conferenza 
del 1994, pagine trascritte da un manoscritto dell'immediato dopoguerra e, soprat- 
tutto, l'esposizione su un registratore effettuata negli anni Novanta. Dalle memorie 
emergono in particolare l’attenzione e la curiosità di una giovane per singoli episodi 
e la capacità di fissarli per sempre in un ricordo, nitido a distanza di decenni. 

Lo sfondo è quello tragico della paura e della violenza, del freddo, della fame 
e della morte. 

Colpisce la descrizione asciutta e puntuale della «struttura sociale» del campo 
di Ravensbriick. Le condizioni di vita e di possibilità di morte non erano uguali 
per tutte e dipendevano dalle categorie nelle quali venivano collocate le prigio- 
niere, categorie riconoscibili dal _L. dal pezzo di stoffa a triangolo sul braccio: 
rosso per i politici, lilla per i testimoni di Geova, verde per i delinquenti comuni, 
nero per gli “asociali” (in prevalenza zingari e prostitute), rosso e giallo per gli 
ebrei. Ad un gradino elevato c'erano le dottoresse che, assistite da infermiere, 
lavoravano nella baracca a loro riservata. 

C'erano, infine prigioniere che svolgevano funzioni di polizia, odiate e temute 
da tutte le altre. 

Le differenze si ritrovavano nelle baracche. Se c'erano quelle con finestre, una 
grande stanza comune con una piccola stufa, dormitori e una doccia. Nel caso 


35 


Mario Caciagli 





opposto, c'erano camerate senza letti e spesso senza materassi, dove tre prigionie- 
re dormivano in un letto, con pane e minestra insufficienti, le prigioniere erano 
isolate, senza possibilità di scrivere, senza che i loro parenti fossero stati informati. 
In ciascuna baracca si trovavano fra 300 e 600 internate. 

Mentre a Compiègne e Romainville era stato possibile ricevere pacchetti 
dall'esterno e tenere una corrispondenza con parenti e amici, ciò non fu possibile 
nel campo di concentramento. Non solo, ed era una differenza di non poco con- 
to, mentre nelle due prigioni temporanee in Francia la sorveglianza era affidata ai 
soldati, con i quali era stato possibile avere rapporti umani e condividere lo stesso 
destino della guerra, a Ravensbriick erano le SS che sorvegliavano. Fra le SS più 
spietate erano le donne. 

Nelle baracche migliori, dove si trovava anche l’autrice, in quanto svolgeva un 
lavoro di segreteria, si poteva parlare o svolgere attività in comune. Venne costi- 
tuito un coro che si recava a cantare nelle baracche più squallide per consolare le 
malate gravi e le compagne che si sapevano destinate alla camera a gas. Si taglia- 
vano le proprie camicie per farne fasce per i neonati. Si montò un teatrino per 
ragazzi, con la tolleranza di una sorvegliante SS e pur con la paura che arrivassero 
le altre SS. Si riusciva ad avere informazioni sull’arrivo della Armata Rossa e dove 
erano arrivati gli Alleati. 

Né mancavano episodi di rapporti più umani. Come quello della SS che, 
lavorando in ufficio con la narratrice, mostrava la foto della moglie e le passava 
del cibo. O dell’altra SS che si era innamorata di una prigioniera e l’aveva liberata 
dagli obblighi usuali, procurandole un posto di ausiliaria. 

Chi lavorava in duo poteva aiutare con generi alimentari o con vesti chi ne 
aveva bisogno oppure, ben più rischioso, far sparire il nome di amiche dalla lista 
delle destinate alla camera a gas. 

L'amicizia che comportava un sostegno reciproco era il sentimento più forte 
che legava le internate, anche di varie nazionalità. Vi erano donne pronte a sa- 
crifici, a gesti di solidarietà, a forme di bontà, a modi di coraggio al di là di ogni 
differenza politica o ideologica. 

Questi giudizi si possono spiegare con il carattere dell'autrice, ottimista e gio- 
viale, che l’aiutò molto nelle disparate circostanze. 

L'altro grande sostegno era per l’autrice, cattolica osservante, la fede religiosa. 

Le porte del lager vennero aperte il 28 aprile 1945, mentre già si facevano 
sentire i cannoni dell’Armata Rossa. Le SS seguirono le internate per due giorni 
a poi scomparvero. Libere, dovettero aftrontare l’ultimo calvario: la fuga a piedi 
attraverso i boschi mentre infuriava l’ultima battaglia. Il 24 maggio erano in una 
Berlino semidistrutta; ma Lotte e Lisl Barta, una partigiana comunista, con la 
quale si legò in amicizia per tutta la vita, poterono intraprendere un lungo viaggio 
in treno, interrotto da molti a tragitti a piedi. Poterono vedere Praga, sorprese da 
tanta illuminazione. Finché, il 2 luglio, scorsero da lontano il campanile dello 
Stephandom. Era Vienna. 

Il 16 agosto Lotte ritrovava finalmente i suoi in un paese vicino alla capitale. 
Quel giorno, conclude una delle sue memorie, «venne tirato un segno fine a sette 
anni d separazione e tutti gli incredibili avvenimenti». 

Quella di Lotte Dorowin-Zeissl è una narrazione incalzante e sobria di acca- 
dimenti storici che, con l’unicità della propria esperienza, va a inserirsi a pieno 
titolo nel quadro della più nota letteratura concentrazionaria. 


36 


L’Annunciazione, gli Angeli, il Corano* 





MICHELE FEO 


In uno dei capitoli meno felici del mio libro sulla rappresentazione dell’An- 
nunciazione nelle arti figurative! ho parlato dell’Annunciazione con due o tre an- 
geli, ne ho descritto fenomenologia e aneddoti, ma non ne ho dato spiegazione 
soddisfacente. Comincio col fornire qui brevemente l'elenco delle Annunciazioni 
nelle quali si registra la presenza di più di un angelo. 


Due angeli 

C'è una Annunciazione, opera di Bernardo Daddi (fig. 1), ora al Louvre, che 
presenta una scenografia fuori dell'ordinario, e per una incredibile presenza, quella 
di due angeli annuncianti, invece che uno?. Perché? Una spiegazione ne ha data 





* Sono lieto di affidare questo capitolo inedito della storia della Madonna che legge all'Accademia 
degli Euteleti, nella quale per la prima volta esposi pubblicamente le linee della ricerca. Ringrazio il pre- 
sidente Salvatore Mecca e il segretario Luca Macchi. Un grazie caloroso anche a Issam Marjani, gentile e 
dottissimo professore di arabo nell'Università di Pisa, che mi ha trascritto la citazione originale del Corano, 
e Umberto Simone, che me lo ha fatto felicemente conoscere. Le traduzioni, quando non diversamente 
dichiarato, sono mie. A causa della difficoltà di accesso alle biblioteche dovuta alla pandemia in atto la 
bibliografia di questo articolo ha in certa misura sofferto. Chiedo scusa al cortese lettore. 

!  M.Feo, Che cosa leggeva la Madonna? Quasi un romanzo per immagini, Polistampa, Firenze 2019 
(Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”, Quaderni, 3). Ha ricevuto finora le seguenti 
recensioni: R. Barzanti, Cosa leggeva la Madonna?, «Toscana oggi», XXXVII, n° 30 (8 sett. 2019), p. 14; 
Rosita Copioli, Che cosa cera sul leggio di Maria?, «Avvenire», LII, n° 248 (19 ott. 2019), p. 23; E. Spa- 
gnesi, La Vergine letterata. A proposito di Michele Feo, Cosa leggeva la Madonna?, http://www.colombaria. 
it/rivistaonline/archives/1050; M. La Rosa, Sancta Dei Genitrix, «Il Grandevetro», XLIII, n° 242 (inverno 
2019), p. 27; A. Sofri, Il grande romanzo per immagini che racconta cosa leggeva la Madonna, «Il foglio 
quotidiano», XXV, n° 48 (26 febbr. 2020), p. 2; Silvia Bencivelli, «Prima pagina», RAI 3, 26 febbr. 2020, 
ore 9:00; E. Chiorazzo, Cosa leggeva la Madonna? Dalla pittura una ricerca-romanzo di Michele Feo, sto- 
rieoggi.it, 1 marzo 2020; G. Frasso, «L'almanacco bibliografico», n° 53 (marzo 2020), pp. 5-7; Cristina 
Sagliocco, Cosa leggeva la Madonna?, e Ma perché sempre con un libro in mano?, «Toscana oggi», XXXVIII, 
n° 12, 22 marzo 2020, Suppl. «Vita nova», Notiziario della Diocesi di Pisa, 22 marzo 2020, p. VII; M. 
Roncalli, «Vi svelo che cosa leggeva la Madonna», «Maria con te», III, n° 13 (29 mar. 2020), pp. 16-19; E. 
Barbieri, nel sito-web Dialoghi di Urbisaglia, 24 apr. 2020; A. M. Iacono, Maria, nell'imprevisto incontro 
con cui ha rivoltato il tempo, «Il manifesto», L, n° 113 (12 magg. 2020), p. 15; A. Fraccareta, Le letture 
della Vergine Maria, https://www.ilsole24ore.com/art/le-letture-vergine-maria-ADYxDE]J; D. Massaro, / 
libri che leggeva la Madonna, «Sulle tracce del Frontespizio», 15 (dic. 2019), p. 23; M. Jasonni, Maria e il 
libro, «Diritto e Religioni», 2 (2019); rist. nel suo // garbuglio di Gadda e altri fogli di via, Il Ponte, Firenze 
2020, pp. 175-177; Marianna G. Ferrenti, “Cosa leggeva la Madonna?”, Michele Feo a Venosa, «Alpi Fashion 
Magazine», 12 ag. 2020; R. Spocci, «Cosa leggeva la Madonna? Quasi un romanzo per immagini di Michele 
Feo», «Dalla parte del torto», XXIII, n° 90 (autunno 2020), p. 32; Maria Fancelli, Cosa leggeva la Madonna, 
«il Portolano», XXVI, n° 101-102 (apr.-ott. 2020), pp. 21-22. 

2 Intenzionalmente evito qui di fornire per i personaggi attivi e passivi della ricerca bibliografia 
analitica, che appesantirebbe le pagine già sufficientemente fitte di erudizione. 





37 


Michele Feo 





Chiara Frugoni?. A destra vediamo la Madonna col libro aperto sulle ginocchia e 
le mani in croce (dalle foto non si riesce a leggere, ma forse è solo difetto meccani- 
co); a sinistra due angeli, uno più avanzato 0 con la mano alzata saluta e porge 
il messaggio, un secondo, più arretrato, che con le braccia in croce mima il gesto 
della Madonna. Secondo la Frugoni, non potendo il primo angelo, impegnato in 
altra gestualità, esprimere la sua devozione, il pittore Da voluto rimediare alla dis- 
simmetria, inserendo un compagno che «con le mani incrociate sul petto indica il 
dovuto e deferente ossequio». Detto altrimenti, le funzioni di un dl attore sono 
state sdoppiate in due personaggi. 

A me pare che ci sia ancora qualcosa di più complesso e di più sottile. Sono 
note altre cinque Annunciazioni con due angeli annuncianti; una spunta dallo 
stesso ambiente di Bernardo Daddi: è l'Annunciazione del Museo Poldi Pezzoli 
di Milano”, che, tolti pochi particolari, ha la stessa struttura di quella del Daddi. 
Autore è il prolifico, ma un po’ provinciale, Jacopo del Casentino ovvero Jacopo 
Landini, padre del famoso cieco organista. A sinistra si trovano i due angeli nelle 
stesse attitudini e funzioni di quelli del Daddi: uno, più avanzato, porge il messag- 
gio con la destra alzata e due dita indicatrici, e con la sinistra regge un grande gi- 
glio; il secondo, più arretrato, guarda reverente con le braccia in croce; la Vergine, 
diversamente dall’omologa, non incrocia le braccia, ma porta la mano destra verso 
la spalla sinistra e bla na sulle ginocchia la sinistra. 

Chi dei due viene prima? Gli specialisti di questo ambiente artistico sono con- 
cordi nel sostenere che il maestro sia il Daddi e che Jacopo, tenuto anche conto 
di una sua maggiore ruvidezza formale, faccia parte di una sorta di scuola di giot- 
teschi attardati. E probabile che sia così. Ma, essendo i due quasi coetanei, una 
maggiore cautela pare consigliabile. 

La terza e la quarta Annunciazione con due angeli sono opera dei due Lippi: 
una, di Filippo, detta delle Murate e ascrivibile al 1445 ca., si trova nella Alte 
Pinakothek di Monaco; l’altra, di Filippino, databile al 1472 ca., nella Galleria 
dell’Accademia di Firenze. In tutti e due i casi un angelo svolge il compito dell’an- 
nuncio, in ginocchio; l’altro se ne sta nelle retrovie, fermo sull’uscio, dal quale 
protende anche lui un giglio, per dire che fa parte della missione. 

La quinta Annunciazione proviene dalla bottega di Hans Klocken (1480-1490) 
ed è un intaglio in legno, dipinto e dorato, per la chiesa di S. Marco a Trento. Ma- 
ria è colta mentre è intenta alla lettura; dei due angeli uno fa l'annuncio, l’altro 
scosta una tenda e ci mostra la fanciulla”. 

La sesta Annunciazione con due angeli è opera di Biagio d’Antonio [Tucci?] 
(Accademia Nazionale di San Luca, in. sec. XVI) e si allinea alla struttura delle 
prime due: l’angelo che porge il messaggio solleva la mano destra; quello arretrato 
ha le braccia in croce. 





3 


Ch. Frugoni, La voce delle immagini. Pillole iconografgiche dal Medioevo, Einaudi, Torino 
2010, p.9. 

4 — Feo, Che cosa leggeva, tav. XXIV. 
D. Arasse, L'Annunciazione italiana. Una storia della prospettiva, tr. it. C. Presezzi, con un saggio 
di O. Calabrese, VoLo publisher, Firenze 2009, p. 159, fig. 82. 

6 L. Bressan, Sorpresi dall’Annunciazione. Cristiani e Mussulmani, Ancora, Milano 2020, p. 31. 

7. Roberta Bartoli, Biagio di Antonio, Cassa di Risparmio di Forlì, Forlì 2001. 


5 


38 


L’Annunciazione, gli Angeli, il Corano 





Tre angeli 

Ben più folto è il manipolo delle Annunciazioni in cui agiscono tre angeli. Ne 
ho raccolte una ventina. Si possono dividere in due gruppi dicon e diversi, e che 
comunque non possono ricondursi alla tecnica appena descritta per i due angeli. 

Partiamo dall’Annunciazione Martelli (fig. 2), una tavola datata ca. 1440 di 
Filippo Lippi nella basilica di San Lorenzo a Firenze®. Lo spazio è diviso in due 
scene uguali e distinte. A destra vediamo l’annunciazione vera e propria con l’an- 
gelo inginocchiato, Maria sorpresa e il leggìo; in primo piano un fiasco spagliato 
con acqua. A sinistra altri due angeli si intrattengono su un qualche argomento 
che loro interessa particolarmente e che non pare abbia alcunché a che vedere 
con l’annunciazione. Si ritiene che siano testimoni dell’incarnazione. Ma, a dire il 
vero, è come se fossero capitati lì per caso, o che abitassero lì da tempo a vegliare 
sulla giornata della Vergine. 

Al Lippi fa seguito nel 1466 Niccolò di Liberatore detto l’Alunno, a Perugia 
nella Galleria Nazionale dell’Umbria?: come il Martelli, introduce due nuovi an- 
gioletti alle spalle di Gabriele, più giovani di quelli del Martelli e apparentemente 
ancor meno interessati di loro all’azione principale. 

Agli anni 1480-82 è collocabile il tondo di Giovanni Amadeo per il Duomo di 
Cremona, ora al Louvre!°. Verso la Madonna inginocchiata davanti al leggio mar- 
cia veloce un Gabriele con ramo fiorito in mano, scortato da altri due angeli, come 
mi par di capire, a mani giunte. Ossia questi due angeli supplementari sono usciti 
dalla separatezza in cui î vediamo nelle rappresentazioni di Filippo Lippi e dei 
suoi seguaci, e sono entrati nell’ambasceria come parte attiva, sia pure di corteggio. 

Il 1483 Biagio di Antonio [Tucci?], un pittore evidentemente attratto dalle 
anomalie, nella Pinacoteca Comunale di Faenza, imita da vicino il Lippi!!. È stato 
detto che i due angeli soprannumerari di Biagio siano stati ispirati dal Battesimo 
di Gesù del Verrocchio; ma è possibilità remota, giacché la prima invenzione dei 
due angeli risale, non al Verrocchio, ma a Filippo Lippi; e dunque è il Verrocchio 
che si innesta su una sorta di moda. Biagio è quello stesso che, come si è visto nel 
paragrafo precedente, realizza un’ Annunciazione con due angeli. 

A fine secolo un pittore veronese di ispirazione leonardesca, Cristoforo Scacco, 
lavora nel Lazio e lascia a Fondi nel 1499 un grande trittico dell’Annunciazione. 
Maria non legge, ma abita una casa provvista di libri che stanno chiusi dietro di 
lei in un mobiletto. L'angelo annunziante e Maria occupano uno spazio nobile 
sopra una specie di palco retto da colonne; a un livello inferiore, inginocchiati e 
disposti a formare il lato più breve di un rettangolo con le figure dei protagonisti 
dell’evento, stanno due piccoli angeli in posizione speculare, a reggere un vaso di 
gigli offerto alla Vergine". 

Il 1510 ci dà l'Annunciazione di Mariotto Albertinelli alla Galleria dell’Acca- 


demia di Firenze!3. Entro uno scenario vasto e ricco Gabriele fa la sua ambasceria 





8. Arasse, pp. 152-161, figg. 78-79. 

° Arasse, p. 182, fig. 98. 

!° E Ferro, Giovanni A. Amadeo, Fabbri, Milano 1996, tav. VI. 

!! Arasse, p. 170. 

VV. Sgarbi, Gli anni delle meraviglie. Da Piero della Francesca a Pontormo, introduzione di F. 
Colombo, Bompiani, Milano 2015. 

13. Arasse, p. 267, fig.159. 


39 


Michele Feo 





e dietro di lui, a discreta distanza, due altri angeli in rapporti di affettuosa confi- 
denza contemplano la scena, mentre altre numerose schiere angeliche musicanti e 
osannanti popolano il cielo. Questo della folla di angioletti svolazzanti è un tema 
che ha qui forse la sua più antica attestazione, che prende vigorosamente piede e 
che si trova in molti dipinti più tardi (Luini, Traversi, due venosini). 

Del 1512 è l'Annunciazione di Andrea del Sarto a Palazzo Pitti!‘, sulla quale 
occorrerà fare un discorso a parte. Tutte e sette queste Annunciazioni, pur nella 
diversità di concezione, tendono a formare nella presenza dei due angeli supple- 
mentari un gruppo omogeneo e possono sostanzialmente ricondursi a un comune 
nucleo ideologico e ambientale. 

Segue l'Annunciazione di Brera di Bernardino Luini, collocabile fra il 1515 e 
il 1525: dietro Gabriele annunziante stanno due altri angeli che, in una posizione 
simile a quella dei due angeli del Verrocchio, sembrano colloquiare fra di ‘0 uno 
dei due ha in braccio un agnello sacrificale; per tutto il cielo della stanza dall’al- 
tissimo soffitto vola, come nell’opera dell’Albertinelli, una grande moltitudine di 
altri angeli. 

AI 1517 risale l'Annunciazione di Giovanni Antonio Sogliani in Santa Maria 
degli Innocenti a Firenze!: i due angioletti che accompagnano Gabriele arretrano 
e si fanno ancora più piccini fino a trasformarsi in putti. 

Nel 1523 Andrea Sansovino realizza lo splendido rilievo marmoreo della Santa 
Casa di Loreto in cui la Vergine con libro chiuso viene visitata da un Gabriele in 
ginocchio, seguito da altri due angeli che gli corrono dietro trafelati, forse perché 
in lieve ritardo, e il secondo dei due, sollecitato dal primo ad affrettarsi, reca in 
mano un vaso di fiori, mentre altri angeli più piccoli sono indaffarati in loro fac- 
cende, uno a reggere il Padreterno acché non caschi giù dal cielo, e una coppia in 
atto di recitare una sorta di inseguimento erotico dafneo. 

Fra il 1523 e il 1525 viene datata un'Annunciazione di Paolo di Bernardino di 
Signoraccio, proprietà della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia: un angelo ingi- 
nocchiato fa l'annuncio, e dietro di lui altri due, in piedi, sembrano conversare; di 
essi uno punta il dito verso l'angelo annunziante (è l'admonitor, di cui infra, p. 42). 

Fra 1525 e 1530 ca. si colloca l'Annunciazione di fra Paolino! a Vinci, in cui i 
due angeli aggiuntivi riprendono i loro anni giovanili, e uno di loro mostra all’al- 
tro con l'indice teso l'evento (ancora l’admonitor). 

Agli anni 1537-1538 ca. va assegnata una Annunciazione magniloquente del 
Pordenone a Murano, Santa Maria degli Angeli, dove all'unico angelo a terra fa da 
contrappeso un drappello di ben 15 suoi commilitoni aerei, dei quali tre intenti a 
sorreggere il Padreterno!. 

Senza data, infine, ma latamente cinquecentesco è un dipinto di bottega vasa- 
riana, apparso nell’asta n. 187 di Farsettiarte, Prato 2019, col nome di ‘Annuncia- 
zione nello studio’ (artnet.com). Gabriele scende verso Maria e dietro gli stanno 
due altri angeli, di cui uno con le braccia conserte. 


4. Ludovica Sebregondi, Andrea del Sarto, Giunti, Firenze-Milano 2018 (Art e dossier, 357), pp. 


Arasse, p. 268, fig.160.. 
!°Arasse, p. 170, fig. 89. 
7 Arasse, p. 328, fig. 203. 


L'Annunciazione, gli Angeli, il Corano 





Se ora andiamo fuori dell’Italia, troveremo altre situazioni con tre angeli, alcu- 
ne iconograficamente vicine allo schema italiano, altre di carattere molto diverso 
e dunque indipendenti. L'Annunciazione del Maestro di Seitenstetten (1490 ca.) 
presenta dietro i protagonisti Gabriele e Maria, due angeli, anche fisicamente mol- 
to più piccoli, che forse guardano la scena principale senza parteciparvi. In altri 
casi ancora i due angeli in più sono attivi: nell’Annunciazione di Hans Memling, 
ca. 1480, al Metropolitan Museum of Art di New York, quando riceve l'annuncio 
Maria turbata viene sostenuta da due angeli, di cui uno le regge il manto, l’altro 
la sostiene per il braccio (cristianocattolicol.tumblr.com). Ni di Silos in 
Spagna, c'è una Annunciazione in pietra su un pilastro: mentre Gabriele porge il 
messaggio inginocchiato, due incoronano la Vergine. In un dipinto visto in Pin- 
terest, che però non riesco a ritrovare, i due angeli sono intenti ad acconciare il 
baldacchino del letto della Vergine. 

Tornando in Italia, ecco che inaspettatamente la maniera controriformistica 
ci regala un dipinto di livello altissimo che sembra più in linea con la tradizione 
a che con quella toscana e che nulla ha da invidiare allo splendore del pieno 
Rinascimento. E l'Annunciazione di Capodimonte a Napoli del modenese Girola- 
mo Mazzola Bedoli, datata 1555-1560. In un interno notturno illuminato da una 
luce centrale irrompe un giovane atleta che irritualmente ostenta virili membra 
possenti e manca poco che aggredisca una bella santarellina che tiene gli occhi 
bassi. Non so se l’incipiente barocco abbia raggiunto arditezze sessualmente più 
esplicite. Fra Maria e Gabriele un angioletto si ii e regge con le due mani 
un librone aperto mostrandolo alla donna, affinché lo legga. Dietro la Vergine un 
altro angioletto contempla la scena; dietro quest’ultimo, un terzo angioletto esclu- 
so dalla scena cerca di entrarci, alzando la gamba destra per scavalcare un ostacolo 
e con la sinistra si afferra a qualcosa su cui fare forza. Insomma questa stanza è 
affollata da tre angeli piccoli, oltre il gigantesco messaggero ufficiale. 

Pochi anni dopo il Mazzola Bedol. appare nel 1575 l'Annunciazione di Santi 
di Tito a Scrifiano, Sinalunga; ancora una volta i due angeli in più stanno dietro 
Gabriele, ma non hanno una funzione precisa: sembra che il pittore segua un mo- 
dulo senza intenderne il senso. 

Non tutti dunque hanno le idee chiare. Ma il tema è comunque duro a morire 
e lo ritroviamo a metà Settecento a Napoli. Gaspare Traversi nella chiesa di S. Ma- 
ria dell’Aiuto ripropone un’annunciazione con Gabriele protagonista, cui fanno 
compagnia due altri angeli apparentemente distaccati e disinteressati al grande 
evento, intenti come sono a parlare fra di loro in una posizione del tutto simile a 
quella da cui siamo partiti di Filippo Lippi, mentre dietro e intorno a Maria svo- 
lazzano schiere di angioletti. 

Angioletti svolazzanti ancora in due dipinti segnalati nella cattedrale di Venosa 
da Vincenzo Giaculli e ricontrollati per me da Luigi De Bonis. Uno di essi è opera 
del marchigiano Carlo Maratta e si data al 1664; È altro si attribuisce ad anonimo 
pittore meridionale e si colloca a metà Settecento!5. 





Appurata l’esistenza del corpo del reato, interroghiamo gli autori dell'inchiesta. 
Ma ne ricaveremo un senso di delusione. Teologi e iconografi non pare infatti che 





18. Cfr. V. Gliaculli], in: @La mia Venosa.Blogger. 


41 


Michele Feo 





abbiano dato il meglio delle loro intelligenze per mettere ordine sul problema e la 
sua oscurità. A primo acchito vedo che gli interventi sono davvero esigui. Arasse, 
che ha una i per le significazioni allegorico-simboliche di tutte le cose 
e situazioni, dalle architetture ai singoli oggetti, si afferra a una teoria che avrebbe 
origine presso i Padri della Chiesa, «che presentavano questi angeli come i testi- 
moni non dell’Annunciazione stessa, ma dell’Incarnazione, invisibile agli occhi 
umani»!. Come appare ad occhi sani, è una tesi così abile e così infondata, che 
si può ugualmente accogliere e respingere. Si richiede invece l’esibizione dei testi 
dei Padri. Subito dopo, però, Arasse, accorgendosi che i due angeli non stanno 
proprio inerti a presenziare la loro testimonianza, ma fanno dei gesti, trova un’altra 
soluzione per uno dei due, quello che ci volge le spalle: sarebbe questa quella figura 
che Leon Battista Alberti consigliava di mettere nelle composizioni col ruolo di 
admonitor o ‘commentatore’ per indicare agli spettatori quel che sta accadendo 
(De pict., II 42)?°. Purtroppo l'angelo ‘commentatore’ non ha l’indice puntato 
sulla scena dell’annunciazione. 

Una discussione hanno intavolato su Andrea del Sarto due storici dell’arte in 
disaccordo fra di loro, ignorando per altro le altre attestazioni. Sostiene Antonio 
Natali?! che nel dipinto di Andrea abbiamo uno spirito celeste che contempla e 
uno che annuncia, giacché è proprio degli angeli esplicare due uffici, ossia quello 
di essere latori della volontà di Dio e quello di contemplare la sua gloria. Con le 
sue parole: «mentre Gabriele assolve il suo compito di recare a Maria la novella 
misteriosa, i due compagni contemplano nella gioia serena dello spirito gli at- 
timi iniziali dell’incarnazione del Verbo». Gli risponde Carlo Del Bravo?? che, 
«se Andrea avesse voluto, nella sua Annunciazione, dar figura ai due uffici degli 
Angeli, avrebbe dovuto farli impersonare da due Angeli e non da tre; e che l’atto 
dell’adorazione, le mani incrociate sul petto, è solo in uno degli spiriti celesti lì 
rappresentati in piedi, giacché l’altro tende la mano verso Maria, con un gesto 
piuttosto simile a quello di Gabriele». Egli crede, invece, fondandosi su Dionigi 
l'Areopagita, che gli Arcangeli siano l'ordine mediano fra le ultime gerarchie, fra 
Principati e dl e che Andrea abbia inteso rappresentare in i tre figure i 
tre ordini suddetti della gerarchia celeste. 

Queste arrampicature sugli specchi sono semplicemente frustranti: a Natali si 





!°Arasse, p. 153. 

20. Arasse, ibid.; egli si fa forte della spiegazione già in questo senso avanzata da E Ames-Lewis, Fra 
Filippo Lippis San Lorenzo «Annunciation», «Storia dell'Arte», LXIX (1990), p. 160. Sul valore dell’in- 
dice puntato nelle arti figurative vd. S. S. Scatizzi, «Ut pictura poesis». La descrizione di opere d'arte fra 
Rinascimento e Neoclassicismo: il problema della resa del tempo e del moto, «Camenae», n° 10 (févr. 2012), 
on-line, pp. 5-6; A. Chastel, // gesto nell'arte, trad. it. D. Pinelli, Laterza, Roma-Bari 2008; Stefania 
Macioce, Quando la pittura parla. Retoriche gestuali e sonore nell'arte, Gangemi, Roma 2018. Abbiamo 
già visto il motivo all'opera nei pittori Paolo Signoraccio e fra Paolino a Vinci. 

2! A. Natali, // nuovo Adamo. E l'antico, «Paragone», 477 (1989), pp. 23-31, partic. p. 26. Di Na- 
tali vd. anche in A. Natali - A. Cecchi, Andrea del Sarto. Catalogo completo dei dipinti, Cantini, Firenze 
1989, pp. 41-43; Andrea del Sarto. Maestro della “maniera moderna”, Leonardo arte, Milano 1998, pp. 
50-53. Consente alla sua interpretazione A. Baldinotti, in: Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie 
della “maniera”, a cura di C. Falciani e A. Natali, Mandragora, Firenze 2014, pp. 40-41. 

2 C. Del Bravo, Andrea del Sarto, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», CI. Lett. e 
filos., s. III, XXV (1995), pp. 463-483, a pp. 473-474. 


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L'Annunciazione, gli Angeli, il Corano 





possono confermare le obiezioni di Del Bravo, e a Del Bravo si può obiettare che 
non esiste prova o indizio alcuno che i tre angeli rappresentino tre diverse gerar- 
chie angeliche. Qui sospendo il giudizio e, prima di arrivare alla mia, propongo un 
indugio sulle spiegazioni fornite in passato da altri. 


L’esegesi mistica 

Meraviglia, agli specialisti sono rimaste sconosciute quelle lontane, di Alberto 
Magno e di Santa Metilde. Era stato, infatti, con grande semplicità che il dotto 
santo di Colonia (1193 o 1206/7) aveva constatato che nulla impediva pensare 
che nell’Annunciazione avessero operato più angeli e persino un nembo o multitu- 
do di essi, che anzi era incredibile il contrario, ossia che Dio Padre ne avesse inviato 
uno solo come suo messaggero?5: 


Nec est credendum quod angelus unus venerit, sed cum eo principali nuntio multitudo 
aliorum advenit. Luc. Il 13 et 14: Facta est cum Angelo multitudo militiae caelestis laudantium 
Deum et dicentium: Gloria in altissimis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Hoc si- 

nificatum est, Genes. XXIV, 2 et seq., ubi cum pater Abraham mitteret ad ducendum uxorem 

lio suo, misit quidem unum Eliezer domus suae procuratorem, qui tamen comites multos 
habuit: ita Pater summus mittens ad desponsandam sibi naturam humanam, unum quidem 
praecipuae dignitatis Angelum misit, tamen cum illo multos creditur misisse secundae digni- 
tatis Angelos. 


Né si può credere che da lei sia arrivato un solo angelo, ma insieme con quel messaggero 
principale arrivò una moltitudine di altri. Dice Luca, II 13 14: Insieme con l'angelo si costituì 
una moltitudine di soldati celesti che lodavano Dio e dicevano: Gloria a Dio nell'alto dei cieli e 
pace in terra agli uomini di buona volontà. Questo fatto è stato prefigurato in Genes. XXIV 2 
sgg., dove, quando il padre Abramo mandò un ambasciatore ad acquisire la moglie a suo figlio, 
mandò il solo Eliazer come rappresentante della sua casa, ma questi ebbe tuttavia molti ac- 
compagnatori: similmente il sommo Padre, mandando l’ambasceria che avrebbe unito a sé in 
nozze la natura umana, inviò sì un angelo di alta dignità, ma si ritiene che con lui abbia inviato 
molti angeli di minore dignità. 


Tanta autorità è del tutto inattesa e giunge come eccesso di prova. Ma è incre- 
dibile che Alberto abbia dovuto fare salti mortali e manipolare o fraintendere i 
testi per poter difendere questa presenza di più angeli. Infatti il passo di Luca che 
egli cita non si riferisce ba ma all’adorazione dei pastori a Betlem- 
me. Ha invece un senso, sia pure arrischiato, il confronto fra l’annunciazione e 
l’ambasceria nuziale di Eliazer: come Abramo mandò a rappresentare la famiglia 
un solo personaggio ma contornato di altri minori, così il Padreterno mandò Ga- 
briele ma contornato da altri angeli. Tutto sembra tornare con lo stile medievale 
delle ambascerie matrimoniali fra alti casati. Ma si desidera sapere da quale fonte 
Alberto abbia attinto la sua idea. E inquieta il fatto che egli stesso lasci trasparire 
l’esistenza di una fonte, quando dice che «creditur» aver Dio inviato a Maria una 
schiera di angeli e non uno solo. Comunque due cose paiono chiare: una, che 





23. Albertus Magnus, Enarrationes in primam partem Evang. Lucae, I 26; ed. S. C. A. Borgnet, in 


Opera omnia, XXII, apud Ludovicum Vivès, Parisiis 1894, p. 47. Cfr. M. Burger, Albert the Great-Ma- 
riology, in: A Companion to Albert the Great. Theology Philosophy, and the Sciences, ed. by I. M. Resnik, 
Brill, Leiden-Boston, 2012, p. 120 n. 56. 


43 


Michele Feo 





la moltitudine di angeli dell'annunciazione non può essere identificata con gli 
angeli che secondo gli apocrifi tenevano compagnia a Maria nel Tempio, Gen 
quelli stavano e questi po inviati appositamente a seguito di Gabriele; due, 
che, quando Alberto scrive, correva in qualche modo la convinzione di alcuni che 
messo dell’annunciazione sia stato sì Gabriele, ma accompagnato da altri angeli. 

A buona distanza da Alberto incede alla grande un’altra autorità tedesca, santa 
Metilde di Hackeborn. Nobile e ricca padrona di terre, badessa di Helfta, visiona- 
ria, visse fra il 1241 e il 1298. Qualcuno ha tentato di identificarla con la Matelda 
dantesca. Negli ultimi anni di vita trasmise il racconto delle sue visioni alla conso- 
rella Gertrude; l'originale tedesco andò perduto, ma ne sopravvisse una redazione 
latina col titolo di Liber gratiae speciali", da cui derivarono traduzioni antiche in 
alto-tedesco, in inglese e in dialetto umbro”. Nel cap. 1 del libro I, con ben mag- 
giore fuoco mistico di Alberto, narrò la sua visione dell’Annunciazione avuta in 
chiesa durante la celebrazione della messa alla lettura del Vangelo di Luca: 


Cum autem Evangelium Missus est (Luc. I. 26) legeretur, vidit Archangelum Gabrielem 
beatae Virginis paedagogum venientem, habentem regium vexillum aureis litteris inscriptum; 
quem sequebatur innumerabilis Angelorum multitudo, qui omnes ordinaverunt se cir- 
ca domum in qua gloriosa Virgo erat, tamquam murus, a terra usque ad caelum, ita videlicet, 
ut infra Angelos Archanggeli, infra quos Virtutes, deinde caeteri Angelorum ordines, ita ut qui- 
libet ordo domum illam circumdaret quasi murus: post haec Dominus procedens tamquam 
sponsus de thalamo, prae filiis hominum speciosus, cum ignito choro Seraphim qui Deo sunt 
proximi. Hi Dominum Jesum et beatam Virginem giraverunt a terra usque ad coelum in 
modum muri et tecti. Dominus autem stabat secus vexillum Archangeli, ut floriger sponsus 
et delicatissimus juvenis, expectans quousque Angelus Gabriel praeclaram Virginem salutasset 
reverenter. Postquam vero beata Virgo se in abyssum humilitatis immersit dicens: Ecce ancilla 
Domini, fiat mihi secundum verbum tuum, statim Spiritus Sanctus in columbae specie, expansis 
alis suae dulcedinis divinae, intrabat animam Virginis, feliciter ei obumbrans, et Filio Dei cam 
foecundans, mirabiliter matrem nobili onere fecit gravidam et Virginem permanere intactam. 
Sicque Virgo mater Dei et hominis est effecta Spiritu Sancto teste. 


Mentre [nella messa] si leggeva il Vangelo, al Missus est, [Metilde] vide l'Arcangelo Gabriele 
che andava a istruire la Vergine, portando il vessillo regio coperto di lettere d’oro; una innu- 
merevole moltitudine di angeli lo seguiva e tutti ordinatamente si fermarono intorno 





2 Revelationes selectae S. Mechthildis. Textum ad fidem codd. mss. cognovit A. Heuser, Heberle, 


Kéln 1854 (Bibliottheca mystica et ascetica, X), pp. 7-8; Select Revelations of S. Mechtild, Virgin, taken 
from the five boks of her Spiritual Grace, and translated from the Latin by a secular priest, Richardson, 
London 1875, pp. 9-10 (trad. ingl.); Revelationes Gertrudianae et Mechtildianae, Il: Sanctae Mechtildis 
Liber specialis gratiae, Solesmensium O. S. B. monachorum cura et opera, Oudin, Pictavii-Parisiis 1877, 
pp. 9-10 (cito di qui); Santa Metilde, // libro della Grazia Speciale, con pref. del card. [I.] Schuster, Tip. 
Arciv. Dell’Addolorata, Varese 1938. Cfr. Testi mariani del secondo millennio. 4. Autori medievali dell’Oc- 
cidente sec. XIII-XV, a cura di L. Gambero, Città Nuova, Roma 1996, p. 400. 

25. Lo Handschriftencensus della Philipps Universitàt Marburg e della Akademie der Wissenschaften 
und der Literatur di Mainz (sito-web handschiftencensus.de) ha catalogato 11 mss. del Liber in tedesco; 
per l’antica trad. inglese vd. Zhe booke of gostlye grace of Mechtild of Hackeborn (Liber specialis gratiae), ed. 
by Theresa A. Halligan, Pontifical Inst. of Mediaeval Studies, Halligan, Toronto 1979; per la trad. umbra P. 
Bertini Malgerini - U. Vignuzzi, Matilde a Helfta, Melchiade in Umbria (e oltre). Un antico volgarizzamento 
umbro del “Liber specialis gratiae”, in: Dire l'ineffabile. Caterina da Siena e il linguaggio della mistica, a cura 
di L. Leonardi e P. Trifone, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2006, pp. 291-307. 


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L’Annunciazione, gli Angeli, il Corano 





alla casa dove stava la gloriosa Vergine e sembravano un muro eretto dalla terra fino al cielo, 
disposti in modo che dopo gli Angeli venivano gli Arcangeli, e dopo questi le Virtù, e quindi 
tutti gli altri ordini, talché ogni ordine circondava quella casa come un muro: poi veniva il 
Signore, che avanzava come uno sposo che esce dal talamo, bello al di sopra dei dali degli uo- 
mini, accompagnato da una schiera di fuoco di Serafini, che a Dio sono i più vicini. Costoro 
fecero un cerchio intorno al Signore Gesù e alla beata Vergine dalla terra fino al cielo a mo’ 
di muro e di tetto. Il Signore poi, in piedi presso il vessillo dell’Arcangelo, sotto la forma di 
un fidanzato in fiore e di un giovane tenerissimo, aspettava che l’angelo Gabriele presentasse 
reverentemente alla Vergine il suo saluto. Quando la beata Maria si fu immersa nel profondo 
abisso della sua umiltà La questa risposta: «Ecco l’ancella del Signore, mi sia fatto secondo 
la tua parola», subito lo Spirito Santo, sotto la forma di una colomba, con le ali spiegate della 
sua divina dolcezza, entrò nell'anima della beata Vergine, coprendola felicemente della sua 
ombra e, fecondandola del Figlio di Dio, mirabilmente la rese madre gravida di nobile peso e 
fece la Vergine permanere intatta. E così la Vergine fu fatta madre di colui che è Dio e uomo, 
e lo Spirito Santo ne fu testimone. 


Spettacolo grandioso di una ritualità di corte, che rappresenta un matrimonio 
regale e una fecondazione in diretta. A una prima immediata impressione si può 
reagire pensando che Metilde, rinchiusa a sette anni in un dorato convento per 
esserne la signora, non abbia visto mai la realtà, come tante sue sfortunate compa- 
gne di sventura, e che, invece di visioni, abbia visto sublimazioni di sogni proibiti, 
e magari qualche primitiva sacra rappresentazione. Ma forse anche questa sarebbe 
una semplificazione che germina da bisogno di concretezza. E dobbiamo invece 
accettare che, per dritto o per rovescio, Metilde abbia visto in un trasporto liturgi- 
co una Vergine solitaria invasa da un esercito di bellissime creature angeliche e n 
loro c’era un dio in forma di fidanzato «nel fiore di brillante giovinezza». 

Le mistiche medievali ci hanno abituati a prendere atto di un erotismo dolce 
e romantico, ma anche violento, disperato e sublime. Quanto più quelle donne 
sono recluse in un mondo di atroci privazioni, tanto più i surrogati verbali tentano 
di prendere vanamente il posto delle res. Ma non è certo l'avanzata della modernità 
che risarcisce le ferite dell'animo. Le mistiche di età rinascimentale anelano come 
le antiche consorelle alla congiunzione col loro Dio, anche i fremiti dei corpi si 
dissolvono in voli estatici. Ma è forse con la temperie del barocco che la raziona- 
lità geometrica dei sentimenti travalica come mai nell’eccesso del morir d'amore 
o si spegne miseramente nel cattivo romanzo per celle solitarie. Un'infinita lotta 
del sesso, occultata malamente dietro il pretesto di una meravigliosa storia sacra, 
è il racconto prodigioso della spagnola Maria d’Agreda che, più avida della santa 
Teresa del Bernini e di lei meno divina, visse e trasmise nel 1637, attraverso il vo- 
yerismo impudico delle visioni, tutte le ebbrezze e i fremiti che la Maria dei poveri 
cristiani mai visse, tenendo avvinto il suo lettore per 2358 pagine nel nostro ottavo 
210x145. E dopo un lungo corteggiamento che nei paragrafi II 10, 110-118; e III 
11, 123-132 della Mistica città di Dio avviene l’annunciazione con la contestuale 
inseminazione; e qui si ricorda quella visione per la presenza appunto sulla scena 
di un esercito di angeli?°: 





26. Marfa de Jestis de Agreda, Mistica Ciudad de Dios, III, Libreria Religiosa, Barcelona 1860, pp. 
226-228, 236. La traduzione italiana è quella del vol. Suor Maria di Gesù, Mistica Città di Dio. Vita 
della Vergine Madre di Dio, a cura di Albertus-Magnus-Verein, H. Schneider, pref. di G. C. Moralejo, 
Edizioni Porziuncola, S. Maria degli Angeli 2015, I, pp. 641-643, 652. 


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Michele Feo 





II 10, 110 En esta plenitud de tiempo prefinito determinò el Altisimo enviar su Hijo uni- 
génito al mundo. Y confiriendo (4 nuestro modo de entender y de hablar) los decretos de su 
eternidad con las profecias y testificaciones hechas 4 los hombres desde el principio del mundo, 
y todo esto con dual y santidad 4 que habia levantado 4 Marfa santisima, juzgé convenia 
todo esto ast para la exaltacion de su santo nombre, y que se manifestase 4 los santos Angeles 
n ejecucion de esta su eterna voluntad y decreto, y por ellos se comenzase 4 poner por obra. 

ablé su Majestad al santo arc4ngel Gabriel con aquella voz 6 palabra que les intima su santa 
I [as] 

113 Obedeciendo con especial gozo el soberano principe Gabriel al divino mandato, de- 
scendié del supremo cielo, acompafiado de ni. millares de Angeles hermosisi- 
mos que le seguian en forma visible. La de este gran principe y legado era como de un mancebo 
elegantisimo y de rara belleza: su rostro tenia refulgente, y despedia muchos rayos de resplan- 
dor; su semblante grave y majestuoso, sus pasos medidos, las acciones compuestas, sus palabras 
al y eficaces, y todo él representaba, entre severidad y agrado, mayor deidad que otros 

Angeles de los que habia visto la divina Sefiora hasta entonces en aquella forma. [...] 

II 11, 131 Para ejecutar el Altisimo este misterio entrò el santo arcingel Gabriel [...] en 
el retrete donde estaba orando Maria santisima, acompafiado de inumerables Angeles en 
forma humana visible, y respectivamente todos refulgentes con incomparable hermosura. Era 
jueves 4 las siete de la tarde al escurecer la noche [...]. 


II 10, 110 In questa pienezza del tempo, l’Altissimo decise d’inviare nel mondo il suo 
Unigenito. E comunicando — a nostro modo d'intendere o di parlare — i suoi eterni decreti 
con le profezie e le testimonianze fatte agli uomini fin dal principio, e tutto ciò con lo stato 
e la santità a cui aveva elevato Maria santissima, giudicò che tutto questo era appunto utile 
per l'esaltazione del suo santo nome, che era bene si manifestasse agli angeli l’esecuzione di 
questa sua eterna volontà e che per mezzo di loro s'incominciasse a mettere in opera. Così sua 
Maestà parlò al santo arcangelo Gabriele con quella voce o parola che intima loro la sua santa 
volontà. [...]. 

113 Intanto l’augusto principe Gabriele, obbedendo con straordinario giubilo all'ordine 
divino, scese dal cielo, accompagnato da migliaia di angeli bellissimi, che lo segui 
vano in forma visibile. L'aspetto di questo grande messaggero era come quello di un giovane 
nobilissimo e di rara bellezza: il suo viso era splendente e irradiava raggi vivissimi, il suo aspetto 
grave e maestoso, i suoi passi misurati, i gesti composti, le sue parole ponderate e penetranti. 
În tutto, insomma, tra il severo e il cortese, mostrava di avere un che di divino più degli altri 
angeli che la gloriosa Signora aveva visto fino ad allora in quella forma.[...]. 

II 11, 131 Perché l’Altissimo compisse questo mistero, il santo arcangelo Gabriele entrò 
nella stanza in cui stava pregando Maria santissima, accompagnato dainnumerevoli ange- 
li in forma umana visibile, tutti rifulgenti di bellezza incomparabile. Era il giovedì, alle sette 
della sera, all'imbrunire. [...]. 


L'ultima in ordine di tempo delle testimoniaze di una annunciazione con molti 
angeli è quella lasciata da santa Gemma Galgani, fanciulla mistica della verde Luc- 
chesia (7 1903), che l'avrebbe appresa dal suo angelo custode in una visione affida- 
ta ai suoi Diari. Siamo in uno dei primi anni d aes quando leggiamo” 


Era già notte inoltrata, e Maria santissima se ne stava sola nella sua camera: pregava, era 
tutta rapita in Dio. All'improvviso si fa una gran luce in quella misera stanza, e l’arcangelo, 
prendendo umane sembianze e circondato da un numero infinito di angeli, va 
vicino a Maria, riverente e insieme maestoso. Le si inchina come Signora, le sorride come an- 


2 Cfr. Testi mariani del secondo millennio, 6. Autori moderni dell'Occidente (secc. XVII-XIX), a 
cura di S. De Fiores e L. Gambero, Città Nuova, Roma, 2005, p. 801. 


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L'Annunciazione, gli Angeli, il Corano 





nunziatore di una lieta notizia, e con dolci parole così le dice: «Ave, o Maria, il Signore è con te. 
La benedetta tu sei fra le donne» [Luca, I 28]. O bello, o grande e sublime saluto, che in terra 
non s'era mai udito, né si udirà mai! [...] Appena l’arcangelo celeste ebbe pronunziate queste 
parole, tacque, quasi aspettando il cenno di lei per spiegare la sua divina ambasciata. Maria 
però, udito il sorprendente saluto, si turbò; taceva e pensava. Ma forse credi, o figlia mia, che 
a Maria non fossero mai discesi gli angeli del paradiso? Essa ogni momento ne godeva la visita 
e i loro dolci colloqui [...]. Essa non va ad investigare nella sua mente il senso misterioso, ma 
si turba perché si crede indegna dell’angelico saluto. 


Sul problema è intervenuto di recente un outsider, Carmine Alvino, avvocato 
con il gusto della ricerca, che lo ha indotto a scrivere diecine di libri su misteri 
e segreti della storia e della teologia, tutti animati da buona volontà ma affetti 
dalla ingenuità del dilettante e uit dell’esoterismo. Nel sito-web sette- 
arcangeli.it è inserito un video in cui lo stesso Alvino racconta come qualmente 
sia esistita un’annunciazione con più di un angelo, ne fornisce tracce letterarie in 
Alberto Magno, in Santa Metilde, in Maria di Agret e in Santa Gemma Galgani, 
elenca alcune delle attestazioni artistiche fra quelle da noi qui elencate e descritte; 
e costruisce una sua teoria secondo la quale il tutto risalga alle visioni del beato 
Amadeo da Silva (seconda metà del sec. XV), cui l’arcangelo in persona Gabriele 
avrebbe una volta rivelato la verità dei fatti, che poi Amadeo avrebbe raccontato. 
Fra le cose che Gabriele avrebbe rivelato al beato c'erano i nomi dei due angeli che 
lo accompagnarono nell’annunciazione: essi erano Geudiele (che significa buon 
consiglio) e Barachiele. Ora, lo stesso Alvino sembra a tratti rendersi conto della 
fantasiosità della sua ricostruzione, quando osserva onestamente che Alberto Ma- 
gno e Filippo Lippi vengono prima di Amadeo. 

Ma chi è questo Amadeo e quale grado di affidabilità può offrire? Seguiamo 
la voce che Grado Giovanni Merlo gli ha dedicato nel Dizionario Bione degli 
Italiani'*. Amadeo de Menes Silva o Amadeo Spagnuolo nacque forse a Ceuta agli 
inizi del Quattrocento. Francescano, venne in Italia nel 1452, e operò nel milanese, 
acquistandosi fama di taumaturgo e visionario. Protagonista di rapporti diplomati- 
ci e forse anche di intrighi politici, menò vita attiva e contrastata, costellata di lotte 
all’interno della Chiesa e di acquisizione di privilegi e poteri. Morì nel 1482. I suoi 
seguaci non riuscirono ad ottenere che fosse proclamato santo. A lui è attribuito 
uno scritto noto come Apochalypsis nova dai contenuti fortemente profetici e visio- 
nari, che sarebbe stato dettato nell’ultimo decennio di vita a un suo scrivano. Ma 
all'esame filologico di attenti ricercatori ha rivelato piuttosto la natura di dubbia 
autenticità””. In attesa dell'edizione critica annunciata, varrà la pena di affidarsi 
al giudizio di Merlo: «Benché non sia da escludere che la primitiva composizione 
dipenda dalla dettatura dello stesso M[enes], è indubbio che il testo trasmesso in 
numerose copie, e oggi disponibile, sia frutto di ampi rimaneggiamenti e integra- 
zioni realizzati sul finire del papato di Giulio II, ossia poco prima del 1513, quando 





28 G. G. Merlo, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXIII, Istituto della Enciclopedia Italiana, 
Roma 2009. 

2 Cfr. Anna Morisi, Apocalypsis Nova. Ricerche sull'origine e la formazione del testo dello pseudo- 
Amadeo, Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 1970; A. Morisi Guerra, Apocalypsis Nova. A 
plan for Reform, in: Prophetic Rome in the High Renaissance period, ed. by M. Reeves, Clarendon Press, 
Oxford 1992, pp. 27-50. 


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Michele Feo 





Amadeo era morto da una trentina d'anni». Un'ipotesi è che il trattato sia stato 
scritto in realtà dal francescano bosniaco Juraj Dragi$ié (nome latinizzato Benigno 
Salviati). Ma sia l’opera di Amadeo o una costruzione fatta da altri su suoi materiali, 
non pare dubbio l’influsso che ha esercitato in ambienti culturali e artistici in un 
periodo travagliato della storia della chiesa. Una prova del successo che le visioni di 
Amadeo dovettero godere anche nelle alte gerarchie ecclesiastiche sta nella grande 
tavola eseguita ai primi del Cinquecento dal pittore Pedro Fernindez de Murcia 
che si trova nella Galleria Nazionale d'Arte Antica di palazzo Barberini a Roma. Per 
quanto attiene alla storia della Vergine, recenti approfondite ricerche hanno dimo- 
strato un influsso variegato della I sulle arti figurative?0. 

Tornando ad Alvino, meglio e più diffusamente egli sostiene le sue argomenta- 
zioni in un lungo articolo dal culo I sette Arcangeli nello stesso sito-web con am- 
pie citazioni dalla Apochalypsis. Per difendere il suo attacco alla credibilità dell’e- 
vangelista Luca l’Amadeo si fa preventivamente spiegare da Gabriele che Luca 
non disse tutta la verità sull’annunciazione, perché questo gli aveva imposto Dio, 
temendo i danni che sarebbero potuti insorgere da una diffusione improvvida di 
tutte quelle notizie. L'argomento è strano, ma è questo. Altra stranezza è quella 
con la quale Gabriele sindacalmente attacca la teoria dionisiana secondo la quale 
gli arcangeli sono la gerarchia angelica più bassa e sostiene che siano invece la più 
alta. Finalmente nel Raptus quintus rivela al santo impostore francescano come 
veramente andarono i fatti nella notte dell’annunciazione?!: 


Et ego Gabriel missus a Deo cum Euchuthiele et Baracchiele et multis angelis 
de quolibet choro, sed tres eramus de septem astantibus. Ego enim, qui fortitudo Dei inter- 
pretor, veniebam quasi nunctius Dei Patris; Euchuthiel, qui bonum consilium interpretatur, 
erat quasi nunctius Filii Dei, qui Sapientia et Consilium Dei Patris dici solet; Barchiel venit 
quasi nunctius Spiritus Sancti, quia benedictio illi personae attribuitur. Quia tamen individua 
et inseparabilis est actio et operatio illorum, omnes fuimus totius Trinitatis nunctii. Et quia ego 
principalis et primus eram inter omnes missus, immo sum primus absolute post Michaelem, 
ideo evangelista Lucas de me solum facit mentionem; ego itaque cum illis duobus prae- 
cipuis et magna multitudine caelestis exercitus accessi, missus a Deo in civitatem 
Nazareth, ad virginem tunc desponsatam viro cui nomen Ioseph [Luc., I 26-27] de domo 
David, sicut et Maria erat, et Eleazar et Hely atque Ioachim, ex parte Mariae, quia Ioseph erat 
de domo Eleazar et alterius Heli, secundum legem, et Iacob, secundum generationem, et vir- 
ginis nomen erat Maria. Ingressi sumus ad cam quasi novissima diei hora sicut et in novissimis 
diebus incarnatio haec fieri debebat. Et nos tres primo ei apparuimus in effigie humana 
pulchri et splendidi, praecedente Spiritu vehementi. Et lumen replevit totam domunculam 
illam. Et humana voce ego dixi ad Mariam: «Ave, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu 
in mulieribus» [Luc., I 28]. 


30 


Cfr. Stefania Pasti, Giulio dei Medici e l’«Apocalypsis Nova»: una fonte per i quadri di Raffaello e Se- 
bastiano del Piombo per la cattedrale di Narbonne, «Bollettino dei monumenti, musei e gallerie pontificie», 
XXX (2012), pp. 103-152; Ead., Giulio Romano e la «Madonna della gatta»: uno studio iconografico, «Storia 
dell’arte», CXXXI (2012), pp. 27-60; Ead., Jules Romain et l'Assomption au musée du Louvre, «La revue des 
Musées de Framce», LXII (2012), pp. 52-61, 110-111. Vd. anche C. Vasoli, Dall'apochalypsis nova al De 
harmonia mundi, in: I Frati Minori tra ‘400 e ‘500, Centro di studi francescani, Assisi 1986, pp. 257-29. 
7! Cito dal più antico dei manoscritti, il Vaticano Lat. 3825, leggibile on line fra i codici digitalizzati 
della Biblioteca Apostolica Vaticana. È annunciata un'edizione critica a cura di Domingos Lucas Dias. 


48 


L'Annunciazione, gli Angeli, il Corano 





Ed io Gabriele sono stato mandato da Dio insieme con Eucutiele e Barachiele e 
con molti angeli di ogni coro, ma dei sette astanti eravamo tre. Io, infatti, il cui nome 
significa ‘fortezza di Dio’, venivo quasi come nunzio di Dio Padre; Eucutiele, che significa 
‘buon consiglio’, era come fosse nunzio del Figlio di Dio, che si è soliti chiamare Sapienza e 
Consiglio di Dio Padre; Barachiele venne quasi nunzio dello Spirito Santo, perché a quella 
persona si attribuisce la benedizione. Poiché tuttavia individua e inseparabile è la loro l’azione 
e attività, tutti fummo nunzii di tutta la Trinità. E poiché io ero il più importante e il primo fra 
tutti, anzi sono in assoluto il primo dopo Michele, per questo l’evangelista Luca fece menzione 
solo di me; io dunque insieme con quei due eccellenti angeli e con una grande 
moltitudine di soldati celesti, andai, mandato da Dio nella città di Nazareth, da una 
vergine promessa a un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide come lo era Maria, e 
lo erano Eleazaro ed Eli e Gioacchino per parte di Maria, poiché Giuseppe era della casa di 
Eleazaro e dell’altro Eli secondo la legge e di quella di Giacobbe secondo la stirpe, e il nome 
della vergine era Maria. Entrammo da lei quasi all'ultima ora del giorno, così come questa 
incarnazione doveva aver luogo negli ultimi giorni. E noi tre per primi apparimmo in 
forma umana, belli, splendidi, preceduti dallo Spirito impetuoso. E la luce invase tutta quella 
piccola casa. Ed io con voce umana dissi a Maria: «Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con 
te, benedetta tu sei fra le donne». 


Niccolò da Lyra 

Tralasciamo la amplificazione senza misura del dialogo fra la Vergine e il lo- 
gorroico arcangelo, e prendiamo in mano il commento alla Bibbia di Niccolò da 
Lira o Lyra (1270 ca.-1349), fortunato e famoso a dispetto della sua mancanza di 
filologia e di senso critico. Ebbene, l'edizione del commento uscita nel 1507, al f. 
22r, col. a, ci regala il seguente cospicuo passo, inteso certo a sostenere le doti di 
profetessa di Maria, ma anche a ricordare a tutti che la fama delle sue virtù si dif- 
fuse ben oltre i confini della cristianità. Ecco dunque l’inaspettata dichiarazione”: 


Accessus ad prophetiam non fuit corporalis nec de presenti, sed spiritualis et de futuro in 
longinquum, secundum quod habet Lucas <I 35>, idest: «Spiritus Sanctus superveniet in te, 
et virtus Altissimi obumbrabit tibi». Quod autem beata Virgo Maria prophetissa fuerit patet 
Lu(ce) I <48>, ubi prophetavit de sua veneratione futura di(cens): «Beatam me dicent omnes 
generationes», quia de omnibus gentibus sunt aliqui christiani dicentes eam beatam, et non 
solum a christianis dicitur beata, sed etiam a saracenis. Scriptum est enim in Al/chorano Mahu- 
meti <II 42>: «Dixerunt angeli: “O Maria, utique Deus elegit te ut purificaret te; et elegit te 
claram super mulieres seculorum”». Item ibidem, <III 45>: «Dixerunt angeli: “O Maria, Deus 
annunciet tibi Verbum ex ipso; nomen eius Iesus filius Marie, et erit honorabilis in hoc seculo 
et in futuro”». Item ibidem, <IIl 47>: «Dixit ipsa: “Deus meus, quomodo erit mihi filius et 
non tetigit me homo?”. Dixit: “Sicut Deus creat quod vult, cum decrevit utique acquiratur. 
Dicit enim: ‘Esto’, et erit”». Et hoc modo dixit Gabriel Marie Lu(ce) <I 37>, idest: «Non erit 
impossibile apud Deum omne verbum». Item in eodem cantico, <Luc., I 52>, prophetavit 
Maria de futura reprobatione iudeorum et vocatione gentium, idest: «Deposuit potentes de 
sede et exaltavit humiles». Et sic patet cam fuisse prophetissam. 


L'accesso alla profezia non fu corporale né riguardante il presente, ma spirituale e riguar- 
dante il futuro su tempi lunghi, secondo che si ricava da Luca <I 35>, ossia: «Lo Spirito Santo 
scenderà su di te, e la virtù dell’Altissimo ti adombrerà». Che poi la beata Vergine Maria sia 





3 Quarta pars huius operis in se continens glosam ordinariam cum expositione Lyre litterali et morali 


nec non additionibus et replicis, ex artavalle ultra Basilencam bissam die xxi Iunii anno MDVII (esempla- 


re posseduto dalla Bibl. Univ. di Pisa, A.A.4.25). 


49 


Michele Feo 





stata profetessa appare evidente dal primo capitolo di Luca, $ 48, dove essa profetizzò la sua 
futura venerazione dicendo: «Mi diranno beata tutte le generazioni», giacché di tutte le genti ci 
sono certo alcuni cristiani che la dicono beata, ma beata vien detta non solo dai cristiani, bensì 
anche dai saraceni. Infatti è scritto nell’A/corazo di Maometto, <II 42>: «Dissero gli angeli: “O 
Maria, in verità Dio ti ha scelto per purificarti; e ti ha eletta famosa fra tutte le donne del mon- 
do”». E ancora nello stesso luogo, <II 45>: «Dissero gli angeli: “O Maria, Dio ti annuncerà il 
Verbo che viene da lui; il suo nome sarà Gesù figlio di Maria, e sarà degno di onore in questo 
tempo e nel futuro”». E sempre nello stesso luogo, <III 47>: «Disse lei: “Dio mio, come avrò 
mai un figlio, se uomo non mi hai mai toccato?”. Rispose: “Siccome Dio crea ciò che vuole, 
quando ha deciso, assolutamente deve realizzarsi. Basta che dica: ‘Sia’, ed avverrà”». E allo 
stesso modo disse Gabriele a Maria in Luca <I 37>, cioè: «Non c'è verbo che sia impossibile 
a Dio». E nello stesso canto, <Luca, I 52>, Maria profetizzò della futura condanna dei giudei 
e della chiamata dei gentili, ossia: «Abbattè i potenti dalla loro sede ed esaltò gli umili». E da 
tutto questo appare evidente che fu profetessa. 


Il Corano latino 

L'importanza storica di questo discorso non sta certo nella teoria che la Vergine 
fosse profetessa, ma nella chiamata in causa del Corano come testimone decisivo 
ex parte Mariae, in una sorta di spericolata concordanza teologica fra le due religio- 
ni irriducibilmente rivali e sanguinosamente nemiche, il cristianesimo e l’islami- 
smo, il Vangelo e il Corano. Cosa che ci richiama ruvidamente allo spinoso e mai 
risolto li degli incontri e scontri fra le religioni, per la verità più scontri 
che incontri, a dispetto della proclamata missione - tutte le parti sbandierano di 
pace e amore. L'episodio che riguarda la Madonna è tanto più strepitoso, quando 
si pensi che l’opera del Lyra ha avuto una diffusione enorme, che giunge a circa 
ottocento manoscritti e a un centinaio di edizioni a stampa fra il 1471 e il 1660, a 
partire dalla prima romana del 1471-72 in cinque volumi. Occorre risalire parec- 
chio indietro nel tempo, alla prima metà del XII secolo. Regnanti europei in cerca 
di ‘spazi vitali’ e fanatici profeti hanno già avviato da circa mezzo secolo sciagurate 
imprese militari alla riconquista del Santo Sepolcro. In quegli anni nasceva in 
Italia Francesco d'Assisi, che avrebbe nel primo decennio del nuovo secolo tentato 
l'impossibile predicazione ai saraceni di quel Cristo, che essi conoscevano «se non 
attraverso le armi odiate dei crociati»**. Da altre sponde, quella politica del dialo- 
go fra i popoli, quella culturale dello scambio di libri e traduzioni, e anche quella 
dell'amore per l’arte, la poesia e la bellezza, avrebbe rifiutato lo scontro e cercato la 
convivenza il genio assoluto del Medioevo, Federico II di Svevia. Ma un’inquietu- 
dine percorreva i più avvertiti intellettuali d'Europa, un senso di insoddisfazione a 
cospetto della centralità della civiltà latina. Qua e là insorgevano, con motivazioni 
diverse, desideri di nuovi orizzonti: intellettuali che disertavano le scuole europee 
con accigliati asini in cattedra e cercavano la parola Spice di dotti arabi. E 
dalla marginale Inghilterra sarebbe venuta una voce, quella di Ruggero Bacone, a 
dichiarare i limiti della romanità e a proporre una rimodulazione dei fondamenti 
culturali, recuperando la scienza degli ebrei, dei greci e degli arabi. All’umanesimo 
di marca francese del XII secolo e alla sua rinascenza già abbastanza anti-romana, 





8. Cfr. L. Oliger, in Enciclopedia Italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1934. 

3. E. Franceschini, in: San Francesco d'Assisi, Scritti, trad. di E Mattesini, Edizioni O. R., Mila- 
no 1976, p. 9. Sulla missione di Francesco presso il Saladino vd. ora E. Ferrero, Francesco e il Sultano, 
Einaudi, Torino 2019. 


50 


L'Annunciazione, gli Angeli, il Corano 





avrebbe fatto seguito il secolo senza Roma. Fu entro questo tormentato processo, 
del resto sui tempi lunghi perdente la sua parte, che nella mente di alcuni maestri 
maturò l’idea di una prima traduzione del libro odiato e non conosciuto, il Co- 
rano, nella lingua universale della cultura europea, il latino. Il progetto partì da 
Pietro il Venerabile, abate di Cluny, e ne fu incaricato l'inglese Roberto di Kelton o 
Kennet (Robertus Ketenensis), che lo portò a compimento nel 1143 con Erman- 
no di Carinzia o Ermanno Dalmata e l’aiuto dell’ebreo convertito Pietro Alfonsi. 
Nacque così il primo Corano latino, che ebbe tuttavia scarsa circolazione?® e fu 
stampato solo nel 1543 a Basilea dall’umanista protestante Theodor Buchmann 
(Bibliander), con una prefazione di Melantone e con refutazioni di vari autori?”. 
Ma il testo, nonostante i dichiarati sforzi di correzione, è a tratti arruffato e in- 
comprensibile. Intanto una sessantina d’anni dopo Kelton un Marco da Toledo 
aveva procurato una nuova traduzione (mss. Parigini 780 della Bibl. Mazarine, e 
Lat. 3394 della Bibl. nat. de France), che prese il nome di Alchoranus latinuS*. A 
un confronto fra le due prime traduzioni, risulta alla D’Alverny essere quella del 
Kelton più elegante, ma più infedele, e quella di Marco più letterale. Il Lyra, com- 

ilando il suo torrentizio commento nel primo Trecento, dovette usare il Corano 
baco di Marco, ma sentendosi libero di modificarlo qua e là. 

Da quelle prime traduzioni l'Europa poté apprendere che Maometto e il Cora- 
no avevano una grande ammirazione, unita a devozione, per Maria. Da allora teo- 
logi ed esegeti cristiani si sono misurati, quando con rispetto, quando con risentita 
ostilità, con la mariologia islamica. E stato un processo lungo e non lineare, che ha 
avuto momenti di alta attenzione in Niccolò Cusano con le glosse affidate a metà 
Quattrocento al cod. Vaticano Lat. 4071 e in Antonio Rosmini col suo opuscolo 
Maria nel Corano del 1845%°, A quel lavoro che ha il fascino e i limiti delle imprese 


5 Tutta questa storia è ricostruita e raccontata con maestria da M.-Th. D’Alverny, Deux traduc- 


tions latines du Coran au Moyen Age, «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», XXII- 
XXIII (1947-1948), pp. 69-131; rist. in: La connaisance de l'Islam dans l’Occident médiévale, Variorum, 
Aldershot 1994. 

36. Se ne conoscono i codd. Parigino Arsenal 1162; Vaticano Lat. 4071; Kues, Bibl. Hospital 107 
e 108, ff. 1-193v; London, British Library, Add. 19952, ff. 85-98v. 

9 Machumetis Saracenorum principis eiusque successorum vitae, doctrina, ac ipse Alcoran, ... quae 
ante annos 400, D. Petrus abbas Cluniacensis per viros eruditos Robertum Retenensem et Hermannum 
Dalmatum ... ex Arabica lingua in Latinam transferri curavit... opera et studio Theodori Bibliandri, 
[Zurigo], Christoph Froschauer, 1550. Esemplare posseduto dalla Biblioteca Marucelliana di Firenze, 
MAG. 6. B. II. 68. Sull’ed. di Bibliander vd. il saggio cit. della D’Alverny, p. 104. Retenensem per Ket- 
è un antico errore. Della traduzione Kelton si annuncia un'edizione a cura di José Martinez Gazquez 
nell'Università Autonoma di Barcellona. 

38 Alchoranus latinus, quem transtulit Marcus Canonicus Toletanus. Estudio y ediciòn critica 
Nadia Petrus Pons, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, Madrid 2016. 

9. Cfr. J. Martinez Gazquez, Las glosas de Nicolas de Cusa al «Alchoranus Latinus» en el ms. Vat. Lat. 
4071, in Niccolò Cusano. L'uomo, i libri, l’opera. Atti del LIT Convegno storico internazionale. Todi, 11-14 
ottobre 2015, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2016, pp. 473-491, a pp. 481-485. 
Vd. anche J. E. Biechler, Three manuscripts on Islam from the Library of Nicolaus of Cusa, «Manuscripta», 
XXVII (1983), p. 91; PT. Tommasino, L'Alcorano di Macometto, Il Mulino, Bologna 2013. 

‘0A. Rosmini, Maria nel Corano, a cura di FE. De Giorgi, Morcelliana, Brescia 2013. L'introdu- 
zione del curatore offre una ricostruzione perfetta della storia e dei fermenti religiosi che animano il 


libro. 


51 


Michele Feo 





pionieristiche son seguite ricerche più scientificamente fondate, ma non tutte uni- 
voche nei risultati, e fra esse mi pare che eccella quella di Nilo Geagea." Qualcosa 
c'è nel Corano che sembra aver avuto un riflesso da noi. Dice infatti la sura III 
che a Maria parlarono angeli per annunciarle il suo destino di gloria: e ciò si può 
vedere nella traduzione latina citata dal Lyra. Sostiene il Geagea che questo plurale 
è in realtà un singolare, secondo un costume islamico del ll per il pia paris 
È vero che poco dopo (III 47) il verbo angelico diventa singolare (dix/9). Ma un 
latino non poteva non stare ai fatti e prendere atto che a Maria prima parlano 
angeli, poi l'angelo. Di quest'angelo il Corano non fa il nome, e ul tardi esegeti 
lo hanno identificato con Gabriele. 

Ecco, rispondendo dal mio angolo di ricerca alla domanda della D’Alverny, 
su quale sia stata la ripercussione intellettuale europea delle due traduzioni, mi 
pare di poter tirare la conclusione che sia stata probabilmente la realtà testuale del 
Corano che ha indotto alcuni artisti nostrani o qualche loro dotto suggeritore a 
introdurre due o tre angeli nell’Annunciazione. La spiegazione funziona per i due 
angeli, giacché tutti e due fanno convergere i loro gesti verso l'annuncio, uno in 
prima di l’altro un po più indietro. Né il Lyra né il Cusano” hanno osato criti- 
care il Corano sul numero degli angeli. Hanno semplicemente preso atto che nel 
libro sacro degli islamici l’annuncio viene portato a Maria, o piuttosto a questo 
punto Maryam, prima da più angeli, e che in un secondo momento è uno solo di 
essi a parlarle. Meno facile è coniugare la realtà testuale coranica con la presenza 
in alcune nostre pitture di tre angeli, giacché in questo caso uno solo assolve il 
compito, mentre gli altri due sembrano starsene a distanza a conversare o discutere 
fra di loro su qualcosa che li riguarda. Meno facile, ma non impossibile. Sempre 
nella sura III, fra i paragrafi che raccontano come qualmente gli angeli parlavano a 
Maria (43 «O Maryam, sii devota al tuo Signore, prostrati e adora con chi adora», 
42 «E quando gli angeli dissero a Maria: “O Maryam, Iddio t'annuncia la buona 
novella...”») s'incunea un passo ($ 44) in cui qualcuno rivela a un altro — cosa che 
quest'altro non poteva conoscere — che tirarono a sorte per sapere chi si sarebbe 
preso cura di Maria. Ecco il passo come si legge nelle prime traduzioni": 





41 


Nilo Geagea, Maria nel messaggio coranico, «Ephemerides Carmeliticae», XXI (1972), pp. 
235-408. Il grande arabista Alessandro Bausani esortava alla lettura dell’equilibrato opuscolo di P. Jean- 
Muhammad Abd al-Jalil, Probl/èmes de mariologie dans le Coran, s. 1. 1948. Ma la letteratura su Maria 
nel Corano è ormai vasta. Prescindendo dalla critica islamica (che non sono in grado di controllare), mi 
limito qui ad aggiungere alle opere già sparsamente ricordate e senza intento di completezza: M. Dous- 
se, Maria la musulmana. Importanza e significato della madre del Messia nel Corano, trad. it. M. Faccia, 
Arkeios, Roma 2006; L. Bressan, Maria nella devozione e nella pittura dell'Islam, con la collaborazione 
di M. Borrmans, A. H. Hassoun, L. Passalacqua, M. Rajah al Bayyùmi, Jaca Book, Milano 2011; Yahya 
Pallavicini, La sura di Maria. Traduzione e commento del capitolo XIX del Corano, Morcelliana, Brescia 
2020; per il resto rinvio a una ricca serie di pubblicazioni possedute dalla Biblioteca Nazionale Centrale 
di Firenze. Purtroppo alcuni di questi libri sono improntati a mero spirito pedagogico ed irenico, e 
difettano di senso storico. 
4 Gzquez, Las glosas, cit., pp. 481-485. 

Sono mici i corsivi, i numeri di paragrafi e la punteggiatura. Un piccolo problema costituisce 
la crux che segue il nome di Gesù: non credo che abbia valore diacritico, ma che serva a imprimere il 
marchio della sacralità al nome. 


43 


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L'Annunciazione, gli Angeli, il Corano 





Kelton, ed. Bibliander 1550 Marco da Toledo, ed. Petrus Pons 2016 


4 Angeli rursus Mariam alloquentes inquiunt: 
«O. Maria, omnibus viris et mulieribus 
splendidior et mundior atque lotior, * soli 
Deo perseveranter studens, ipsum cum 
humilibus genuaque Deo  flectentibus 
adora». 4 Tibi, qui nequaquam intereras sortes 
proiicientibus et curam agentibus quis Mariae custos 
efficeretur, haec arcana secretissima committo, 
angelis dicentibus: «O Maria, tibi summi 
nuncii gaudium cum verbo Dei, cuius 
nomen est Christus Iesus, filius Mariae, t qui 
est facies omnium gentium in hoc saeculo 
futuro ‘ senes et infantulos. cunabula 
servantes conveniens, prudens, sapiens, vir 
optimus ab universitatis creatore mittitur». 
‘’ Respondet illa: «0 Deus, cum virum non 
tetigi, fillum quomodo concipiam?. Inquiunt 
angeli: «Deo nihil occurrit. impossibile, 
omnia prout vult operanti: cuius mandatum 
omne suum placere perficit. ‘ Ipseque 
fillum tuum cum divina virtute venientem 
Librum legiferum omnisque magisterii 


peritiam et Testamentum ‘ ac Evangelium 
Mandatumque  filiis Israel edocebit. Ile 


namque formis volatilium luteis a se 
compositis insufflans  volatile<s>  faciet, 
caecos et mutos curabit, morpheaticos 
atque leprosos.  emundabit,  mortuos 
creatore cooperante  vivificabit, quidque 
commestui, quidve dispositioni deputatum 
sit propalabit. Quae cuncta in Deum a 
credentibus miracula censentur. 5 Vetus 
Testamentum confirmabit: quaedam tamen 
prius prohibita licitis annumerabit, seque 
cum divina virtute potentiaque venisse 
patefaciens inquiet: «Timentes Deum me 
sequamini. 7 Deus enim mei vestrique 
Dominus est. Quem adorantes recto 
proceditis tramite». 5 Y Sciens Iesus eos in 
sua incredulitate obstinaces manere, inquit: 
«Quis in Dei nomine me sequetur® Viri 
quidem albis induti vestibus respondentes 
dixerunt: «Nos in Dei nomine te sequentes, 
in Deum credimus, te teste». 


‘ Et quando dixerunt angeli: «O Maria, 
Deus elegit te et mundauit. Et pretulit super 
omnes gencium mulieres. ‘ Maria, humilia 
te creatori tuo et supplica et ora cum 
orantibus. ‘ Hoc fuit de secreto futurorum quod 
reuelaui tibi, et non eras apud eos quando uadia 
ponebani, scilicet calamos suos, quis eorum educaret 
Mariam et non eras apud eos quando disceptabant. 
#4 Quando dixerunt angeli: «O Maria, Deus 
annunciat tibi Verbo suo, cuius nomen est 
Cristus Ihesus, filius Marie, magnus in hoc 
seculo et in futuro de oblatis, ‘9 et affabitur 
homines et in cunabulis et adultus et erit 
de sanctis». ‘” Et ait: «Creator mi, quomodo 
erit mihi filius et non tetigit me uir> Dixit: 
«Sic: creat Deus quod uult. Quando iudicat 
quicquam, dicit: esto, et fit. ‘8 Et docebit 
eum Librum et Sapienciam et Decalogum et 
Euangelium. ‘ Et prophetam ad filios Israel: 
Veni ad uos cum miraculo creatoris uestri. 
Creabo enim uobis de luto ad modum 
auis; et sufflabo in ea et fiet auis nutu 
Dei. Et curabo cecum natum et leprosum 
et suscitabo mortuos ad nutum Dei. Et 
prophetabo uobis quid edetis et quicquid 
in domibus uestris reconditis. In his enim 
miraculum est uobis, si uos creditis. 5° Et 
asseritis quod habeo pre manibus de libro 
Decalogi, ut absoluam uobis quedam que 
uobis fuerunt prohibita; et ueni ad uos cum 
miraculo creatoris uestri. timete ergo Deum 
et obedite mihi. 5 Deus enim est creator 
meus et creator uester. Adorate eum: hec 
est uia recta. 7 Cumque Ihesus ab eis 
blasphemiam intellexisset, ait: «Qui sunt 
qui defendunt mecum Deum® Dixerunt 
Apostoli: «Nos. sumus qui defendimus 
Deum. Credimus in eum. Et profitere quod 
nos sumus Ysmahelite». 





Le due traduzioni sono molto diverse fra loro, ma nella sostanza vanno d’accor- 
do. La meno perspicua è tuttavia la prima. Che vuol dire? Proviamo a tradurla in 
italiano nella forma più letterale e fedele possibile, correggendo preliminarmente 
49 volatile in volatiles, e ponendo virgola alla fine del $ 44; resta con ogni verisimi- 
glianza corrotta la struttura di 48-49. 


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Michele Feo 





4 E di nuovo rivolgendosi a Maria gli angeli dicono: «O Maria, tu che sei più splendente, 
più pura e più pulita di tutti gli uomini e di tutte le donne, tu che sei devota con costan- 
za al solo Dio, ‘adoralo insieme con gli umili e con coloro che davanti a Dio piegano le 
ginocchia». ‘A ze, che non eri presente quando tirarono a sorte e si preoccuparono i appurare 
chi dovesse prendersi cura di Maria, io trasmetto questi segretissimi arcani, ‘che sono quelli 
che dissero gli angeli: «O Maria, a te spetta la gioia del supremo messaggio con la parola di 
Dio, e il suo nome è Cristo Gesù, figlio di Maria, colui che nel secolo che verrà è if volto di 
tutte le genti», ‘che andrà d’accordo con vecchi e infanti; prudente, sapiente, uomo ottimo, 
viene mandato dal creatore dell’universo». ‘Lei risponde così: «O Dio, non avendo toccato 
uomo, come potrò concepire un figlio?». Dicono gli angeli: «Nulla è impossibile a Dio, dal 
momento che egli opera ogni cosa secondo la sua volontà: e si compiace di portare a com- 
pimento ogni sua decisione. “E lui stesso insegnerà al tuo figliuolo, che avanza provvisto di 
divina virtù, il Libro della legge e la perizia di ogni magistero e il Testamento ‘e il Vangelo 
e la 76ràh, e lo manderà a insegnarli ai figli di Israele. Egli infatti soffiando su uccelli da lui 
stesso fatti di fango li farà volare, sanerà i ciechi e i muti, guarirà i morfeatici ovvero lebbro- 
si, risusciterà i morti con l’aiuto del creatore, e renderà noto che cosa mangiate e che cosa 
teniate a disposizione. E tutto ciò sono ritenuti miracoli dai credenti in Dio. ’*Confermerà 
l'Antico Testamento: tuttavia renderà lecite alcune cose prima proibite, e rivelando di esser 
venuto per opera di virtù e potenza divina dirà: «Seguitemi temendo Dio. *!Dio infatti è 
il mio e il vostro Signore. Adorandolo procedete per la retta via. °°gSapendo Gesù che essi 
restavano ostinati nella loro incredulità, disse: «Chi mi seguirà nel nome di Dio? Uomini 
vestiti di bianche vesti dissero: «Noi ti seguiamo nel nome di Dio e crediamo in Dio grazie 
alla tua testimonianza». 


Ed ecco il passo del Corzzo III 42-52 come si legge nel testo critico: 


gii pa (43) dedleli sl le di La13 Lyle; dia) di 6) gia LD LI I; (4) 
el ped casi I pt té ag chill ai ia cli fa cli (44) gusti a Sp got dio) 
Grsunali Alu) Ai alt eli ll dj usa Li etal] CUI Î) (45) cigni Î) iii cid Lag aa di 
(7) Giai gag ipa di di 5 do) il grati lazy gue 
È RAI CB 0 vt 1 I 8 gr 0) di 1) LIE 
Si i JT; 9) dasfizilggilz uti ec ul; 49) 
sl i ciali al DAN deb il i e e gl gs hl va a SII 
Ga gd gs elica (50) NES NIUE SEO: ab iù gli osi Lig agli Sil; 
ESSERE O EEE PSI) a ia Sile A sli so; 
cai de A gici da di ili più uo Qual ali (52) puis biz.o la i siete 
Gli UL 21; dii il. dl ‘ai 


e nella traduzione italiana, ritenuta esemplare, di Alessandro Bausani (corsivo 
44, 
mio): 


#E quando gli angeli dissero a Maria: “O Maria! In verità Dio tha prescelta e t'ha purifi- 
cata e t'ha eletta su tutte le donne del creato. — ‘#0 Maria, sii devota al tuo Signore, prostati 
e adora con chi adora!” — ‘Questa è una delle notizie del mondo invisibile che noi ti riveliamo, 





44 Il Corano, introduzione, traduzione e commento di A. Bausani, Sansoni, Firenze 1978, p. 253. 


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L'Annunciazione, gli Angeli, il Corano 





perché tu non stavi con loro quando tiravano a sorte con le canne per sapere chi si sarebbe preso cura 
di Maria, non eri con loro quando discutevano di questo. #E quando gli angeli dissero a Maria: 
“O Maria, Iddio t'annunzia la buona novella d’una Parola che viene da Lui, e il cui nome sarà 
il Cristo, Gesù figlio di Maria, eminente in questo mondo e nell’altro e uno dei più vicini a 
Dio. — ‘Ed egli parlerà agli uomini dalla culla come un adulto, e sarà dei Buoni”. — “O mio 
Signore!, rispose Maria, Come avrò mai un figlio se non mha toccata alcun uomo?” Rispose 
l'angelo: “Eppure Dio crea ciò ch’Ei vuole: e ha deciso una cosa non ha che da dire: 
‘Sil’ ed essa è”. — ‘*Ed Egli gli insegnerà il Libro e la Saggezza e la 76744 e il Vangelo — ‘°e lo 
manderà come suo Messaggero ai figli d'Israele, ai quali egli dirà: “Io vi porto un Segno del 
vostro Signore. Ecco che io vi creerò con dell’argilla una figura d’uccello e poi vi soffierò sopra 
e diventerà un uccello vivo col permesso di Dio; e guarirò anche, col permesso di Dio, il cieco 
nato e il lebbroso e risusciterò i morti e vi dirò anche quel che mangiate e quel che conservate 
nelle vostre case. In tutto questo vi sarà un Segno per voi, se siete credenti. — 5°E son venuto 
a confermare quella 76744 che fu rivelata prima di me, per dichiararvi lecite alcune cose che 
Veran state proibite, e vho portato un segno da Dio; pertanto temete Dio e obbeditemi. — 
°!Poiché certo Dio è il mio Signore e il vostro Signore. Adoratelo: questa è la retta via”. — "Ma 
quando Gesù sentì il loro ribelle rifiuto, si chiese: “Chi saranno gli ausiliari miei verso Dio? ” 
“Noi, risposero gli apostoli, siamo gli ausiliarii di Dio, noi crediamo in Dio e tu vedi che a Lui 
tutti ci diamo!” 


Ma il passo è tormentato già nell’originale, e gli interpreti si dividono. Intanto, 
per capire il cambio di registro stilistico e sintattico dell'esposizione, soccorre la 
conoscenza di alcune caratteristiche del racconto coranico. Così spiega un auto- 
revole studioso: «all’improvviso, in modo brusco, il discorso degli angeli viene 
interrotto, ed è il Rivelatore che apostrofa il Profeta per renderlo attento alla pro- 
pria situazione di fronte al mistero della rivelazione: “Ti riveliamo cose del mondo 
invisibile, perché tu non eri con loro quando gettarono i loro calami...”». Lo 
stesso studioso sente ancora il bisogno di motivare la sua interpretazione entro 
una profonda significazione della sacra scrittura islamica, e aggiunge il seguente 
illuminante commento: «Il versetto 44 della sura III è fondamentale e costituisce 
verosimilmente la ragione per cui si viene a interrompere il discorso angelico: 
infatti, non si tratta altro che di affermare l’autorità del Corano in rapporto alle 
rivelazioni che l'hanno preceduto. Questi misteri fondatori del cristianesimo e, 
anteriormente, del giudaismo, si trovano in tal modo “ri-creati”, “discesi” (rivelati) 
di nuovo e immediatamente a partire da uno stesso Modello celeste...». 

L'esegesi moderna, dunque, convintamente afferma che c'era stata tra i leviti 
una gara per chi dovesse prendere sotto le sue cure Maria nel tempio, e che la 
vinse Zaccaria‘. Ma è esistita anche un’altra lettura, che ha trovato sostenitori del 
calibro di Rosmini e dell’autore del dizionario di mariologia””. Ecco le parole di 
Rosmini (corsivi miei): 


5. Dousse, Maria la mussulmana, p. 79. 


Secondo G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, con introduzione critica e illustrazioni, Rizzoli, Mi- 
lano-Roma 1941, pp. 661 e 457, una gara per i posti a tavola più vicini a Gesù ci sarebbe stata fra gli 
apostoli nell’ultima cena. «Quella brava gente aveva tutta una grande stima di sé», osserva Ricciotti, e 
il giudizio si riverbera in qualche modo, fra serio e scherzoso, sulle dispute fra i leviti e anche fra gli 
angeli. 

47 


46 


Rosmini, Maria nel Corano, p. 73 («genufletti» sarà un errore per «genuflettiti»); G. Roschini, 
Dizionario di Mariologia, Studium, Roma 1961, p. 242. 


55 


Michele Feo 





Segue l’annunciazione. Si fa, che gli angeli parlino a Maria così: «O Maria, certo Iddio 
elesse te e ti fece pura (cioè priva di ogni macchia di peccato), e t'elesse sopra le donne di tutti i 
mondi: o Maria sii devota al tuo Signore, e adora e genufletti co’ suoi adoratori». E dopo narra- 
to che gli angeli si disputarono chi dovesse essere fra loro il custode di Maria, e trassero le sorti a chi 
toccasse sì dolce e glorioso ministero, continua a farli parlare a Maria in queste parole: «O Maria, 
certo Iddio annuncia a te il Verbo da te procedente: il nome di lui sarà Cristo Gesù figliuolo di 
Maria [...]». Ella rispose: «Mio Signore, com’avrò io prole se uomo alcuno non mha toccata?». 
Disse l'angelo: «Così Iddio crea ciò che vuole [...]». 


Devo confessare che questa lettura esercita ancora su un profano come chi scrive 
una sua suggestione, e, tutto sommato, gli pare abbastanza coerente con lo svolgersi 
del racconto coranico. Come che sia, secondo questa lettura la gara era avvenuta, 
non fra i leviti, ma fra gli angeli mandati da Maria e aveva riguardato la scelta 
di quello fra loro che avrebbe dovuto essere il custode della fanciulla. Se ne può 
dedurre che la scena nostrana dell’annunciazione con tre angeli sia stata ispirata 
da questa interpretazione del passo coranico. Certamente la scena dell’Annun- 
ciazione Martelli e quella di Biagio di Antonio [Tucci?] acquistano chiarezza e 
senso se confrontate con il Corano latino nell’interpretazione di Rosmini. I due 
angeli retrostanti discutono fra di loro: uno ci volge le spalle e non è dato capire 
cosa faccia, l’altro è frontale e mostra braccia e mani aperte in segno forse di resa, 
come dicesse: E andata così, che ci vuoi fare? Il terzo angelo è quello che ha vinto 
la gara e svolge già l'ufficio di messo, inginocchiato davanti alla Vergine. Anche il 
significato dell’Annunciazione Martelli ne guadagna: l'angelo che si inginocchia 
è Gabriele; gli altri due sono angeli perdenti nella gara: uno dei due indica Ma- 
ria dicendo all’altro: «Ecco, la missione si compie, Maria accetta il suo ruolo»; il 
secondo accoglie in pace la rivelazione del compagno e si stringe le braccia al pet- 
to. Tutti e due mostrano un volto sereno e compiaciuto. Non è altrettanto facile 
trovare una spiegazione per i tre angeli negli altri dipinti in cui essi si adoprano 
per aiutare la Vergine. Ma per tutti può n. la giustificazione di una influenza 
del Corano latino. Intendo una influenza indiretta, forse itinerante per via orale 
e mai veramente fatta oggetto di una unica spiegazione razionalistica. Non si può 
escludere che la spiegazione possa valere anche per Alberto Magno. 

Ma una volta ipotizzato il Corano come archetipo della tradizione ritorna la 
domanda della fonte ultima che ha legittimato l'affermazione di Maometto. Una 
risposta è quella data da Rosmini: in realtà responsabile della storia della gara fra 
gli angeli non è Maometto ma chi ha frainteso le sue parole. Una diversa rispo- 
sta potrebbe darci il richiamo al mosaico paleocristiano (sec. V) di Santa Maria 
Maggiore, che precede abbondantemente il Corano: qui si vede Maria in trono al 
centro della scena e ai suoi lati cinque angeli in piedi, alti, maschili, vestiti di bian- 
co, mentre in cielo volano una colomba e Gabriele. L'obiezione è facile: Gabriele 
vola diretto verso Maria e non è ancora atterrato, i cinque angeli in piedi stanno 
a guardia della santa donna da molto prima che giunga Gabriele. Dunque, a fil di 
ragione, non fanno parte dell’Annunciazione, ma sono solo testimoni occasionali. 
Entro queste spiegazioni in conflitto non sarà facile trovare quella sicura e total- 
mente convincente. 

Un'ultima considerazione si deve fare in margine a queste provvisorie esplora- 
zioni in un campo ancora poco noto, e tuttavia investito da parte cattolica e, se 
non proprio cattolica, occidentale, di un vivace interesse. Se Maria non legge nel 
Corano quando avviene l’annunciazione, né dopo, allora se ne deduce che 7 mon- 


56 


L’Annunciazione, gli Angeli, il Corano 





do islamico l’abbia tenuta lontana dal libro. Ma ora, nel nuovo entusiasmo che 
anima gli studi interreligiosi, si scopre che ciò non è del tutto storicamente vero. 
Come non è vero che l'Islam, tutto e sempre, abbia rifiutato le immagini. E invece 
ben documentata una notevole presenza di Maria nelle arti figurative arabe, che 
riguarda tutti i momenti della sua vita, annunciazione, natività, allevamento del 
figlio, crocifissione. Questi episodi sono per lo più presenti nel lontano Oriente, e, 
se confrontati con quelli occidentali, appaiono tardivi e rivelano all’occhio esper- 
to dello specialista l'influsso, se non proprio l'acquisizione e imitazione dell’arte 
europea: ciò vale soprattutto per l’arte della dinastia Mogol, che dominò il sub- 
continente indiano dai primi del Cinquecento a metà dell’Ottocento*. Insomma 
sembra di dover riconoscere che la figura di Maria/Maryam abbia costituito per 
le due religioni un nucleo di sperimentazione, di confronto e di osmosi, e magari 
anche di rivalità. 


Addendum 

Due possibili altre Annunciazioni con due angeli, che non ho potuto control- 
lare: Filippo Lippi e aiuti, 1455, nel Museo Civico di Prato; un’opera non iden- 
tificata nel catalogo «Da Raffaello a Canova, da Valadier a Balla», Perugia 2018. 





48 


Bressan, Maria, p. 161 ss. 


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Michele Feo 








Fig. 1: Bernardo Daddi, Annunciazione con due angeli, Parigi, Louvre. 


58 


L'Annunciazione, gli Angeli, il Corano 








Fig. 2: Filippo Lippi, Annunciazione Martelli, Firenze, San Lorenzo. 


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Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica 


in Campania (XI-XII secolo) 





LAMIA HADDA 


Il tema dei rapporti artistico-architettonici tra le due rive del Mediterraneo 
ha attirato da sempre l’attenzione degli studiosi. Il presente saggio tenta di indi- 
viduare un filo conduttore attraverso l’analisi di alcune tecniche relative ai prin- 
cipali monumenti con la precisa finalità di specificare gli elementi culturali di 
continuità e di innovazione. La scelta di approfondire da vicino la tradizione 
arabo-normanna in Campania e i rapporti esistenti con l’architettura islamica 
prende spunto da precedenti ricerche. Esiste un filone storiografico che, già a 
partire dall'inizio del Novecento, individuò in /frigiya, dapprima nell’arte aghla- 
bide e in seguito in quella fatimide e ziride, le tracce della cultura islamica, ancora 
oggi ben visibile nell’architettura e nella decorazione dei monumenti dell’Italia 
Meridionale'. Del resto, in questi ultimi anni, sono stati compiuti importanti 
passi in avanti per portare alla luce, attraverso opportune indagini scientifiche 
e prospezioni ir situ, quella straordinaria e ricca testimonianza culturale lasciata 
come eredità dalla civiltà araba in Campania?. Lo studio indagherà, in particolar 
modo, la genesi dell’influenza islamica nell’architettura della regione tra l'XI e il 
XII secolo, epoche in cui troviamo disseminati tanti tasselli di storia che le popo- 
lazioni arabe, berbere e andaluse hanno diffuso attraverso il mare Mediterraneo, 
dando vita ad un sincretismo artistico di grande suggestione. 

Dal VII secolo, sulle coste italiane, è apparso un li. Medioevo che ha porta- 
to una civiltà diversa rispetto a quella Occidentale cristiana e bizantina, riuscendo 
ad imporsi su tutto il bacino sud del Mediterraneo e sulla parte orientale del 
mondo allora conosciuto. I territori dell’Italia meridionale, con i loro indife- 
si confini bagnati dal mare, fecero da approdo per nuove migrazioni. In Sicilia 
come in Sardegna, fino all’Abruzzo, passando per il Lazio meridionale, il Molise, 
la Campania, la Puglia, la Basilicata e la Calabria, le tracce della tradizione archi- 
tettonica islamica sono tuttora evidenti. L’incontro-scontro tra culture diverse è 
stato l'occasione di integrazioni e di repulsioni, ma, alla fine, sul territorio ita- 





1 È. Bertaux, Lart dans l'Italie meridionale, Paris 1904, pp. 616-628; P. Toesca, Storia dell’arte 
italiana: Il Medioevo, Torino 1927, pp. 595-596, 614-616; R. Pane, Intarsi murali romanici a Salerno, 
in «Bollettino di Storia dell’Arte», (1952), pp. 39-40. 

2 G.L. Kalby, Zarsie ed archi intrecciati nel Romanico Meridionale, Salerno 1971; M.F. Fontana, 
L'influsso dell’arte islamica in Italia, in Eredità dell'Islam, arte islamica in Italia, a cura di G. Curatola, 
Catalogo della mostra, Venezia, Palazzo ducale 30 ottobre 1993-30 aprile 1994, Milano 1993, pp. 
457-476; A. Cilardo, (a cura di) Presenza araba e islamica in Campania, Atti del convegno Napoli- 
Caserta, 22-25 novembre 1989, Napoli 1992; E Gabrieli, U. Scerrato, Gli Arabi in Italia, Milano 
1993. 


61 


Lamia Hadda 





liano sono rimasti i frammenti di una reciprocità culturale che solo da qualche 
tempo è stata colta nel suo giusto valore. Così, in molte città e contrade del Mez- 
zogiorno, c'è il sentimento di un passato lontano che non si è mai assopito e che 
spesso ritorna. Echeggia nelle viuzze informi dei quartieri febbrili di alcune città 
e nelle frenesie dei mercati, nei colori, nei visi, nel lessico e, soprattutto, nei saperi 
artistici e architettonici dei monumenti medievali dell’Italia meridionale. Tra i 
tanti punti di contatto ancora esistenti attualmente, la ricerca privilegia la cultura 
materiale poiché forse è quella che meglio riesce a far emergere le tradizioni co- 
struttive nordafricane e andaluse che sono l’obiettivo centrale del nostro lavoro. 

Potrebbe essere utile approfondire, al fine di ricucire i legami e le inflessioni 
tra questi due mondi, la parte relativa alla conoscenza dei monumenti arabi anco- 
ra da comparare con i loro corrispondenti campani. Ed è per questo che riflettere 
di nuovo sul tema assume una maggiore valenza poiché tende a far luce su un 
periodo suggestivo e fascinoso dell’architettura medievale mediterranea dei secoli 
XI e XII. 

I numerosi edifici d'epoca normanna ancora superstiti in Campania mostrano 
uno spazio espresso nella sobria composizione dei partiti decorativi dei paramenti 
murari esterni, a volte variamente intarsiati di tufo e pietra vulcanica, disposti 
secondo piani diversi. I motivi ornamentali di ascendenza islamica sono variegati 
e si contraddistinguono per una serie di arcature a rincassi duplici e triplici, ap- 
parecchiature murarie a tarsia e archi intrecciati con conci bicromi. Tali tipologie 
attestano l’alta qualità artistica promossa in particolare dalle maestranze salernita- 
ne e della Costa d’Amalfi, territorio politicamente potente e ricco grazie ai traffici 
commerciali che si svolgevano frequenti in tutto il Mediterraneo. In tale territo- 
rio, sono stati individuati numerosi resti di decorazione a tarsia, tecnica molto in 
uso nel mondo arabo. A Salerno, tra gli esempi più noti con tale decorazione, si 
ricordino: il frammento conservato nella cappella di Nona, un vano di passaggio 
del Palazzo Arcivescovile, il rosone dell’abside della chiesa di San Felice a Felline, 
le grandi monofore del Palazzo Pinto e gli archi del quadriportico che un tempo 
racchiudevano l’atrio della chiesa di San Benedetto, le facciate di Castel Terrace- 
na, l’atrio della cattedrale e, più tardi, i paramenti murari dei palazzi Pernigotti e 
Fruscione e di palazzo Veniero a Sorrento. 

La tarsia è una tecnica decorativa che consiste nell'uso di materiali di diversa 
colorazione per produrre in pietra un disegno su un paramento murario, al fine 
di attribuire alle pareti continue dell’edificio un ritmo di pura e semplice fanta- 
sia. L'effetto ornamentale non è affidato alle sporgenze o alle rientranze, ma al 
solo contrasto cromatico derivante dai vari tipi di pietra. Gli elementi lapidei 
sono disegnati in scala reale, con l'ausilio di pannelli in legno o latta, secondo un 
tracciato rettilineo o curvilineo per rappresentare i diversi motivi decorativi. So- 
litamente le tarsie geometriche sono caratterizzate da composizioni rettilinee che 
presentano forme quadrate, a losanghe, cubiche o a scacchiera. I giunti orizzon- 
tali e verticali sono messi in opera con pochissima sabbia e calce di colorazione 
bianca al fine di esaltare ancor più l’effetto cromatico ricercato. 

La tarsia è diffusa già dal periodo antico e ben nota fin dal mondo greco, dove 
era indicata con il termine di p/ékosis. I Romani, invece, usavano il vocabolo in- 
crustatio, da cui deriva la tecnica dell’incrostazione. Nel mondo classico, la tarsia 
era eseguita sia per la decorazione di pareti, sia per quella di pavimenti. Plinio il 
Vecchio sostenne che l’incrustatio fosse stato inventato in Caria poiché il palazzo 


62 


Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica in Campania (XI-XII secolo) 





del governatore, il Mausoleo di Alicarnasso, aveva le pareti laterizie rivestite di 
marmo proconnesiumì. È uno dei materiali frequentemente usati dai Romani per 
cui il termine divenne quasi un sinonimo dell'espressione incrustatio marmorea!. 
Quest'ultimo procedimento artistico fu largamente utilizzato nell’architettura 
romana d’epoca imperiale, come ci attesta qualche costruzione della città di Pom- 
pei. Gli esempi provenienti dall'antica città romana sono databili chiaramente 
prima del 79 d.C., anno dell’eruzione del Vesuvio. In epoca antica, altri esempi 
di decorazioni eseguite con la tecnica dell’incrostazione sono stati realizzati in 
altre località della Campania, come a Quarto vicino Napoli, dove è presente allo 
stato di rovina un mausoleo databile al II secolo d.C., su cui è evidente tale forma 
decorativa sul paramento esterno). 

Secondo Plinio il Vecchio, a partire dall’età giulio-claudia, fu elaborata un’al- 
tra tecnica: l’opus interrasile da interrado consisteva nell’inserire un impasto caldo 
di polvere di marmo entro incavi praticati nelle lastre®. Tale particolare tecnica fu 
applicata solamente alle pareti, dato che, per i pavimenti, le crustae, inserite negli 
incavi e necessariamente più sottili, erano considerate troppo soggette all’usura. 

Una delle differenze più evidenti tra le tarsie del dai classico e di quello 
medievale consiste fondamentalmente nell'impiego più discreto usato duran- 
te l'epoca medievale, in cui è possibile ammirare veri e propri cicli decorativi. 
Un'altra differenza sostanziale è individuabile nel tipo di dito sul quale sono 
presenti i motivi intarsiati poiché, a Pompei, essi non sono applicati sugli edifici 
religiosi, mentre in epoca medievale compaiono soprattutto sui campanili o sulle 
absidi delle chiese. In alcuni casi, i paramenti murari decorati con le tarsie me- 
dievali abbellivano ulteriormente l'esterno con bacini di ceramica smaltata che 
attribuivano ai manufatti un aspetto lucido, determinandone un forte contrasto 
cromatico con le pareti di pietra opache. L'uso dei bacini ceramici iniziò verso il 
X secolo con l’arrivo in Italia meridionale di scodelle, ciotole e piatti di maiolica 
di vari colori e dimensioni provenienti dall'Africa del Nord e dal Vicino Oriente. 
Alcuni edifici conservano ancora tale particolare artistico: sulla facciata di palazzo 
Veniero a Sorrento (fine XII e inizio XIII secolo) sono tuttora presenti alcuni me- 
daglioni circolari, comunemente detti ispano-arabi, che racchiudevano al centro 
un bacino di ceramica a forma di scodella. Altri elementi simili sono stati ritrovati 
in Villa Rufolo a Ravello, di epoca immediatamente successiva”. 

Diverse sono le ricerche relative alla genesi dell’impiego della tarsia lapidea 
in epoca medievale. Alcuni studiosi pensano che essa abbia origini arabe e che 
sia stata in seguito utilizzata da maestranze dapprima siciliane e poi sperimenta- 
ta in Campania. Altri, invece, sostengono che pl sia avvenuta quasi 
contemporaneamente, definendo un particolare tipo di decoro artistico detto 


Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXVI, 47. 

4 —G. Becatti, /ncrostazione, in Enciclopedia dell'Arte Antica, Roma 1961, VII, pp. 144-151. 

°. Purtroppo il monumento versa oggi in pessime condizioni: A. De Franciscis, R. Pane, Mausolei 
romani in Campania, Napoli 1957, p. 74. 

6 Plinio il Vecchio, Naturalis..., cit., XXXV, 2. 

7. R. Pane, Sorrento e la Costa, Napoli 1955, p. 106-108; P. Peduto, Bacini, tarsie e spolia nelle 
costruzioni in Italia meridionale al tempo degli ultimi Longobardi e dei Normanni, «Apollo», XXI (2005), 
pp. 99-114. 


63 


Lamia Hadda 





campano-siculo8. 

Molto è stato scritto su quale fosse il percorso di partenza di questa particolare 
tecnica decorativa. Lo studioso Luigi Kalby, nelle sue ricerche, ipotizzò che il pro- 
cedimento costruttivo della tarsia Esse di origine araba, mentre i disegni fossero 

iunti in Campania dalla Sicilia. In realtà, numerose maestranze di origine ara- 
Li furono costrette ad abbandonare l’isola dopo la repressione e la conseguente 
deportazione da parte di Federico II°. Occorre ricordare che molti monumenti 
arabo-normanni in Sicilia non presentano tarsie policrome e che gli esempi più 
remoti sono quelli della cattedrale e del chiostro di Monreale. Il Bottari affermò 
che, dal 1176, alle sculture del famoso chiostro lavorarono maestranze campane, 
come attesta la lettera inviata da re Guglielmo all’abate di Cava che riporta la 
presenza a Monreale di cento monaci cavesi!°. 

Certamente in Sicilia esistevano maestranze arabe esperte in lavori di tarsia 
che, dopo la deportazione del 1223, trovarono posto in vari settori, oltre a tanti 
artigiani sua divennero anche magistri tarsiatores!!, ovvero esperti in- 
tarsiatori impiegati presso la corte federiciana per la decorazione delle numerose 
residenze reali!*. Non è da escludere, quindi, che il gusto per opere del genere 
fosse giunto dai cantieri di Salerno e da quelli della Costa d’Amalfi, mediati, con 
molta probabilità, dalle maestranze cassinesi. Sappiamo inoltre che, nel 1081, 
il duca Ruggero I, nei dintorni di Messina, dopo aver stanziato ingenti somme, 
fece venire da ogni parte esperti muratori e maestranze “undecumque terrarum 
artificiosis caementariis conductis”'3. In Sicilia, oltre ai noti esempi delle cattedrali 
di Cefalù e Monreale che presentano tarsie murarie, possiamo citare le chiese dei 
Santi Pietro e Paolo ad Agrò, di Santa Maria a Mili San Pietro e di San Pietro ad 
Itàla (XI-XII sec.)!*. 

L'importanza della città di Salerno come punto in cui l’arte della tarsia ac- 
quista una valenza singolare è documentata di fatto che il maggior numero di 





8 Sulla genesi della tecnica di tarsia in Campania si veda: A. Gambardella, Le tarsie murarie in 


epoca federiciana, in Cultura artistica, città e architettura nell'età federiciana, a cura di C.D. Fonseca, 
Atti del Convegno di studi, Reggia di Caserta-Cappella Palatina 30 novembre-1 dicembre 1995, Roma 
2000, pp. 47-62. 

° G.L. Kalby, Le decorazioni parietali nell'architettura della Campania romanica, in La Chiesa 
di Amalfi nel Medioevo, Atti del convegno internazionale di studi per il millenario dell’archidiocesi di 
Amalfi (Amalfi-Scala-Minori, 4-6 dic. 1987), Amalfi 1996, pp. 301-312. 

!°S. Bottari, / rapporti tra l'architettura siciliana e quella campana nel Medioevo, «Palladio», V 
(1955), pp. 7-28; G. Ciotta, La cultura architettonica normanna in Sicilia, Messina 1992, pp. 135-189. 

!!  P. Egidi, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, 1912, p. 43: «bardarii, ossia 
fabbricanti di bardature per animali da tiro, e da sella e da carico, magistri tarsiatores indubbiamente 
maestri di tarsia, intarsiatori (...), carpentieri, armaiuoli, fabbricanti di tappeti, cui si potrebbe ag- 
giungere con certezza, benché ne abbiamo notizia solo al tempo angioino, figulinai, mattonai, piattai, 
calzolai, copertari, sarti, tessitori, tendai, muratori, cestai, fabbri de argento et de ferro». 

12 J-L-A. Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Friderici secundi, Paris 1852-1861, V, II, pp. 
764, 891, 905. 

!5. Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliane Comitis et Roberti Guiscardi 
Ducis fratris eius, Bologna 1928, III, 32, p. 77. 

14 P. Lojacono, // restauro della chiesa di SS. Pietro e Paolo d'Agrò a Casalvecchio Siculo, «Tecnica e 
costruzione», XV (1960), pp. 159-169; F. Basile, L'architettura della Sicilia Normanna, Catania-Caltani- 
setta-Roma 1975, pp. 10-19; 25-35. 


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Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica in Campania (XI-XII secolo) 





edifici decorati con tale tecnica si trova proprio in questo territorio e, in parti- 
colar modo, nella Costa d'’Amalfi”. La costruzione del duomo fu il frutto della 
volontà di Alfano, il grande arcivescovo che all’arrivo di Roberto il Guiscardo, 
nel dicembre del 1077, era alla guida della diocesi!°. L’abate Desiderio ebbe una 
forte ascendenza sulla nuova cattedrale salernitana, non tanto per il forte legame 
con Alfano, ma soprattutto per lo stretto rapporto intrapreso sia con Roberto il 
Guiscardo, committente del nuovo edificio, sia con la consorte, la pia Sikelgaita, 
che di Desiderio stesso era parente!. 

Desiderio ed Alfano furono legati anche da una predisposizione e da un’ade- 
sione agli ideali di una cultura i. universale, a metà strada tra Oriente ed 
Occidente, che si visualizzava attraverso l’opera d’arte, sia architettonica che fi- 

rativa, in termini ad un tempo antichizzanti ed innovatori'8. Alla ricostruzione 
dell’abbazia di Montecassino hanno partecipato numerosi artisti provenienti da più 
parti del Mediterraneo e Desiderio si prodigò affinché gli edifici che versavano in 
cattive condizioni fossero riparati, ricostruiti o abbelliti!?. Gli artigiani specializzati 
provenivano con molta probabilità dall'Egitto, ma anche da Bisanzio e trasmisero 
i segreti tecnici che, richiamando influenze greche, romane e arabe, elevarono al 
massimo splendore la scuola cassinese del IX secolo. Questo nuovo indirizzo cultu- 
rale fece sentire il suo influsso, oltre che nella pittura e nell’architettura, anche nei 
mosaici, negli smalti e nelle miniature. Inoltre, gli artisti arabi e bizantini trovarono 
a Montecassino un terreno già fertile grazie alla splendida stagione artistica che 
l'abbazia aveva vissuto nel IX secolo ad opera dell'abate Gisulfo. Bisogna tenere 
presente che i monaci-artisti relegati tra le mura dell’abbazia ebbero la possibilità di 
vedere, meglio di quanto possiamo fare noi oggi, i resti degli edifici Lù Cassino 
romana e di tutti gli edifici medievali circostanti. Del =. stesso Desiderio non 
ebbe dubbi allorquando ci fu la necessità di reperire colonne, capitelli e marmi per 
la sua chiesa, andando lui stesso a comprarle a Roma”. 

La cattedrale di Salerno, inoltre, è di fondamentale importanza poiché da essa 
derivano molte delle chiese romaniche dei dintorni, come le cattedrali di Ravel- 
lo e di Scala, le chiese S. Maria a Gradillo e S. Giovanni del Toro a Ravello, S. 
Eustachio presso la frazione di Pontone d’Amalfi e l’Annunziata a Scala, solo per 
ricordare le emergenze più rappresentative con decorazioni a tarsie. 





15 A. Braca, // duomo di Salerno: architettura e culture artistiche del Medioevo e dell’Età moderna, 
Salerno 2003; Id., Le culture artistiche del Medioevo in costa d'Amalfi, Amalfi 2003. 

!6Sull’architrave del portale interno, l'iscrizione che riporta la committenza guiscardiana, recita: 
“A duce Roberto donaris Apostolo templo pro meritis regno donetur ipse superno” (dal Duca Roberto ti 
è donato, o Apostolo, il tempio: per i tuoi meriti sia donato a lui il regno celeste). La cattedrale iniziata 
nel 1080 circa fu consacrata nel 1085 da papa Gregorio VII. Solo nel secolo successivo furono ultimati 
il quadriportico, elevato il campanile e abbelliti gli interni (1137-1145). 

! /M. D'Onofrio, La basilica di Desiderio a Montecassino e la Cattedrale di Alfano a Salerno: nuovi 
spunti di riflessione, in Montecassino. Scritti di archeologia ed arte, a cura di F. Avagliano, Montecassino 
1997, pp. 231-246; H. E. J. Cowdrey, Labate Desiderio e lo splendore di Montecassino. Riforma della 
Chiesa e politica nell'XI secolo, Milano 1987. 

18 L. Speciale, Montecassino e la riforma gregoriana, Roma 1991. 

G. Carbonara, /ussu Desiderii, Montecassino e l'architettura campano abruzzese nell’undicesimo 
secolo, Saggi di storia dell'architettura, vol. 2, Roma 1979. 
2° Leone Marsicano, Chronica monasterii Casinensis, a cura di H. Hoffmann, in MGH. SS, 


XXXIV, 1980, lib. III, p. 26. 


19 


65 


Lamia Hadda 





Recentemente, gli studiosi concordano sul dato ormai acquisito che, in Cam- 
pania, i costruttori romanici, s ispirarono alle tarsie del mondo islamico; Roberto 
Pane affermò che non sia uh concepire Salerno nel XIII secolo senza i colori 
d’Oriente. Tale decorazione è molto conosciuta in epoca omayyade e, in seguito, 
nell’architettura ayyubide in Siria e in Egitto. Nell'VIII-IX secolo, con l’arrivo 
degli Omayyadi nella penisola iberica, questa tecnica che faceva uso della deco- 
razione con conci bicromi ebbe una grande diffusione. Gli esempi degli edifici 
arabi con tarsie sono numerosi soprattutto in Aldalusia, come nella grande mo- 
schea di Cordova (786-988)?!. E solo a partire dal X-XI secolo che troviamo mo- 
numenti nordafricani decorati con conci bicromi o motivi lapidei a tarsia, come 
la cupola della galleria nartece della moschea al-Zaytuna di Tunisi (X-XI sec.)??. 

Di forte ispirazione araba, inoltre, sono le arcature a rincassi e gli archi in- 
trecciati, molti dei quali interamente intarsiati. La ricerca sulla loro origine ed 
evoluzione ci porta ad analizzare e scomporre tali strutture nei loro elementi 
primari, che, combinandosi in svariati giochi geometrici, danno luogo ad affasci- 
nanti e fantasiose decorazioni architettoniche. Originariamente l’arco, elemento 
costruttivo a profilo curvo, nasce per coprire la distanza tra due appoggi verticali. 
L'idea di infoltire il sistema di archi mediante un intreccio è sicuramente di ori- 
gine preislamica, mentre, in Occidente, gli archi intrecciati appaiono disegnati 
più frequentemente nei mosaici romani. In Siria, essi sono già attestati in epoca 
paleocristiana per decorare le facciate, come sull’architrave della chiesa di Behyo 
(VI secolo). Dalla Siria omayyade, e precisamente da una lastra di parapetto del 
Qasr al-Hayr al-Gharbi (728-29), si intravede la raffigurazione schematica di una 
struttura architettonica a più livelli in cui il piano terra è costituito da un’arcatella 
aperta formata da archi a tutto sesto intrecciati tra loro. 

La messa in opera di tali ornamenti fu realizzata dai costruttori italomeridio- 
nali mediante l’utilizzo di materiali in pietra naturale, ardesia scura, calcarenite 
giallina, cotto, travertino a volte traforato, mattoni e, soprattutto, tufo grigio e 

iallo, che ha permesso svariate composizioni di policromie?3. Appartengono alla 
ag delle rocce piroclastiche, per la loro origine vulcanica, il tufo grigio che 
compare nell’area nord della piana campana e nell’Agro nocerino-sarnese, e il 
tufo giallo, che, invece, nasce da manifestazioni eruttive dell’area vulcanica fle- 
grea. In realtà, sia il tufo grigio sia quello giallo, impiegati fin dall'epoca romana e 
poi bizantina, sono stati continuamente utilizzati nel Regnum Siciliae. La ragio- 
ne del loro utilizzo è spiegato dalla maggiore difficoltà ia all’approvvigiona- 
mento in marmo, largamente usato LIA rispetto al materiale tufaceo, 


2! M. Hattstein, P. Delius, Islam. Arte e architettura, Kòln 2001, pp. 218-227; O. Grabar, Arte 
islamica. Formazione di una civiltà, Milano 1989, pp. 34-40. 

22 L. Hadda, Nella Tunisia Medievale. Architettura e decorazione islamica (IX-XVI secolo), Napoli 
2008, pp. 21-28. 

2. “Questo materiale come anche il tufo giallo, per la sua origine vulcanica appartiene alla famiglia 
delle rocce piroclastiche, la cui formazione si rinviene nel salernitano, in direzione nord-sud, secondo la 
direttrice Nocera-Fiano-Sarno”: E. Penta, / materiali da costruzione dell’Italia meridionale, Napoli 1935, 
pp. 181-183; G. Coppola, Cave di pietra e tecniche di estrazione: elementi di conoscenza dell’architettura 
medievale, in La pietra dei monumenti nel suo ambiente fisico, a cura di R. Le Fevre, Atti del Colloquio 
Internazionale Ravello-Roma 13-30 aprile 1993, Roma 1996, pp. 65-81. 

2 G. Ausiello, Architettura medievale. Tecniche costruttive in Campania, Napoli 1999, pp. 153-157. 


66 


Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica in Campania (XI-XII secolo) 





molto più leggero e facile da lavorare. 

Gli archi a rincassi e quelli intrecciati hanno caratterizzato molte delle co- 
struzioni del periodo normanno. Realizzate con forme geometriche, conferivano 
alla superficie muraria un particolare gusto d’eleganza orientale. Gli elementi 
decorativi, solitamente inseriti nelle parti alte degli edifici chiesastici e nelle zone 
abisidali e sulle pareti esterne dei palazzi signorili, si articolano in complessi e 
vivaci intrecci, apportando creativi effetti chiaroscurali. Del resto, anche se usati 
in epoche preislamiche, gli archi intrecciati sono collocabili nell’area nordafricana 
nell'ambito della cultura fatimide e ziride. 

Non v'è dubbio che molti sono i collegamenti artistici che riportano alle varie 
provenienze, poiché la decorazione ad ii intrecciati è presente sui monumenti 
romanici della Sicilia normanna come in Andalusia e nei territori del Nord Africa. 
Nella moschea di Cordova fu realizzato e messo in opera, nell’ampliamento dovuto 
ad al-Hakam II (961-976), un sistema di archi intrecciati polilobati o semplici 
che costituiscono le prime tre campate della navata centrale della sala di preghiera. 
Gli archi sostengono la possente cupola, conosciuta con il nome di “Capilla de la 
Villaviciosa”, e generano un volume spaziale di grande impatto visivo. Allo stesso 
periodo sono datati anche i portali d’ingresso esterni decorati con archi intrecciati a 
conci bicromi in mattone rosso e pietra calcarea di colorazione chiara”. 

Numerosi sono, poi, gli edifici nel mondo arabo-musulmano che presentano 
apparati simili. In Algeria, ad esempio, ricordiamo il palazzo Ziride di Ashir (X 
secolo), i minareti della moschea di Qal’a dei Banu Hammad (XI secolo) e della 
moschea di Sidi Okba a Biskra (XI secolo). In particolare, il minareto di Biskra 
è costituito da una torre a base quadrata, posta nell’angolo sud-ovest della sala 
di preghiera, formata da registri decorati con nicchie cieche o archi intrecciati a 
tutto sesto°°. In un periodo successivo, troviamo il minareto della moschea El- 
Mechouar a Tlemcen, costruita all’inizio del XIII secolo sullo stile hammadite e 
almohade, e gli edifici marocchini come la moschea al-Kutubiyya (1160-1195) e 
la Qubba al-Barudiyin (XII s.) a Marrakesh. L'uso di questo tipo di archi è molto 
diffuso in Andalusia, dove è ancora presente nella moschea Bab al-Mardum a 
Toledo (999-1000), nell’Aljaferia di Saragozza (1049) e, infine, nella Giralda a 
Siviglia (1184-1198)?7, 

Il trattamento dei paramenti esterni del campanile del duomo di Salerno pre- 
senta un tamburo anulare con un motivo ad archi intrecciati, in tufo e mattoni 
alternati, che poggia su un vano quadrato. Degne di nota sono anche le facciate 
del palazzo Fruscione nel centro storico di Salerno. Sul secondo piano, l’edificio 
presenta una ricca decorazione composta da una serie di archi intrecciati a sesto 
acuto che corrono su una loggia, oggi tamponata. A sottolineare tale sistema di 
archi, che si ripete quasi regolarmente per tutti gli intercolunni, è presente una 
fascia a riquadri modanati di tufo grigio che si dipana lungo il perimetro del log- 





2. M. Barrucand, A. Bednorz, Architecture maure en Andalousie, Kòln 2002, pp. 51-87. 

20 G. Margais, L’Algérie médiévale, monuments et paysages historiques, Paris 1957; Id., Le tombeau 
de Sidi-Oqba, «Annales de l’institut d’études orientales d’Alger», t. V, 1939-1941, pp. 1-15. 

27. G. Aranda, K. Lakhdar, L’Occidente musulmano dopo gli Omayyadi, in Alla scoperta dell'arte 
islamica nel Mediterraneo, Roma 2007, pp. 227-140; M. Barrucand, A. Bednorz, Architecture maure... 
cit., pp. 107-177. 


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Lamia Hadda 











giato e s'interrompe in corrispondenza delle finestre?*. Tale soluzione è ripresa in 
ogni dettaglio in una miniatura del Liber ad Honorem Augusti di Pietro da Eboli, 
dove è ritratta la regina Costanza??. 

La genesi degli archi intrecciati e dei loro percorsi di trasmissione, essendo lar- 
gamente presente a Salerno, sulla costiera amalfitana e in altre località della Cam- 
pania, come il campanile e il tiburio della cattedrale di Caserta Vecchia, ha dato 
inizio ad un ampio dibattito tra gli studiosi, sostenuto dalla tesi di Emile Bertaux 
che indicò una precedente mediazione siciliana nella diffusione del motivo isla- 
mico*°. Attribuendo l’origine araba al tema decorativo largamente adottato nelle 
varie regioni meridionali italiane, si è a lungo discusso sulle possibili mediazioni 
della sua diffusione, dal momento che la sua comparsa appare pressoché coeva. Lo 
stesso Bertaux, nell'affermare l'origine musulmana, notò la profonda differenza 
esistente tra gli archi intrecciati siciliani o dei paesi musulmani e quelli di Salerno 
e Amalfi. Questi ultimi arricchiscono le pareti con fantasiosi ricami e aggiungono 
giochi di luci dai variopinti colori alle absidi, ai quadriportici dei chiostri oppure 
agli svettanti campanili. Anche Toesca condivise la stessa tesi, evidenziando l’im- 
portanza attribuita alle città marinare (Amalfi, Pisa, Genova e Venezia) e dando 
per scontata l'origine del particolare tipo di decorazione, soprattutto per quanto 
riguarda l’impiego delle arcature cieche intrecciate «care ai costruttori siciliani». 
ci archi intrecciati del transetto e dell'abside della cattedrale di Cefalù, realizzati 
nel 1145, sono i primi esempi presenti in Sicilia e seguono di poco quelli relativi 
al campanile della cattedrale di Salerno (1140 ca.). Molto simili sono, invece, gli 
archi intrecciati con valenze cromatiche della cattedrale di Monreale in Sicilia, 
della chiesa di Sant'Eustachio a Scala e del duomo di Casertavecchia. Bottari, 
invece, sottolineò i legami tra i modelli provenienti dalla Spagna araba e quelli 
campani, postulando un'origine ispanica attraverso gli scambi commerciali con 
le popolazioni amalfitane®». In tale contesto, non di trascurare l'apporto 
dell’arte bizantina all'arte islamica, ricordando che, per la decorazione di mo- 
schee e palazzi, i califfi omayyadi chiesero all'imperatore bizantino il supporto e 
la collaborazione di maestranze specializzate. 

Possiamo, in conclusione, in che gli esempi campani abbiano assun- 
to molte delle loro affinità dalle esperienze delta Spagna omayyade, postulando 
un'origine andalusa dei motivi ad archi intrecciati e delle tarsie policrome giunti 
nel Mezzogiorno quasi certamente attraverso il ruolo che rivestiva Amalfi. Non 
è un caso se il viaggiatore arabo Ibn Hawqal (972) considerò la città marinara 
più importante di Napoli, le cui imbarcazioni erano le più veloci del Mediter- 
raneo e il suo territorio il più fertile che si distinse per ricchezza e opulenza*. Le 





28 G. Ausiello, Architettura medievale, cit., pp. 137-141. 

2°. Pietro da Eboli, Liber ad Honorem Augusti sive de Rebus Siculis. Codex 120 II der Burgerbiblio- 
thek Bern, Sigmaringen 1994, fol. 118. 

30. E. Bertaux, Les arts de l’Orient musulman dans l'Italie méridionale in Mélanges d'archéologie et 
d’histoire, tome XV, 1895, pp. 419-453. 

31. D. Toesca, Storia dell'arte italiana..., cit., pp. 613-615. 
S. Bottari, / rapporti tra l'architettura siciliana e quella campana del Medioevo, «Palladio», V 
(1995), pp. 7-10. 

33. Ibn Hawqal, La configuration de la Terre (Kitab Sùrat al-Ard), trad. J.H. Kramers, G. Wiet, vol. 
I, Maisonneuve & Larose, Paris 2001, p. 197. 


32 


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Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica in Campania (XT-XII secolo) 





vie di penetrazione degli archi intrecciati e delle tarsie nell’architettura dell’Italia 
meridionale furono quindi molteplici e non unilaterali. Su quale sia stata poi la 
genesi della filiazione dal mondo arabo si potrebbe ragionevolmente pensare ad 
una introduzione simultanea del motivo nelle due regioni, innestato su impianti 
e forme tradizionali saldamente acquisite. Poco importa se l'incidenza sugli esiti 
costruttivi del romanico siciliano o campano sia stato diretto o riflesso, più o 
meno determinante. Sembra qui opportuno ribadire la singolare specificità nel 
quadro della rispondenza culturale tra le due regioni nella prospettiva di un co- 
mune e parallelo scambio di maestranze, materiali e saperi costruttivi avvenuto 
tra le due rive del Mediterraneo. Anche in epoca successiva, il sapore orientale 
continuò a sopravvivere in numerose architetture della Campania, i cui esempi 
più rappresentativi sono il complesso monumentale di Villa Rufolo a Ravello e il 
chiostro del Paradiso del Duomo di Amalfi. 


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Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica in Campania (XI-XII secolo) 








Figg. 1 e 2: Pompei, medaglioni con tarsie colorate, I secolo d.C. 


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Fig. 4: Casertavecchia, duomo e campanile, XII secolo 


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Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica in Campania (XI-XII secolo) 








Fig. 5: Salerno, cattedrale, dettaglio decorativo della torre campanaria, 1137-1152 


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Lamia Hadda 





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Figg. 6 e 7: Salerno, cattedrale, quadriportico, particolare degli intarsi policromi, XII secolo 


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Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica in Campania (XI-XII secolo) 








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Fig. 8: Scala, frazione di Ponto 
intrecciati e tarsie, XII secolo 


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Fig. 9: Amalfi, dettaglio degli archi intrecciati del campanile del duomo, XII secolo 


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Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica in Campania (XI-XII secolo) 








Fig. 10: Toledo, prospetto della moschea Bab al-Mardum con archi intrecciati, X secolo 


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Fig. 11: Biskra, minareto della moschea di Sidi Okba, X-XI secolo 


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Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica in Campania (XI-XII secolo) 








Figg. 12 e 13: Tunisi, cupola della galleria nartece della grande moschea al-Zaytuna, dettaglio della 
decorazione a tarsia bicroma, XI secolo 


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Fig. 14: Marrakech, minareto della moschea al-Kutubiya, 1158 


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Cultura arabo-normanna nell’architettura romanica in Campania (XI-XII secolo) 








Fig. 15: Marrakech, Qubba al-Barudiyin, XII secolo 


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Lamia Hadda 








Fig. 16: Amalfi, duomo, chiostro del Paradiso, XIII secolo 


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Costruzioni federiciane in Terra Santa durante 
la Sesta crociata, 1228-1229 





GIOVANNI COPPOLA 


La presente ricerca si inquadra idealmente nel filone degli studi internaziona- 
li prodotti in occasione dell’VIII centenario della nascita di Federico II (1194- 
1994)! ed ha come scopo quello di approfondire, nelle intricate vicende della vita 
d’Outremer, la spedizione del sovrano in Terrasanta, meglio conosciuta col nome 
di Sesta crociata. La perdita di Gerusalemme nel 1187, a seguito della sconfitta 
ai Corni di Hattin del 1187 nel cuore della Galilea, e i continui scontri che ne 
erano derivati, avevano determinato una frenetica attività costruttiva nei vari pos- 
sedimenti latini realizzatasi in maniera quanto mai densa e tale da determinare 
nuove sensibilità spaziali, maturate al contatto col mondo bizantino e islamico 
divenendo ben presto anche in Europa dei modelli da imitare. 

Il viaggio di Federico, nel breve tempo nel quale si realizzò, fu l'occasione per 
compiere un’opera di revisione di alcune architetture militari in senso funziona- 
le, sia dei singoli apparati, sia dei sistemi nel loro complesso. Tali operazioni si 
traducevano in opere compiute, modificate in parte o ricostruite ex fundamen- 
ti. E così che l'interesse storiografico nei riguardi di uno degli avvenimenti più 
particolari e complessi del Medioevo latino ha permesso di leggere meglio alcuni 
manufatti militari edificati tra il XII e il XIII secolo nell’Oriente crociato?. 





! I numerosi lavori sono confluiti per la gran parte nei cataloghi delle mostre di Roma, Bari e 


Palermo: Federico II e l'Italia. Percorsi, Luoghi, Segni e Strumenti, a cura di, C. Damiano Fonseca, Ca- 
talogo della mostra, Roma, Palazzo Venezia, 22 dicembre 1995-30 aprile 1996, Roma 1995; Federico 
II: immagine e potere, a cura di, M.S. Calò Mariani, R. Cassano, Catalogo della mostra, Bari, Castello 
Svevo, 4 febbraio-17 aprile 1995, Venezia 1995; Federico II e la Sicilia, dalla terra alla corona, a cura 
di, M. Andaloro, A. Cadei, C.A. Di Stefano, Catalogo della mostra, Palermo, dicembre 1994-maggio 
1995, III vol., Siracusa 1995. A ciò si deve aggiungere addirittura un'Enciclopedia dedicata all’impera- 
tore svevo: Federico II. Enciclopedia Fridericiana, Treccani, diretta da Ortensio Zecchino, 3 voll., Roma 
2005-2008. 

2 Sul tema dell’architettura crociata in età federiciana si consulti un mio saggio da cui sono state 
tratte molte riflessioni contenute nel presente articolo: G. Coppola, Federico II e l'architettura militare 
in Palestina, in «Annali», (2010), pp. 75-86. 

3. Una rassegna storiografica esaustiva sulla enorme produzione scientifica riferita all’architettura 
federiciana è stata pubblicata da M. D’Onofrio, Castra, Palatia, Domus: un bilancio degli studi sull’archi- 
tettura federiciana, «Rivista dell'Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell'Arte», 58, XXVI, (2003), 
pp. 127-147. Sui castelli crociati si segnalano i seguenti lavori: E.G. Rey, Etude sur les monuments de 
l'architecture militaire des croisés en Syrie et dans l’ile de Chypre, Paris 1871; P. Deschamps, Les chéteaux 
des croisés en Terre Sainte, I. Le Crac des Chevaliers, Paris 1934; Id. Les chàteaux des croisés en Terre Sainte, 
II. La défence du Royaume de Jerusalem. Etude Historique, géographique et monumentale, II, Paris 1939; 
Id., La défence du Comté de Tripoli et de la Principauté d'Antioche, Paris 1973; H.-P. Eydoux, Les chéteaux 
du soleil. Forteresses et guerres des Croisés, Paris 1982; T.E. Lawrence, Castelli crociati, Venezia, 1989; C. 
Marshall, Warfare in the Latin East 1192-1291, Cambridge 1992; H. Kennedy, Crusader Castles, Cam- 


83 


Giovanni Coppola 





L'ampio spettro delle tematiche trattate, che riguardano i diversi aspetti dell’u- 
niverso federiciano (storico, politico, istituzionale, economico, Lio arti- 
stico, letterario, tecnologico), evidenziano la variegata vivacità di problematiche e 
di metodiche espresse e per questo motivo mi scuso se talvolta ho dovuto dare per 
scontato avvenimenti storici che invece meritavano di essere trattati in maniera 
più approfonditaf. 

Sull’impegno ingegneristico e architettonico di Federico II, che occupa un 
punto centrale di tutta la vita politica del Regnum Siciliae, compresa quella cul- 
turale, i giudizi più recenti non sono unanimi. Molti studiosi gli attribuiscono 
un ruolo egemone, altri, invece, tendono a limitare l’apporto strettamente perso- 
nale di. il programma di lavori pubblici dello Svevo e le conseguenti 
realizzazioni un ui lavoro di equipe svolto all’interno della cerchia ristretta 
della sua ben organizzata corte’. Un vecchio pretesto, quello di demitizzare un 
grande personaggio storico solo per esercitare quell’antico gioco del contrario e 
quella tendenza a porsi fuori dal coro. Tra le tante tesi espresse, che hanno avuto 


bridge 1994; C. Smail, Crusading Warfare, 1097-1193, Cambridge 1995; L. Marino, La fabbrica dei 
castelli crociati in Terra Santa, Firenze 1997; A.J. Boas, Crusader Archaeology, London 1999; J. Mesqui, 
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crociati nell’area di Petra in Transgiordania, Firenze 2004; G. Coppola, Castelli crociati, in Federico IL 
Enciclopedia Fridericiana... cit., 1, pp. 243-247; A.J. Boas, Archaeology of the Military Orders. A Survey of 
the Urban Centres, Rural Settlements and Castles of the Military Orders in the Latin East (c.1120-1291), 
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Bini, C. Luschi, a cura di, Castelli e cattedrali. Sulle tracce del regno crociato di Gerusalemme. Resoconti di 
viaggio in Israele, Firenze, 2009; G. Ligato, Fortezze Crociate, Milano 2016. 

4 Sulla sconfinata bibliografia federiciana che raccoglie la gran parte dei lavori che riguardano i 
diversi aspetti dell'attività dell’imperatore svevo (storico, politico, istituzionale, economico, ammini- 
strativo, ideologico, artistico, letterario, tecnologico), si veda: T. Van Cleve, The Crusade of Frederick II, 
in A History of the Crusades, edited by K.M. Setton, Philadelphia 1962, vol. II, pp. 429-462; E. Kanto- 
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1993; E. Sthamer, L'amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d'Angiò, con 
prefazione di H. Houben, Bari 1995; M. Rey-Delqué, a cura di, Le Crociate. L’Oriente e l'Occidente da 
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euro-mediterraneo medievale (1215-1250), Caltanissetta-Roma 2012; H. Houben, Federico II: impera- 
tore, uomo, mito, Bologna 2013; PM. Cobb, La conquista del Paradiso. Una storia islamica delle crociate, 
Torino 2016; L. Russo, / crociati in Terrasanta. Una nuova storia (1095-1291), Roma 2018. 

°. Sulle varie interpretazioni del mito federiciano, si veda: E Delle Donne, Federico II: la condanna 
della memoria, Roma 2012; M. Brando, Lo strano caso di Federico II di Svevia. Un mito medievale nella 
cultura di massa, Bari 2008; C.D. Fonseca, s.v. Mito, in Federico II. Enciclopedia Fridericiana..., cit., IL, 
pp. 343-346; E Violante, L'eredità di Federico II dalla storia al mito, dalla Puglia al Tirolo, Atti del Con- 
vegno internazionale (Innsbruck-Stams-Schloss Tirol, 13-16 aprile 2005), a cura di, E Delle Donne, A. 
Pagliardini, E. Perna, M. Siller, E Violante, Bari 2010, pp. 63-96. 


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Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 





una certa eco negli ambienti specialistici, vi è quella che non ha risparmiato nem- 
meno una delle attività unanimemente riconosciute all'imperatore, l'architettura 
militare. Sulle ingenerose critiche rivolte allo Svevo è evidente il pregiudizio dello 
storico britannico David Abulafia (2015), per il quale in buona sostanza «Fede- 
rico II non fu un grande costruttore» per una serie di motivi: «Come per altri 
aspetti della vita di Federico, non è il caso di dare soverchia enfasi all’innovazio- 
ne artistica e alle dimensioni dell’attività edilizia. Non essendo facile dissuadere 
l’imperatore dal porre la falconeria al vertice dei suoi pensieri, possiamo capire 
come l’edificazione di una nuova palazzina di caccia potesse procedere nel 1240 
nonostante la cronica penuria di fondi; i nobili decaduti di solito convogliano 
ogni risorsa sui loro passatempi prediletti. Al contempo si riscontra però una 
forte riluttanza a destinare somme ingenti alle opere murarie e l’intero periodo 
di regno di Federico non brilla certo per la promozione di nuovi edifici religiosi 
o di cicli di mosaici confrontabili a quelli che aveva messo in cantiere il nonno 
normanno»’. 

Al contrario, per centrare a pieno la complessa figura di Federico II occor- 
re legare la sua passione verso n del suo periodo esaminando con 
attenzione gli aspetti scientifici, ingegneristici, naturalistici e giuridici. Se tutto 
ciò non permetterà di definire Federico come una persona unica della sua epo- 
ca almeno ci consentirà di sottolineare un aspetto importante della sua vita, la 
passione verso l’arte del costruire”. Certo, la (iu e la politica del rex Si- 
ciliae emergono con un forte rilievo rispetto a ogni altro piano della sua intensa 
e personale attività di governo durata almeno trentacinque anni”. Ma è davanti 
a tutti anche la portata eccezionale dell’attività costruttiva del sovrano svevo, lo 
dimostrano non solo gli innumerevoli palazzi (domus, palatia e loca solaciorum), 
ma soprattutto i porti, le dighe, i ponti e tutte quelle strutture minori (masserie, 
maristalle e aratie, parchi), poco conosciute rispetto a tutte le altre costruzioni 
militari e civili d’epoca federiciana, a dimostrazione che nella mente del sovrano 
vi fosse la piena consapevolezza di disegnare un Regnum come un'entità assoluta, 
da realizzare attraverso una precisa azione politica capace di pianificare, gestire e 
amministrare unitariamente le risorse del patrimonio edilizio facendo appello alle 
prerogative di monarca illuminato”. L'orizzonte geografico nel quale il sovrano 
svevo si trovò ad operare, tra Impero, Regno d’Italia, Regno di Sicilia e, come ve- 
dremo tra poco, Regno di Gerusalemme riportò il destino europeo nell’alveo del- 
la sua naturale vocazione mediterranea. Fondamentali in quest'ottica i contributi 
di Antonio Cadei tutti volti a superare le tesi in precedenza esposte che basavano 
la lettura dell’architettura federiciana a pianta quadrata su presunti modelli re- 
moti nel tempo e nello spazio anche se derivanti dall’architettura castrale islamica 





°D. Abulafia, Federico II Un imperatore..., cit., p. 213. 

7. W. Stirner, Federico Il e l'apogeo..., cit., p. 8. 

8. O. Zecchino, Liber constitutionum, in Federico II. Enciclopedia fridericiana, II, Roma 2005, pp. 
149-173. 

°. Sull'argomento: G. Coppola, Ingegneria civile e pensiero tecnico dell'imperatore Federico II di 
Svevia, «Bollettino dell’Accademia degli Euteleti della città di San Miniato», 85, 2018, pp. 23-46; C. 
Crova, L'arte di costruire al tempo di Federico II. Cantieri e tecniche costruttive in Terra di Lavoro, «Napoli 
nobilissima», VI* Serie, vol. II, (2011), pp. 81-104; DE Pistilli, Castelli normanni e svevi in Terra di 
Lavoro. Insediamenti fortificati in un territorio di confine, San Casciano Val di Pesa 2003. 


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Giovanni Coppola 





mediorientale, erede della tradizione romana e bizantina!°. Tale ipotesi anche se 
corretta fu forzatamente seguita da una serie di studi che guardarono sempre 
più ad Oriente e sempre più indietro nel passato dimenticando forse un'altra 
componente senza dubbio non meno importante, quella cistercense alla quale 
Cadei diede ampio spazio nelle sue ricerche!!. Gli studi sull’architettura crociata 
del Vicino Oriente e le recenti scoperte, anche archeologiche, hanno permesso 
di individuare in un gruppo di castelli a pianta quadrata con torri nl corte 
centrale e ali edilizie lungo i lati, databili fra la fine del XII e i primi anni del XIII 
secolo, i precedenti iconografici più vicini e diretti dei castelli federiciani a pianta 
quadrata!?. La crociata pacifica intrapresa tra il 1228 e il 1229, risolta come è 
noto per vie diplomatiche senza scontri militari permise all’imperatore di coltiva- 
re una sua innata passione, la conoscenza diretta del mondo arabo-islamico e dei 
suoi saperi; ma soprattutto rappresentò per lui un'occasione di approfondimento 
nei confronti delle artes mechanicae!8. Per Federico la vita fu infatti un immergersi 
interamente in una vivace e composita temperie culturale fatta di castelli, dimore 
principesche, città fortificate, moschee e minareti, ove ingegneri, architetti, artisti 
e scienziati occidentali e orientali collaboravano insieme per la buona riuscita 
dell'impresa architettonica. Un ruolo molto importante lo svolsero gli ordini mo- 
nastici e in primis i cavalieri teutonici. Stando però sia alle fonti sia alle fortezze 
attribuibili all'attività edificatoria del sovrano tutto ciò, come vedremo, si limita 
in Palestina, a un numero piuttosto esiguo di complessi militari anche perché il 
tempo di permanenza dell’imperatore svevo fu davvero molto limitato per poter 
intraprendere cantieri di una certa portata. 

Una situazione ben diversa da ciò che avvenne nel Regnum, a partire dalla 
ricca documentazione federiciana e angioina studiata da Fior! Sthamer, unico 
cimelio superstite della cancelleria di Federico II relativo agli anni 1239-1240. I 
documenti riportano l’elenco dei castelli nell’entroterra, circa duecentocinquanta 
manufatti militari, censiti nello Statutum de reparatione castrorum, divisi per re- 


!° Per una sintesi sui contributi pubblicati da Antonio Cadei, si veda: A. Cadei, La forma del 


castello. L'imperatore Federico II e la Terrasanta, Città di Castello 2006; sulle architetture difensive federi- 
ciane d’età crociata: G. Coppola, Castelli crociati, in Federico II. Enciclopedia Fridericiana..., cit., I, pp. 
243-247. 

!! A. Haseloff, Architettura sveva nell'Italia meridionale, con introduzione di M.S. Calò Mariani, I, 
Bari 1992; A. Cadei, Le radici dei castelli quadrati federiciani, Federico II “Puer Apuliae”. Storia, Arte, Cultu- 
ra, Atti del Convegno Internazionale di studio in occasione dell'VIII Centenario della nascita di Federico 
II, Lucera, 29 marzo-2 aprile 1995, a cura di H. Houben, O. Limone, Galatina 2001, pp. 98-103. 

1? Il castello delle “Quaranta Colonne” (Saranda Kolones) a Pafo sull’isola di Cipro (A. Cadei, 
Castellum quod dicitur Baffes, in Arte d'Occidente. Temi e metodi. Studi in onore di Angiola Maria Roma- 
nini, I, Roma 1999, pp. 131-142) e quello di Belvoir in Galilea (T. Biller, Die Johanniterburg Belvoir am 
Jordan, «Architectura», 19/2 (1989), pp. 105-136), fortezze databili alla fine del XII secolo, potrebbero 
essere i modelli più vicini, anche dal punto di vista cronologico, all'impostazione geometrica regolare 
con torri angolari. 

13. M.S. Calò Mariani, Federico II e le “artes mechanicae”, in Federico I e l’arte del Duecento italiano, 
Atti della III settimana di studi di storia dell’arte dell’Università di Roma, 15-20 maggio 1978, a cura 
di A.M. Romanini, II, Galatina 1980, pp. 259-275; G. Mandalà, Federico II e i quesiti di Damietta 
(618/1221-22), in Civiltà a contatto nel Mezzogiorno normanno svevo. Economia Società Istituzioni, a 
cura di, M. Boccuzzi e P. Cordasco, Atti delle ventunesime giornate normanno-sveve, Melfi, Castello 
federiciano, 13-14 ottobre 2014, Bari 2014, pp. 241-317. 


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Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 





gioni (tranne Calabria e Sicilia): in Terra d’Otranto 9 castra; in Terra di Bari 10; 
in Basilicata 19; in Capitanata erano in tutto 19. L'inchiesta, avviata nel 1230- 
1231, portò a dei risultati definitivi soltanto tra il 1241 e il 1245 circa’. Quasi 
ogni città venne munita di una cinta muraria e di una fortificazione chiaramente 
progettata su planimetrie fortemente geometrizzate anche nei casi in cui erano 
già presenti strutture difensive, quasi sempre implementate e migliorate. La mag- 
gioranza dei castelli difensivi edificati nell’entroterra fu il risultato di rifacimenti 
di precedenti fortificazioni longobarde, bizantine o normanne, oggi molto ri- 
maneggiate e nascoste da superfetazioni successive, che hanno reso molto spesso 
difficoltosa la lettura dei caratteri architettonici originali d’epoca sveva. È bene 
ui precisare, le disposizioni emanate nello Statutum per il sistema castellare non 
Li essere considerate quali semplici prescrizioni tecniche emanate da Federi- 
co II piuttosto quanto un indirizzo politico-culturale elaborato al fine di seguire 
una strategia atta mantenere in salto stato di efficienza l'enorme patrimonio 
architettonico castellare, in parte ereditato dai suoi avi normanni, in parte eretto 
sotto la sua guida. 
Ritornando al tema del nostro saggio, dobbiamo tenere presente che la fama 
e, soprattutto, il mito che avvolge la cn dell’imperatore svevo è legato, tra le 
altre cose, alla crociata che egli condusse da scomunicato, tra giugno del 1228 
e maggio 1229. Grazie a essa, infatti, l'imperatore, riconquistando Gerusalem- 
me dopo oltre quarant'anni, ottenne una grande notorietà e poté presentarsi al 
mondo come il “paladino” della fede cristiana. Tuttavia, durante la crociata di 
Federico, è bene ricordare le evidenti difficoltà politico-diplomatiche e i mille 
pregiudizi e fraintendimenti che il sovrano visse prima della sua partenza, sia con 
papa Onorio III, sia con il suo successore Gregorio IX. Gli accordi sanciti con il 
giuramento solenne di Federico II sui Vangeli, avvenuto a San Germano il 25 lu- 
glio del 1225, prevedevano una sorta di ultimatum, ovvero la partenza entro il 15 
agosto 1227 dell’imperatore in Terrasanta al fine di combattere i musulmani per 
una durata di almeno due anni”. Del resto, Federico non era riuscito ad evitare il 
fallimento della Quinta Crociata sotto le mura di Damietta nell'agosto 1221, dal 
momento che la sua flotta arrivò quando ormai tutto era perduto. L’avvenimento 
era stato estremamente traumatico per la Chiesa, la quale teneva molto a dare una 
risposta concreta e prendersi la rivincita!°. Il patto, in sostanza, prevedeva, oltre 
alla minaccia di scomunica L acto se fosse venuto meno agli accordi, anche il 
fatto che l’imperatore avrebbe dovuto portare con sé, a sue spese, almeno mille 
cavalieri e, nel caso di impossibilità a reperire un tale esercito, pagare una pena- 
le di 50 marchi per ogni cavaliere mancante. Inoltre, Federico avrebbe dovuto 
allestire una flotta con cento navi e cinquanta galee per il trasporto di duemila 
cavalieri e seimila cavalli. Per essere poi certi che l’imperatore avesse eseguito alla 


E. Sthamer, Lamministrazione dei castelli..., cit., pp. 83-122; C. Carbonetti Vendittelli, Can- 


celleria, registro della (1239-1240), in Federico II. Enciclopedia Fridericiana..., cit., I, Roma 2005, pp. 
211-216. 

Sul giuramento si veda: W. Stilrner, Federico II..., cit., 252-266; M. Pacifico, Federico II e Ge- 
rusalemme..., cit., pp. 52-58; D. Abulafia, Federico IL..., cit., pp. 98-102. 

6 J.M. Powell, Anatomy of a Crusade, 1213-1221, Philadelphia 1986, pp. 123-136; T.C. Van 
Cleve, Ze Fifth Crusade, in A History of the Crusades: The Later Crusades, 1189-1311, ed. R. Lee Wolff 
and H.W. Hazard, vol. II, Madison, 1969, pp. 377-428. 


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Giovanni Coppola 





lettera tale impegno, si richiedeva anche di versare centomila once d’oro al pa- 
triarca di Gerusalemme e al Gran Maestro dell'Ordine teutonico Hermann von 
Salza, che gli sarebbero state rese subito dopo il suo arrivo ad Acri! In seguito 
alle ben note diffidenze del papato verso le neonate monarchie!*, numerosi furo- 
no i fattori alla base dei continui ritardi della data della partenza: la turbolenta 
situazione siciliana che si concluse con la definitiva deportazione dei musulmani 
a Lucera tra il 1224 e il 1225"; la morte della sua prima moglie Costanza nel 
1222; la preparazione delle nozze per procura, nell’agosto del 1225, con Isabella 
figlia di Giovanni di Brienne, erede del Regno di Gerusalemme, poi celebrate 
solennemente nella cattedrale brindisina nel corso di una fastosa cerimonia dove 
ricevette l’anello nuziale dalle mani dell’arcivescovo di Capua Rainaldo?0. 
Qualche mese dopo l’elezione di papa Gregorio IX, nel marzo del 1227, era 
tutto pronto, si sarebbe dovuto far vela l'8 settembre del 1227, ma la spedizione 
subì un arresto per via di un'epidemia di peste causata dall’affollamento, dal cal- 
do eccessivo e di mancanza di viveri necessari all’impresa. A causa dell'elevato 
numero di morti, infatti, Federico decise di abbandonare l’impresa e la Puglia per 
recarsi presso i bagni termali di Pozzuoli e sottoporsi a cure efficaci”! La crociata 
fu di nuovo rinviata e, conseguentemente, il papa interpretò questo gesto come 
un pretesto. Il risultato fu che poche settimane dopo, il 29 settembre, Gregorio 
IX scomunicò l’imperatore nella cattedrale di Anagni con una serie di motiva- 
zioni rese note il 10 ottobre nell’enciclica In maris amplitudine’?. Federico, il 6 
dicembre, sostenendo le proprie ragioni, inviò da Capua una risposta scritta di 
protesta Universis crucesignatis, confermando la promessa della crociata?3. In re- 
altà, Federico affermava li inviato in Terrasanta circa mille milites, dei quali 
settecento erano stipendiarii assoldati dal Gran Maestro dell'Ordine teutonico, 
Ermanno di Salza, e duecentocinquanta del Regno. Nonostante tutto Federico 
decise comunque di salpare da Brindisi il 28 giugno del 1228 giungendo in Ci- 
pro, a Limassol, il 21 luglio, con settanta navi (tra galee, taride e altre imbarcazio- 
ni), cento cavalieri e tremila uomini (tra sergenti, balestrieri e marinai armati)”. 
Il grosso della cavalleria, composta da cinquecento cavalieri del Regno, era già ad 
aspettarlo in Oriente agli ordini del maresciallo Riccardo Filangieri”. Il 5 settem- 


7 Le clausole verranno confermate da una lettera del pontefice: J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Hi- 


storia diplomatica Friderici secundi, Paris 1852-1861 [d'ora in poi HB], II, 1, pp. 501-503. 

!8 Sui burrascosi rapporti tra Gregorio IX e Federico II, si veda: O. Zecchino, Gregorio contro 
Federico. Il conflitto per dettar legge, Roma 2018. 

HB, ÎÌ, cit, pp. 409-413. 

2° H. Houben, Federico II Le nozze di Oriente e Occidente. L'età federiciana in terra di Brindisi, 
Atti del convegno di studi, Brindisi, Palazzo Granafei-Nervegna, 8-9-14 novembre 2013, a cura di, G. 
Marella, G. Carito, Brindisi 2015, pp. 7-25. 

2! Riccardo di San Germano, Cronaca, ed. G. Sperduti, Cassino 1999, pp. 91-92. 

2 HB, III, cit, pp. 23-30. 

2 HB, III, cis, pp. 36-48. 

Sull’organizzazione militare di Federico II, si veda: G. Amatuccio, “Mirabiliter pugnaverunt”. 
L'esercito del Regno di Sicilia al tempo di Federico II, Napoli 2003, pp. 127-128. 

2. Filippo da Novara, Guerra di Federico II in Oriente (1223-1242), a cura di, S. Melani, Napoli 
1994, pp. 78-79, 82-86 e 146; Eracles, L’Estoire de Eracles empereur et la conqueste de la Terre d’Outre- 
Mer, in Recueil des Historiens des Croisades, Historiens occidentaux, II, Paris 1846, XXXVI, 1, p. 366; M. 
Pacifico, Federico II e Gerusalemme..., cit., pp. 188-192. 


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Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 





bre l’esercito con l’imperatore approdò ad al-Batrun?, poi seguendo la litoranea 
attraversò Beirut, Sidone e Tiro dove giunse prima dell'alba Nel frattempo, al- 
Kamil tornato dall'Egitto in Siria e accampatosi a Nabulus, con settemila turchi 
a cavallo e molti fanti, fece consegnare un grande dono all'imperatore”. Il 7 
settembre è segnalata la presenza di Federico II ad Acri?8. A causa della scomu- 
nica, non avendo ricevuto nessun appoggio né dal patriarca di Gerusalemme né 
tampoco dalla maggior parte degli Ordini cavallereschi seguì il fiuto politico della 
diplomazia, una tela di rapporti in realtà già avviata qualche tempo prima?” 

Facciamo, però, qualche passo indietro e cerchiamo di descrivere in poche 
righe la situazione politica del tempo, per poi riprendere il nostro ragionamento 
al momento del famoso trattato di Giaffa del febbraio 1229. 

Durante la Quinta Crociata e per molti anni dopo, tutti gli uomini che abi- 
tavano nei territori levantini, compresi i cavalieri dei vari Ordini, avevano atteso 
invano il suo arrivo da oltre dieci anni. Anche se Federico vestiva i panni dello 
scomunicato, la sua era una spedizione carica di molte speranze dato che avrebbe 
aiutato a recuperare parti di territori essenziali per la vita nell’Oriente latino. In al- 
tre parole, pur se consapevoli di porsi in una situazione complicata, appoggiando 
uno scomunicato, erano altrettanto coscienti della necessità impellente di nuove 
truppe, fresche e ben equipaggiate di armamenti e di denaro, per far fronte non 
solo agli eserciti musulmani, ma anche alla manutenzione e “dla costruzione del 
cad scacchiere militare costituito da fortificazioni, torri e castelli seminati 
ovunque, senza ovviamente parlare dell'influenza che Federico esercitava su tutti 
i crociati, soprattutto i Teutonici?°, E a questo punto che la figura di Hermann 
von Salza? acquistò un rilievo di primo piano nelle complesse vicende legate alla 
crociata di Federico II giocando il ruolo di mediatore tra l’impero e il papato. Pur 
tuttavia, il timore che la sua lealtà potesse essere messa in discussione era evidente 
in una lunga lettera inviata al papa Gregorio: «Vi scriviamo di queste cose non 
perché piaccia al signore imperatore o per dire che sono accadute cose che non 
sono accadute. Ma, allo stesso modo in cui Dio rinnova, non sarebbe possibile 
in nessun altro modo stabilire la pace e la tregua». Di fatto, il Gran Maestro 
dell'Ordine dei cavalieri teutonici, amico personale e consigliere di Federico II, 
resse l'ordine dal 1210 al 1239. Essendosi esposto in prima persona, non poteva 
rimanere neutrale nei confronti di una crociata alla quale aveva lavorato consi- 
derevolmente. Non poteva, però, neanche seguire le istruzioni papali, mettendo 
a repentaglio la vita dell’imperatore. Nella stessa situazione, si trovavano i tre 
ordini alan Teutonici, Templari e Ospedalieri: si poteva lavorare a fianco di 


26. Piccolo centro fortificato sull’attuale costa libanese a 24 miglia a nord di Beirut. 


27. Filippo da Novara, Guerra di Federico II..., cit., p. 226. M. Pacifico, Federico II e Gerusalem- 
me..., cit., p. 234. 

2. HB, III cit, p. 3, 77, 79. Filippo da Novara, Guerra di Federico IL..., cit., p. 101. 

2 E Violante, L'eredità di Federico IL.., cit., pp. 63-96, in particolare 69-75. 

30. Un esempio tra le nuove acquisizioni ci è offerto da: R. Ellenblum, Colonization Activities in 
the Frankish East: The Example of Castellum Regis (Mil'ilya), «English Historical Review», 111 (1996), 
pp. 115. 

31 Su Hermann von Salza si consulti lo studio di H. Kluger, Hochmeister Hermann von Salza und 
Kaiser Friedrich II Ein Beitrag zur Friihgeschichte des Deutschen Ordens, Marburg 1987. 

» HB, III cis., pp. 99-102. 


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un crociato scomunicato senza offendere il papa??? Una delle soluzioni seguite fu 
quella di evitare di apparire agli occhi del papato sotto il comando dell’imperato- 
re. Tra le varie posizioni prese nei confronti di questa difficile situazione politica, 
quella dei cavalieri teutonici, rimaneva la più complicata. Questi ultimi, di con- 
seguenza, svolsero un ruolo maggiore spingendosi oltre la linea sottile che esisteva 
tra impero e papato e ciò, come è noto, fu in massima parte merito del Gran 
Maestro. Del resto, lo Svevo intrattenne un rapporto privilegiato con l'Ordine 
dell'Ospedale gerosolimitano di S. Maria, conosciuto come Ordine Teutonico. 
L'Ordine era sorto in Terrasanta nel 1198 dal fallimento della spedizione crociata 
organizzata da Enrico VI, padre di Federico II, per venire incontro alle necessità 
dei pellegrini di nazionalità germanica. Federico, infatti, ricompensò i cavalieri 
teutonici con alcune concessioni aggiuntive. Non a caso, per la riconosciuta fe- 
deltà, il primo atto di Federico fu l'inserimento di alcune clausole nel trattato 
con il sultano egiziano che restituì la Signoria di Toron e permise all'Ordine, 
per 6.600 bisanti saraceni, la compravendita nel distretto di Acri di tredici casali 
inclusi la roccaforte di Montfort e di Castrum Regis”. La restituzione del feudo di 
Toron, però, si rivelò più problematica del previsto e i diritti dell'Ordine furono 
contestati con successo da Alice di Armenia>°. Inoltre, i vassalli e i nobili dell’O- 
riente latino si opposero duramente alla confisca dei feudi degli Ibelin da parte 
di Federico II ad Acri e fecero resistenza per l'acquisizione di Toron dai cavalieri 
teutonici””. Il risultato di questa controversia confermò la debolezza dell’impera- 
tore in contrapposizione alla forza della nobiltà d'Oltremare. 

La spedizione, come è noto, si risolse con un accordo siglato il 18 febbraio in 
base al quale il sultano al-Kamil riconsegnava ai cristiani Gerusalemme (esclusa 
l’area del tempio con la cupola della roccia e la moschea di al-Agsa). Con questo 
trattato il Regno di Gerusalemme otteneva, oltre alla Città Santa, anche Betlemme 
con un ndeio che, attraversando Lidda, raggiungeva il mare e Giafta, compren- 
dendo Nazareth e la Galilea occidentale, inclusi i castelli di Montfort e di Toron, e i 
piccoli distretti musulmani intorno a Sidone?*. Il mese dopo è lo stesso imperatore 
ad elencare con precisione i termini del trattato: «Ci è stata restituita Gerusalem- 
me e tutto il contado tra essa e Giaffa, Nazaret e il contado fino ad Acri, la terra 
di Tibnin (la Toron crociata) che è ampia, larghissima e utile ai Cristiani, Sidone 
con tutta la pianura e il contado, un luogo utile ai Cristiani e ai Musulmani che lo 


3. H. Nicholson, Zemplars, Hospitallers and Teutonic Knights: Images of the Military Orders 1128- 
1291, Leicester, 1993, pp. 4-5. 

% HB, III, ciz., pp. 102-110. 

5. HB, III cit., pp. 90-93. M. Pacifico, Federico II e Gerusalemme..., cit., p. 229. 

36. A.M. Sheir, he Fief of Tibnin (Toron)..., cit., pp. 99-101. 

HB, III, ciz., pp. 123-125; J. Riley-Smith, Zhe Feudal Nobility and the Kingdom of Jerusalem, 
1174-1277, Hamden 1973, pp. 171-72. È bene chiarire però che la Signoria di Toron con l’annesso 
castello fu concessa da Federico ai cavalieri teutonici solo in un primo momento. Sappiamo anche che 
Alice richiese con forza il possedimento durante la fase delle trattative di Federico con al-Kamil. La 
pretesa di Alice presentata presso l’Alta Corte, sostenuta con vigore da Giovanni di Brienne, Signore di 
Beirut e potente genero di Federico II, costrinse l’imperatore ad accettare la decisione contraria riguardo 
a Toron che offriva ai cavalieri teutonici alcune prerogative e possedimenti nel porto di San Giovanni 
d’Acri come compensazione per la mancata acquisizione del feudo. 


38 HB, III, ciz., pp. 86-90, 90-93. 


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Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 





ritenevano fruttuoso per il porto dove custodivano le armi e da dove portavano fre- 
quentemente quanto necessario a Damasco e Babilonia. Inoltre, a noi è consentito 
riedificare le mura della santa città di Gerusalemme, il castello di Giaffa, Sidone, 
Cesarea e quello costruito dai teutonici nella montagna di Acri (il castello di Mont- 
fort), cosa che mai fu permessa ai Cristiani durante la tregua. Il sultano, invece, fino 
al termine della nostra tregua decennale, non deve edificare o costruire alcun nuovo 
castello [...] Sappiate, infine, che il sultano dovrà restituire quei prigionieri non 
ritornati al tempo della perdita di Damietta secondo il patto avuto tra lui e gli altri 
cristiani, e quelli catturati dopo». In cambio Federico si impegnava a non offrire 
particolari aiuti militari alle signorie franche del Principato di Antiochia e della 
Contea di Tripoli*°. Un vero e proprio trattato di non aggressione e un solido patto 
di mutua difesa e assistenza. Nel mezzo di un permanente conflitto religioso tra cri- 
stianità e islam, due grandi personaggi seppero contro tutto e contro tutti stabilire 
relazioni amichevoli e superare con diplomazia i pregiudizi ideologici insiti nella 
retorica della guerra santa tanto osannata dal papato di Roma. In un tale contesto le 
truppe imperiali, di certo inferiori di numero rispetto a quelle delle precedenti cro- 
ciate, non furono mai utilizzate in scontri militari con gli eserciti musulmani. Uno 
dei punti deboli dell’accordo era rappresentato dal fatto che i due castelli d’epoca 
crociata in Transgiordania di Kerak di Moab e di Shawbak-Montréal"!, esclusi dal 
trattato, lasciavano scoperta, isolata, senza risorse e priva di ogni possibilità di aiuti 
esterni, la città di Gerusalemme peraltro abbastanza lontana, circa 60 chilometri, 
dal porto di Giaffa che rappresenteva il punto di approvvigionamento marittimo 
più vicino. 

In definitiva, l’imperatore era riuscito con il trattato di Giaffa, nonostante le 
ingiustizie, i tradimenti e le diffamazioni tramate dal papa e dai suoi prelati, a 
mantenere fede al compito imperiale quale il più alto rappresentante secolare e 
protettore della cristianità. 

Una guerra vera e propria, invece, fu combattuta con altri cristiani, i signori 
di Ibelin, a Cipro e negli stati crociati. Questo si verificò essenzialmente duran- 
te una seconda fase della spedizione guidata da Filangieri (1231): un interven- 
to militare, soprattutto contro gli Ibelin di Beirut, sostanzialmente fallimentare 
(sconfitta al passo di Agridi il 15 giugno 1232)”. In definitiva, l’imperatore non 
partecipò mai a scontri diretti e dal giugno 1229 si impegnò in Italia meridionale 
4. Le truppe di Federico 


a proteggere i territori minacciati dagli eserciti papali 
rimasero in Terrasanta fino alla caduta di Tiro nel 1243. 
Gli unici interventi di architettura militare direttamente attribuibili al sovra- 


® Coronatio hierosolymitana, in Monumenta Germaniae Historica. Leges, II, Hannoverae 1837, pp. 


262-263. 

40 Sui principali castelli del Principato di Antiochia e della Contea di Tripoli, si veda: G. Coppola, 
Fortezze medievali in Siria e Libano..., cit. 

4! G. Vannini, // castello di Shawbak e la Transgiordania meridionale: una frontiera del Mediterraneo 
medievale, in Archeologia dei castelli nell'Europa angioina (secoli XIII-XV), Convegno internazionale, 
Salerno 10-12 novembre 2008, Salerno 2011, pp. 145-157; L. Marino, “Chastel abatuz est demi refez“. 
Ricognizione agli impianti fortificati di epoca crociata in Transgiordania. Prima relazione, in «Castellum», 
27-28 (1987), pp. 17-34. 

4 Filippo da Novara, Guerra di Federico II..., cit., pp. 182-183. 

4 HB, I, cit, pp. 902-903. 


91 


Giovanni Coppola 





no svevo furono a Gerusalemme la riparazione della Porta di S. Stefano e della 
Torre di Davide a Gerusalemme“ e la costruzione delle fortificazioni di Giaffa e 
di Montfort®. 

Federico II, infatti, ottenne come abbiamo letto nel famoso trattato del 1229 
la concessione personale di poter effettuare alcuni importanti interventi edilizi tra 
i quali la ricostruzione delle mura e delle torri della città santa di Gerusalemme?". 
L'imperatore si affrettò subito a iniziare i lavori consegnando all'Ordine teutoni- 
co, di cui si fidava ciecamente, la residenza reale annessa alla Torre”. Oggi poco 
rimane della Porta di Damasco, che i crociati chiamarono Porta di S. do 
situata a nord della cortina muraria della città, a parte qualche piccola traccia 
del XII secolo del muro esterno della torre d’ingresso. La Torre di Davide, molto 
più importante dal punto di vista difensivo, fa parte della cittadella di forma ir- 
regolare posta nella zona sud-ovest della città*. Numerose sono ancora le vestigia 
visibili in alzato: la Torre di Ippico a est, una struttura difensiva di forma qua- 
drangolare, muri con camminamenti di ronda a sud, postierle, scuderie e magaz- 
zini. A parte queste difese non risultano altri tentativi volti a rafforzare la difesa 
della Città Santa, ad esempio fortificando i dintorni mediante l’edificazione di 
alcuni castelli posti sulle alture della Giudea tranne, come vedremo, per i lavori 
di fortificazione del castello di Montfort. 

La fortezza di Giaffa, integrata nell’attuale agglomerato di Tel Aviv, è posta 
a difesa di uno dei porti più antichi del Mediterraneo, come Acri e Cesarea”. 
L'antico insediamento di Giaffa ha rappresentato per molto tempo il porto di 
Gerusalemme, soprattutto nel XII-XIII secolo. Nel 1099, fu la prima città co- 
stiera ad essere presa dai cristiani; nel 1187 venne conquistata dal fratello del 
Saladino al-Adil, per passare nel 1191 a Riccardo Cuor di Leone, che ne fortificò 
ulteriormente le mura. Nel 1197, dopo alterne vicende, cadde in mano musul- 
mana e poi ritornò ancora latina durante la Sesta Crociata. Nell'ottobre 1227, 
Enrico di Limburgo riprese a fortificare le due città costiere di Giaffa e Cesarea 
con l'intento di dare una prova di forza ai musulmani?°. All’inizio del novembre 
1228, l'intenzione di Federico di continuare a rinforzare le difese di Giaffa fu resa 
pubblica poco dopo il suo arrivo in Terra Santa. L'esercito guidato dall’imperato- 
re si spostò verso sud e raggiunse la città il 15 novembre”. I lavori riguardarono 
in particolar modo la fortezza e procedettero con la partecipazione di tutti i cro- 
ciati. Per decisione comune, dopo aver raso al suolo dalle fondamenta l’antico 





4“ HB, III, cit., pp. 101, 138-139. 

5. HB, III cit., pp. 90-93; Estoîre de Eracles..., cit., Il, p. 373. 

‘Riccardo di San Germano, Cronaca..., cit., p. 109: (1229) Licebit autem ex pacto imperatori 
et christianis rehedificare civitatem sanctam Hierusalem in muris et turribus, castrum Ioppen et castrum 
Cesaree, Montem Fortem et castrum novum, quod firmari hoc anno inceptum est in montanis. 

47. Sui possedimenti teutonici in Terrasanta: H. Houben, Castles and Towers ofthe Teutonic Knights 
in the Mediterranean, in Castelos das Ordens Militares, Actas de Encontro Internacional, ed. I.C.F. Fer- 
nandes, Lisboa, Direc4o-Geral do Patrimonio Cultural, 2013, vol. 1, pp. 43-55. 

4 G.J. Wightman, Zhe Walls of Jerusalem, from the Canaanites to the Mamluks, «Mediterranean 
Archaeology», 4 (1994), pp. 259-298. 

4A. Corfis, M. Wolfe, edited by, he Medieval City under Siege, Woodbridge 1995, pp. 93-94. 

0 Estoire d’Eracles..., cit. IL pp. 371-372. 

5! Riccardo di San Germano, Cronaca..., cit., pp. 107-109. 


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Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 





maniero, si ordinò di scavare i fossati ed erigere le mura oltre ad eseguire alcuni 
importanti lavori di restauro e consolidamento per due torri della muraglia difen- 
siva, terminati il 4 marzo 1229”. Ulteriori fonti, sia latine che arabe, ne riportano 
l'accaduto nei dettagli”. 

Il 19 marzo del 1228, Federico II in persona ne confermò l’edificazione: «Ri- 
manendo lì intenti a una grande ristrutturazione del castello, diversi nunzi anda- 
rono e venirono da noi e dal sultano di Babilonia. E se questo sultano sostava a 
una dieta da noi come suo fratello al-Ashraf che teneva un vasto esercito presso 
Gaza, anche il sultano di Damasco con una numerosa moltitudine di fanti e 
cavalieri della sua terra si era portato presso Nabulus ad una dieta di distanza 
da noi e l’esercito cristiano»?. Anche il Gran Maestro Ermanno di Salza riportò 

li accadimenti di quei mesi: «Frattanto, senza indugio, su consiglio comune, 
ci iniziati i lavori di costruzione a Giaffa per il fossato, le mura e le torri da 
innalzare, così da avere un’opera memorabile nel tempo per tutto il popolo cri- 
stiano, mai così resistente e benfatta dalla sua fondazione”. Negli anni seguenti, 
altre due torri in direzione di Ascalona vennero costruite da Geroldo di Losanna, 
patriarca di Gerusalemme? Gli apparati difensivi non vennero modificati per 
i successivi venti anni. Luigi IX, dopo aver riparato le fortificazioni di Acri, di 
Haifa e di Cesarea, intraprese i lavori della fortezza di Giaffa per proteggerla dagli 
assalti nemici’. Il re di Francia fortificò il borgo intorno al castello, conservando 
gran parte della struttura attribuibile alle opere realizzate precedentemente da Fe- 
derico II. Durante la sua permanenza, dal maggio 1252 al giugno 1253, vennero 
eretti muri e incluse ventiquattro torri con una tipologia che presenta stringenti 
affinità planimetriche con le cinte murarie di Cesarea e Haifa. Dopo la presa di 
Antiochia nel 1268, anche la stessa città cadde in mano musulmana, insieme al 
castello di Beaufort da parte del sultano Baybars?8. Il castello fu distrutto, mentre 
i legnami lavorati e il marmo pregiato furono inviati al Cairo, per essere utilizzati 
si costruzione della nuova moschea che Baybars stava erigendo”. Attualmente 
sono visibili pochi resti della cittadella, situata su un rilievo a forma di ellisse, 
individuabili per di più solo sulla base di fonti documentarie e studi topografici. 

Nel 2011, all’interno di un muro incastonato nella muratura di un antico edi- 


ficio di Giaffa, due archeologi della Hebrew University di Gerusalemme, Moshe 





> Estoire d’Eracles..., cit., II, p. 373. 

53. Una precisa rassegna si trova in: D. Pringle, he Churches ofthe Crusader Kingdom of Jerusalem: 
A Corpus, vol. 1 (A-K), Cambridge 1993, pp. 264-267. 

% Coronatio hierosolymitana..., cit., p. 262. 

> Idem, p. 263. 

56. Filippo da Novara, Guerra di Federico II..., cit., pp. 146-147; Annales de Terre Sainte..., cit., pp. 
438-439. 

97. Jean de Joinville, Life of Saint Louis, Chronicles of the Crusades, a cura di, M.R.B. Shaw, Lon- 
don-New York 1963, pp. 265-276; 289-305. Sulle cinte murarie delle principali città crociate, si veda 
l'articolo di Denys Pringle, Town Defences in the Crusader Kingdom of Jerusalem, in The Medieval City..., 
cit., pp. 69-121. 

598 Estoire de Eracles..., cit., II, p. 456. 

5 Idem. 

6 EM. Abel, Jaffa au Moyen Age, «Journal of the Palestine Oriental Society», 20.1 (1946), pp. 
6-28; D. Pringle, Secular Buildings in the Crusader Kingdom of Jerusalem, Cambridge 1997, p. 52. 


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Giovanni Coppola 





Sharon e la collega Ami Shrager hanno annunciato la scoperta di una lastra di 
marmo grigio con un'iscrizione araba che riporta inciso il nome dell’imperatore 
Federico II, con i vari titoli usati nell’epoca®!. 

L'iscrizione araba, come altri antichi frammenti d’epoca crociata trovati da 
Clermont-Ganneau, sono, senza dubbio, solo scarni resti scavati da alcuni cava- 
pietre che abitavano nel vicino villaggio di Abu Kabir e, spesso, riutilizzati come 
materiale da costruzione o bruciati nei forni per farne calce. L'attuale iscrizione 
in arabo fu impiegata per la muratura di un piccolo santuario dedicato a un san- 
to musulmano locale, Shaykh Murad, costruito su una bassa collina a circa 2,5 
chilometri ad est delle mura di Giaffa®. 

Si tratta di un grande frammento di un blocco di marmo grigio di 35,6 x 
51 (56 cm max.) x 25 cm di spessore rotto su tutti i lati, con maggiori danni a 
sinistra e in alto a destra. Ciò che rimane, però, è solo una parte dell’iscrizione 
originale, dato che, con molta probabilità, essa faceva parte di un architrave mo- 
numentale che doveva essere almeno tre volte più lungo, cioè circa 2 m°8. 

Il testo è inciso in rilievo piatto, con uno spessore delle lettere non uniforme, e 
corre all’interno di quattro linee parallele continue, anch'esse in rilievo in un unico 
stile di naskhi, che comprende anche punti, alcune vocali e segni. Sono riportati, 
in caratteri cufici, tutti i titoli di Federico e le province italiane da lui governate“: 


1) [L’augusto Cesare], imperatore di Roma, Federico, il vittorioso da (l'aiuto di) Dio, 
sovrano della Germania (A/maniyah) — -. _ 

Lai Gli di pioli EL jd Aes) gl pal ad pas 
2) e Lombardia (lumbardiyyah), e Toscana (Tusqanabh), e Italia (Italiyya), e [Longobar- 
dia (Ankubardah), e Calabria (Qualawriyyah) e Sicilia (Sigilliyyah) e il regno siriano 
(Mamlakatu al-Sham al-Qudusyyah) 


ASL g Alia 4 du) gl g 83 SI]I 9 Aa] e Ali e ds rale fai 


3) di Gerusalemme; il sostemitore dell’imam di Roma, il protettore della comunità 
cristiana, [nel mese di febbraio (?) dell’anno mille 
Lili Za (9) ie Aire Alli pali Apa) pla) Se Api [lai 


4) duecentoventinove dell’incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo... 
al fu Ud ila pi pio s quis Stl[ag 





6! M. Sharon, A. Shrager, Frederick ITs Arabic Inscription from Jaffa (1229), «Crusades», 11 (2012) 
p. 139-158. L’attenta ricerca di Moshe Sharon, Ami Shrager si basa sulle scoperte dell’orientalista e 
archeologo francese Charles Clermont-Ganneau che rinvenì un'iscrizione gemella ma in latino verso 
la fine del XIX secolo: C. Clermont-Ganneau, Archaeological Researches in Palestine during the years 
1873-1874, vol. 2, London 1896-99, pp. 155-156. 

6A. Petersen, Gazetteer of Medieval and Ottoman Buildings in Muslim Palestine (Part 1), British 
Academy Monographs in Archaeology, no. 12, Oxford 2001, p. 169. 

6. Secondo Charles Clermont-Ganneau che analizzò il testo nel 1881: “L'originale è stato acqui- 
stato dall’archimandrita russo barone Ustinov prima del 1881 per la sua collezione conservata ad Oslo. 
I caratteri sono del XII o XIII secolo, e splendidamente tagliati”. Cfr. Charles Clermont-Ganneau, 
Archaeological Researches..., cit., vol. 2, p. 156. 

6 Ringrazio la proff.ssa Lamia Hadda dell’Università di Firenze (DiDA) per le traduzioni e le 
traslitterazioni del testo arabo dell’iscrizione. 


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Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 





Una possibile collocazione dell’iscrizione potrebbe essere sopra la porta della 
cittadella di Giafta quando l’imperatore era ancora in città, nel febbraio del 1229, 
subito dopo la conclusione dei lavori di fortificazione e, comunque, prima della 
sua partenza da Tiro per il Regnum il 1 maggio 1229 con sette galee9?. 

Attualmente la lastra con l’iscrizione araba si trova nel complesso dell’Israel 
Antiquity Authority nel Rockefeller Museum di Gerusalemme. 

La precedente iscrizione, questa volta però latina, scoperta e rilevata verso 
la fine del XIX secolo da Clermont-Ganneau, consiste in un frammento di un 
blocco di marmo bianco di 77 x 27 cm e 15 cm di spessore usato per molto tem- 
po per coprire una fogna in una delle strade di Jaffa. A seguito di un'opportuna 
ricostruzione, si legge: 

Fridericus Romanorum imperator semp]er / augustus, Ielrusalem rex / anno 
Domi]nice incarnatio[nis]9®. 

Si tratta di testimonianze uniche nel loro genere, sia quella latina, sia quella 
araba, che attestano la breve ma movimentata presenza in Terra Santa e la volon- 
tà, da parte di Federico, di legare il suo nome come ‘imperatore dei Romani e re 
di Gerusalemme” ad un manufatto dell'Oriente latino”. È chiaro che l'elemento 
decorativo segua una consuetudine molto comune della Sicilia normanna, dove i 
testi in più lingue erano usati spesso e ciò spiega, probabilmente, l apposizione di 
una tale coppia d’iscrizioni monumentali sulle fortificazioni di Giaffa®8. 

l’altro manufatto militare ceduto nel trattato di Giaffa del 1229 è il castello 
di Toron nell’Alta Galilea. 

Il castello di Toron®, posto a 25 chilometri a sud-est della città di Tiro, è 
situato sulla collina più alta di un crinale che va da 700m a 800m sul livello 
del mare. Progettato per svolgere sia un ruolo offensivo che difensivo, poiché 
strategicamente posizionato per giocare una posizione chiave contro i musulma- 
ni delle città di Tiro e di Damasco nella dia del settentrionale del Regno di 
Gerusalemme e della Galilea. Nello scacchiere crociato, Toron si affacciava sulla 
strada principale che collegava le due città rappresentando una base militare di 
principale importanza da cui partire per sferrare attacchi contro i musulmani a 
nord e talvolta a sud del Regno di Gerusalemme. 

La fortezza presenta un tracciato planimetrico di forma approssimativamente cir- 





65 


M. Pacifico, Federico II e Gerusalemme..., cit., p. 287; A. Kiesewetter, Itinerario di Federico II, 
in Federico II Enciclopedia Fridericiana..., cit., Il, pp. 100-114. 

6 Corpus inscriptionum Crucesignatorum Terrae Sanctae (1099-1291), a cura di, S. de Santoli, 
Jerusalem 1974, p. 258, n. 347; E-M. Abel, Jaffa au Moyen-Age..., cit., 24, n. 49. M. Pacifico, Federico 
II e Gerusalemme..., cit., p. 235. 

9. Denys Pringle sostiene che le due iscrizioni furono apposte alla nuova fortezza della città dallo 
stesso Federico: D. Pringle, be Churches of the Crusader Kingdom. .., cit., pp. 265-266. 

6]. Johns, Le iscrizioni e le epigrafi in arabo. Una rilettura, in Nobiles Officinae: perle, filigrane e 
trame di seta dal Palazzo Reale di Palermo, a cura di, M. Andaloro, Catania 2006, pp. 47-67. 

9. Sulle vicende storico-architettoniche del castello di Toron, si consulti: A.M. Sheir, 7he Military 
Role of the Fief of Tibnin against the Muslims in the Age ofthe Crusades (AH 498-583 / AD 1105-1187), 
«Journal of Religious Culture», 188 (2014), pp. 2-20; Id., Zhe Fiefof Tibnin (Toron) and its Castle in the 
Age of the Crusades AD (1105-1266 AH 498-664): A Study of Its Economic, Political and Military Role, 
Munich 2015; M. Piana, Zbe Castle of Toron (Qal'at Tibnin) in South Lebanon: Preliminary Results of the 
2000/2003 Campaigns, «Bulletin d’Archéologie et d’Architecture Libanaises», 8 (2004), pp. 333-356. 


95 


Giovanni Coppola 





colare che si adatta alla geomorfologia del territorio. Le pendici della collina erano un 
tempo rivestite da lastre di pietre lisce sul tipo di quelle utilizzate per rivestire la citta- 
della di Aleppo. Mura spesse e numerose e possenti torri di forma rotonda e quadrata 
ne fiancheggiano i lati. L'ingresso del castello, formato da un camminamento voltato 
che immetteva in un grande cortile centrale, era segnato da un portale con un arco a 
sesto acuto e poteva essere raggiunto con una ripida salita a sud-ovest. 

Il maniero fu costruito nel 1105 da Ugo, un castellano di Saint-Omer. Co- 
nosciuto anche come Ugo di Fauquembergues, l’uomo fu al seguito dei cavalieri 
della prima crociata che accompagnarono probabilmente Roberto II di Fiandra e 
successivamente Baldovino e suo fratello maggiore, Goffredo di Buglione”. Ugo 
successe a Tancredi con il titolo di Principe di Galilea nel 1101. Anche se non è 
ancora possibile determinare tutte le fasi costruttive medievali, è molto probabile 
che il castello sia stato progettato e edificato in gran parte alla fine del 1120. Si ri- 
scontrano molte affinità formali e tecniche con le fortificazioni contemporanee di 
Saone (Qal’at Salah al-Din) e di Giblet (Jbail)”, soprattutto per quanto riguarda 
la progettazione delle torri. Per la sua importanza strategica, cadde varie volte in 
mano crociata e poi araba. Il castello fu preso dal Saladino nel 1187, per poi essere 
attaccato e in parte demolito durante un assedio condotto da cavalieri tedeschi 
tra la fine del 1197 e l’inizio del 1198. In seguito, Mu’azzam-Isa di Damasco, 
dopo averne preso il possesso, distrusse alcune parti del castello, non appena ebbe 
la certezza che l’imperatore Federico II partisse per la crociata al fine di depo- 
tenziare la fortificazione nel caso fosse preso dal nemico. I crociati regnarono su 
Toron dal 1229 al 1266, nel 1239 il castello cadde di nuovo in mano musulmana 
per ritornare nel 1240, con un accordo, ancora una volta ai crociati. L'importante 
feudo teutonico, dove templari e ospedalieri avevano una presenza meno diffusa, 
fu governato dal 1240 da Filippo di Montfort, a nome di sua moglie, Maria, la 
nipote di Alice di Toron, continuando a svolgere un ruolo di primo piano nel 
Levante. Nel 1271, il castello di Montfort”? ritornò agli arabi, dopo la presa delle 
fortificazioni del Crac des Chevaliers, di Chastel Blanc e di Gibelcar”. 

Altro castello di cui venne in possesso Federico a seguito del trattato di Giaf- 
fa è Castrum Regis anche chiamato Castellum Novum. L'insediamento militare, 
posto o sotto l'autorità del titolare della contea di Edessa, controllava le 
alture dell'Alta Galilea e faceva parte dell’importante signoria della regione mon- 
tuosa situata a cavallo tra l’attuale Israele settentrionale e la parte meridionale del 
Libano”. Questo feudo crociato fu ottenuto da Joscelin III insieme al titolo di 





© H. Kennedy, Crusader castles..., cit., p. 40. P. Deschamps, Les chateaux des croisés..., cit., pp. 


100-101. 

7! Per le notizie storico-architettoniche delle fortificazioni crociate, si consulti: G. Coppola, For- 
tezze medievali in Siria e Libano..., cit., pp. 43-46; 89-93. 

7? M. Favreau-Lilie, Zhe Teutonic Knights in Acre after the Fall of Montfort (1271): Some reflections, 
in Outremer: Studies in the History of the Crusading Kingdom of Jerusalem, ed. B. Z. Kedar, H. E. Mayer 
and R. C. Smail, Jerusalem, 1982, p. 272. 

73. Estoire de Eracles..., cit., II, p. 460. 

74. Per quanto riguarda i possedimenti della Seigneurie de Joscelin, importante famiglia della nobiltà 
gerosolimitana, e la vendita delle proprietà all'Ordine Teutonico, si veda: S. Ferdinandi, La contea franca 
di Edessa. Fondazione e profilo storico del primo principato crociato nel Levante (1098-1150), Roma 2017, 
pp. 663-665. 


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Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 





siniscalco del re di Gerusalemme Baldovino IV e a diverse proprietà, tra le quali 
proprio il castello di Castrum Regis. sua sorella Agnese di Courtenay, madre di 
Baldovino IV e di Sibilla, era stata consorte del sovrano di Gerusalemme Alma- 
rico I, prima di ereditare il trono di Gerusalemme”. La fortezza, probabilmente 
edificata da re Folco d'Angiò (1131-1143), fu presa nel 1187 da Saladino, in 
seguito alla sconfitta di Hattin, a cui aveva partecipato lo stesso Jocelyn III, for- 
tunosamente scampato a Tiro e probabilmente morto successivamente durante 
l'assedio di Acri. Durante la Terza Crociata, con la conquista di Acri del 1191, la 
maggior parte del territorio limitrofo fu restituito ai crociati, compreso Castrum 
Regis. Nel 1220, Beatrice, una delle due figlie di Joscelin III, e suo marito Otto di 
Hennenberg, allora proprietari della tenuta, vendettero il castello con trentasette 
casali ai cavalieri teutonici”°. Nel 1229, Giacobbe di Amigdala, figlio di Agnese, 
la seconda figlia di Joscelin, rivendicò i suoi diritti di eredità sulla tenuta della 
Galilea, tra i quali il Castrum Regis, che l'Ordine teutonico aveva acquistato da 
sua zia nel 1220 e rimase tale fino al 1271, anno del suo abbandono a causa della 
distruzione avvenuta per mano delle truppe del sultano egiziano Baybars”. 

Castrum Regis è un castello eretto su una prominenza di terra artificiale, con 
la classica ba. a quadriburgium, molto usata anche in Occidente tra XI 
e il XII secolo, con 30 metri circa per lato”8. Si tratta di un castello quadra- 
to con quattro torri angolari aggettanti. Anche se il muro meridionale è stato 
completamente distrutto, con ogni probabilità era simile al muro settentrionale. 
All’interno del castello, fu costruito un muro di spina, per meglio distribuire gli 
spazi interni, orientato nord-sud. La sua muratura è ancora ben visibile sul lato 
occidentale. Tre delle quattro torri del castello sono state conservate, mentre la 
torre sudorientale è stata completamente distrutta. 

Il sito di Montfort??, costruito in un luogo isolato lontano dalle strade princi- 
pali e dai villaggi dell'Alta Galilea, si trova sul crinale di una montagna rocciosa 
a sud del fiume Keziv (Wadi Qurain). La fortificazione situata a circa 20 km 
a nord-est di Acri e a 12 km dal mare, fu costruita vicino all'insediamento di 





? E.G.W. Strehlke, Tabulae ordinis theutonici, Berlin 1869, n. 297, p. 266 e n. 309, p. 281 (d’ora 
in poi Strehlke). 

76 Strehlke, n. 53. pp. 43-44; M.-L. Favreau-Lilie, L'Ordine Teutonico in Terrasanta (1198-1291), 
in L'Ordine Teutonico..., cit., pp. 55-72. 

7 R. Ellenblum, Colonization Activities in the Frankish East: The Example of Castellum Regis 
(Mi'ilya), «English Historical Review», 111 (1996), pp. 104-122, in particolare pp. 115-116; L. Aiello, 
Il Gotico nel Principato di Galilea, in Firenze Architettura (Quaderni, 2020), pp. 12-17. 

7. D. Pringle, Secular buildings..., cit., pp. 71-72. 

7. Sulle vicende storico-architettoniche del castello di Montfort, si veda: A.J. Boas, edited by, 
Montfort. History, Early Research and Recent Studies of the Principal Fortress of Theutonic Order in the 
Latin East, Leiden-Boston 2017; ; K. Toomaspoeg, Montfort Castle and the Order of the Teutonic Knights 
in the Latin East, in Montfort. History Early Research and Recent Studies of the Principal Fortress of the 
Teutonic Order, edited by A. Boas, R.G. Khamisy, Leiden-Boston 2017, pp. 13-23; G. Ligato, Fortezze 
Crociate..., cit., pp. 173-178 L. Aiello, C. Luschi, Mons fortis, alias Mons Feret. Il castello dei teutonici 
in Terrasanta, Firenze 2012; A.J. Boas, Montfort Castle. The Western Wing and the Great Wall, Haifa 
2012; N. Morton, 7he Teutonic Knights in the Holy Land 1190-1291, Woodbridge 2009; R. Pringle, 
Thirteenth-Century Hall at Montfort Castle in Western Galilee, «The Antiquaries Journal», 66/1, (1986), 
pp. 52-81. 


97 


Giovanni Coppola 





Mi'ilya (Castrum Regis)*° e del castello di Iudyn®' (in arabo Qal'at fiddin), sempre 
sulle terre del feudo Joscelin de Courtenay, acquisito per la prima volta dai cava- 
lieri teutonici nel 1220*°. L'attesa della venuta in Terrasanta di Federico e del suo 
seguito diede un nuovo impulso alle mire e alle ambizioni dei «frères Allemans»®. 
Ritenendo inadeguato il Castrum Regis, di cui rimane ancora gran parte della 
cinta muraria che collega le quattro torri angolari, essi cominciarono molto pro- 
babilmente a edificare un Castrum novum8*, conosciuto col nome di Starkenberg 
dai Teutonici e col nome di Montfort dagli altri crociati. La fortezza sostituì 
Castrum Regis e divenne il centro amministrativo della regione. Il toponimo di 
Montfort compare per la prima volta in un documento del 20 aprile 1229, in cui 
si stipula una compravendita fra i fratelli dell'Ordine Teutonico e Giacobbe di 
Amigdala*°. Oggetto della compravendita fu il feudo dello stesso Giacobbe (/a- 
cobus ui. il quale dali le provenienze giuridiche dei vari casali e rese 
noto l'insediamento di Mi’ilya (Castrum Regis), ricevuto a suo tempo dallo stesso 
ordine in cambio di Trefile e Castro Novo, quod nunc Montfort dicitur®. Una 
seconda trascrizione dello stesso documento, edito da Strehlke8*, riporta inoltre 
dei lavori di consolidamento che l'ordine dovette effettuare sulla struttura, a sot- 
tolineare il consolidamento di una fabbrica già esistente. Nel giugno del 1228, 
Boemondo IV, principe di Antiochia e conte di Tripoli, accordò «en aide deu 
chastel» un contributo annuale di 100 bisanti all'Ordine teutonico®. Nel marzo 
dell’anno seguente, il Gran Maestro Hermann von Salza scrisse a papa Gregorio 
IX, informandolo del trattato firmato tra Federico II e al-Kamil?° e chiedendo 
un supporto finanziario per la nuova costruzione, che gli fu accordato con una 
lettera del 10 luglio del 1230”. Eretta su un crinale roccioso e difesa da rocce 
spigolose che dominavano la valle fin quasi al mare, la fortificazione era separata 
dalle montagne poste alle sue spalle mediante un fossato scavato nella roccia e 
attraversato da un ponte”. Su questo lato, la fortezza presenta una cinta muraria 
semplice, mentre sui tre lati più esposti la cortina diventa doppia poiché neces- 
saria di maggiori opere difensive (con molta probabilità fatte slice proprio 
da Federico II). La struttura del castello sembra obbedire allo schema ben speri- 
mentato del torrione posto in sommità ad est a dominio e controllo dei successivi 


80 


D. Pringle, Secular buildings..., cit., pp. 71-72. 

81 Ivi, pp. 80-82. 

#2 R. Ellenblum, Colonization Activities in the Frankish East: the Example of Castellum Regis 
(Mi'ilya), «English Historical Review», 111 (1996), pp. 104-122, in particolare pp. 115-116.4 

8 Filippo da Novara, Guerra di Federico IL..., cit., pp. 78-79; M.-L. Favreau-Lilie, L'Ordine Teu- 
tonico..., cit., pp. 55-72. 

84 Strehlke, n. 14, pp. 13-14; D. Pringle, Secular buildings..., cit., pp. 80-82. 

&D. Pringle, Secular buildings..., cit., pp. 73-75. 

#Réhricht, 1893, n. 120, p. 508. 

#7 Strehlke, n. 128, pp. 120-121. 

88 Strehlke, n. 63, pp. 51-53. 

9 Strehlke, n. 64, p. 53. 

% HB, III, ciz., pp. 86-87. Il ruolo di alto mediatore tra l’imperatore e il papa è ben riportato in 
M. Pacifico, Federico II e Gerusalemme..., cit., pp. 273-282. 

%  Strehlke, n. 72, pp. 56-57. 

9. Sugli aspetti storico-geografici dell’insediamento: R.G. Khamisy, 7he Region of Montfort..., cit., 
pp. 24-27. 


98 


Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 





piani degradanti, sino a raggiungere la falesia naturale a strapiombo sulla valle. 
All’interno, trovava posto un imponente corpo di fabbrica longitudinale di circa 
100 m di lunghezza e 20 m di larghezza. Attualmente, sono ancora visibili ad est i 
resti del dongione di forma semicircolare, forse ispirato al castello ospedaliero di Mar- 
gab, e della sottostante cisterna, oltre a qualche vestigia della cripta posta a ovest??. 
Risultano completamente distrutti gli ambienti del piano nobile: L sala dei cavalieri, 
che si affacciava sull'ingresso a est, e } cappella a ovest, costruita con archi a tutto sesto 
che si impostavano su pilastri cruciformi. Accanto alle strutture principali, la fortifica- 
zione possedeva tre cinte difensive esterne, oggi visibili solo in parte. La seconda linea 
di difesa era situata pochi metri al di sotto dei principali edifici, sui lati settentrionale e 
occidentale, mentre la terza linea, la più esterna, conserva per tutta l'altezza originale, 
in alcuni segmenti murari, le merlature e il camminamento superiore. L'imponente 
apparato murario difensivo si estende dalla porta d’accesso posta sul lato settentrio- 
nale del mastio, fino al pendio nord, raggiungendo una seconda porta a due piani 
protetta con una caditoia. Dopo aver seguito tutta la lunghezza L castello, gira a 
sud per terminare con una torre semicircolare. La presenza di un Bergfried (mastio), 
in posizione dominante con forma semicircolare, insieme a una certa geometria degli 
impianti, sembra rimandare alle tradizioni derivanti dai contemporanei castelli d’area 
ermanica degli inizi del XIII secolo?*. E molto probabile che, per quanto nel 1240 la 
Hxiiczione avesse funzionato come centro amministrativo per i cavalieri teutonici, 
ebbe vita breve poiché di lì a poco, nel giugno del 1271, fu facilmente conquistata dal 
sultano mamelucco Baybars, insieme al Castrum Regis”. Ai cavalieri fu così concesso 
di ritirarsi ad Acri?°. Degni di essere menzionati sono altresì i contrassegni lapicidi 
individuati su alcuni blocchi del castello di Montfort, molto simili per forma e pro- 
porzioni ad altri contrassegni rilevati sui blocchi di pietra lavorata di Castel Maniace 
a Siracusa o del castello di Prato, a testimonianza del lavoro itinerante di alcune mae- 
stranze specializzate e al servizio della corte sveva”. 





93. J. Mesqui, L'architecture en Terre Sainte au temps de Saint Louis, in La fortification des Croisés au 


temps de Saint Louis au Proche-Orient, «Bulletin Monumental», 164/1 (2006), pp. 5-29, in particolare 
pp. 10-11. 

2 Su castelli dell’area germanica ai tempi di Federico II: D. Leistikow, Castelli e pfalzen. Regno di 
Germania, in Federico II Enciclopedia Fridericiana..., cit., 1, pp. 247-257. 

5. D. Pringle, Secular buildings..., cit., pp. 80-82. 

9% Per le notizie storico-architettoniche del castello: D. Pringle, A Zhirteenth-Century Hall at 
Montfort Castle in Western Galilee, «Antiquaries Journal», 66 (1986), pp. 52-81. 

9. Sui contrassegni rinvenuti nel castello di Montfort, si veda: M.R.C. Luschi, L. Aiello, Lies 
of Research for the Site of Montfort, Western Galilee-Israel, in La Transgiordania nei secoli XIT-XINI e le 
frontiere del Mediterraneo medievale, a cura di G. Vannini, M. Nucciotti, Oxford 2012, pp. 261-276, 
in particolare i contrassegni sono visibili alle figg. 9-10 di p. 273. Vedi anche più recentemente R.G. 
Khamisy, Masonry and Masons Marks, in Montfort..., cit., pp. 150-159. Sui contrassegni individuati al 
castel Maniace a Siracusa e a Prato, si consulti: V. Zorié, Marchi di lapicidi. Il caso del castello Maniace 
di Siracusa, in Federico II e la Sicilia, dalla terra alla corona..., cit., pp. 409-413 e A. Bacci, L'architet- 
tura del castello di Prato. Progetto e realizzazione di un monumento medioevale, in Il Castello di Prato. 
Strategie per un insediamento medioevale, a cura di, M. Bini, C.M. Luschi, A, Bacci, Firenze 2005, 
pp. 39-61, in particolare fig. 14 di p. 49. Su alcuni cantieri di architettura fortificata d’epoca sveva e 
sulle maestranze itineranti, si veda: P.E. Pistilli, Sulle orme di Riccardo da Lentini, «prepositus novorum 
hedificiorum» di Federico II di Svevia, in I luoghi dell’arte. Immagine, memoria, materia. L’Officina dello 
sguardo. Scritti in onore di Maria Andaloro, a cura di G. Bordi et al., vol. I, Roma 2014, pp. 127-136 e 


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Giovanni Coppola 





Oltre al castello di Montfort, nel 1227, venne edificato anche il castello di 
Sidone?*. In questa città, nel mentre i pellegrini tedeschi costruivano il castello di 
Montfort, un gruppo di viandanti francesi, inglesi e spagnoli attesero l’arrivo di 
Federico II per cominciare a fortificare le difese cittadine e costruire il “castello del 
Mare”, chiamato così per distinguerlo dal “castello di Terra”, situato sulle mura 
della vecchia acropoli della città e distrutto dalle truppe del Saladino, subito dopo 
la sconfitta delle armate crociate ad Hattin?°. Il sito del castello fu scelto al di là 
del porto, su un banco roccioso che formava un isolotto a meno di 100 m dalla 
costa, e fu collegato alla terraferma per mezzo di un ponte di legno. La difesa fu 
organizzata costruendo due torri unite tra loro da un'importante cinta. La tecnica 
con la quale furono edificate derivava da una singolare consuetudine costruttiva 
araba (Aleppo, Bosra, Palmira, Amman, Cairo), molto in uso negli stati latini di 
Terrasanta (Lattakia, Giblet, Tiro, Cesarea, Ascalona), che impiegava colonne di 
spoglio di edifici antichi, generalmente d’epoca romana, poste trasversalmente 

la muratura (en doutisse)!®. Nel 1253-1254, dopo una breve conquista araba 
che non riguardò il “castello del Mare”, che rimase in mano crociata, le difese 
della cittadella vennero ricostruite a grande scala da re Luigi IX sotto la direzione 
di Simon de Montbéliard. Dopo il 1260, Sidone con altre proprietà, Beaufort e 
la Cava di Tiron, passò ai Templari, i quali continuarono a usare la fortezza fino 
a quando gli ultimi crociati, dopo la presa di Acri e Tiro, nella notte del 13 luglio 
1291, abbandonarono il castello sotto la spinta mamelucca e si imbarcarono per 
Cipro. 

Un posto rilevante per la comprensione dell’architettura militare federiciana 
meritano le fortezze cipriote, che l’imperatore ebbe modo di vedere personalmen- 
te all’inizio della sua spedizione!”!. 

La cronaca di Filippo da Novara narra come questi fortilizi furono teatro di 
scontri tra i baroni ciprioti, alleati con gli Ibelin, e le truppe imperiali. A tal 





più recentemente F. Linguanti, / segni dei lapicidi in Sicilia al tempo di Federico II: interrogativi sul loro 
uso, funzione e importanza nella ricerca storica, «Studi e ricerche di storia dell’architettura», 4, (2018), 
pp. 105-115. 

9%. Filippo da Novara, Guerra di Federico II..., cit., p. 82. 

Sulle notizie storico-architettoniche dei due castelli di Sidone: G. Rey, Etude sur les monuments 
de l'architecture militaire des croisés en Syrie et dans l’île de Chypre, Paris, 1871, pp. 153-159; P. Deshamps, 
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Bahr a Sidone. Contributo alla storia degli insediamenti d'Oltremare attraverso l'analisi dei paramenti murari 
e delle marche lapidarie, «Restauro archeologico», 1 (2016), pp. 20-39. 

!0 L. Marino, L'uso dei materiali di reimpiego e di elementi lapidei en boutisse nella fabbrica dei 
castelli crociati, in Le Crociate: L’Oriente e l'Occidente da Urbano II a San Luigi (1096-1270), a cura di 
M. Rey-Delque, Catalogo della mostra, Roma, Palazzo Venezia 14 febbraio-30 aprile, Venezia 1997, 
pp. 259. Sulle tecniche costruttive d’età crociata: L. Marino, Les chdteaux des croisades. Observations 
surles techniques de construction, BI Bulletin», 48 (1992), pp. 35-44. 

10! Per i castelli di Cipro: G. Perbellini, Le fortificazioni di Cipro dal X al XVI secolo, «Castellum», 
17 (1973), pp. 7-58; Id., / castelli di Cipro e le Crociate, in La fabbrica dei castelli crociati..., cit, pp. 
110-117. Sulle vicende storiche dell’isola di Cipro durante l’epoca crociata: PW. Edbury, Kingdom of 
Cyprus and the Crusades, 1191-1374, Cambridge 1994. 


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Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 





proposito viene citato anche il nome di un nobile cipriota, tal Filippo Cinardo, 
prima castellano di Kantara e poi di Kyrinia!®. Cinardo, dopo la sconfitta subi- 
ta a Cipro dai cinque reggenti, si rifugiò a Tripoli in Siria e poi in Puglia, dove 
divenne prima castellano di Bari (1237) e poi conte di Conversano grazie ad un 
matrimonio (1242). Nel 1249 un'epigrafe posta sopra un ingresso dl 
le al castello di Trani lo ricorda come progettista (Philippi studium Cinardi), che 
conferisce schema e disegno (formam et seriem) oltre a tutto ciò che è necessario 
affinché l’opera fosse portata a compimento dal tranese Stefano di Romoaldo 
Carabarese!®3, 

Questa veloce analisi dei pochi esempi di architettura militare in Palestina ri- 
feribili a Federico II consente di evidenziare l’interesse dell’imperatore per l’archi- 
tettura mediorientale. E importante sottolineare che, negli anni immediatamen- 
te precedenti la spedizione di Federico in Terrasanta, l’architettura castrale dei 
crociati aveva iniziato a conoscere una nuova fase di sviluppo e, quindi, i castelli 
costruiti durante tutto il XII secolo non erano più ritenuti sicuri e risultavano 
obsoleti rispetto all'evoluzione delle tecniche belliche. Già nell'aprile del 1228, 
i cavalieri teutonici, come abbiamo visto, anche se considerati dagli altri ordini 
militari come nuovi arrivati nel Regno di Gerusalemme, cercarono di consolidare 
le loro posizioni sulle alture della Galilea acquistando numerosi casali e villaggi e 
apportando i necessari adeguamenti difensivi. D'altra parte, l’esperienza architet- 
tonica militare del regno di Gerusalemme influenzò non pochi sovrani europei, 
che si trovarono, per più o meno lungo tempo, in Terrasanta, trasferendola poi, 
magari inconsciamente, nelle costruzioni cui diedero vita in patria al loro ritorno. 
Non è comunque lecito parlare di trasposizione integrale dei modelli crociati nei 
castelli ad ali regolari del Regnum, quali Trani, Bari e Brindisi, nei castelli fede- 
riciani siciliani di Augusta, Siracusa e Catania o nel castello del Regno d’Italia 
quale Prato, solo per citare i più noti, poiché l’idea teorica adottata Lie 
tore in Palestina di più che altro uno schema progettuale a carattere difensivo, 
che doveva misurarsi di volta in volta con le particolari esigenze di ogni struttura 
castellare. Il soggiorno dello Svevo in Medio Oriente fu del resto breve e non 
andò incontro a lunghi assedi, né a scontri campali particolarmente impegnativi. 

Una crociata pacifica, la Sesta, che si risolse senza spargimenti di sangue e, pro- 
prio per questo motivo, l’esperienza militare nei territori levantini fu più che altro, 
per l’Hohenstaufen, una sorta di fucina, un momento di riflessione, per conoscere 
un mondo lontano che tanto lo incuriosiva. Quell’angolo di mondo lontano susci- 
tò in lui tante curiosità e passioni che gli servirono per mettere a punto, e conse- 
guentemente sperimentare, valutare e verificare, le architetture e le tecniche belliche 
ritenute più all'avanguardia per la difesa del suo tanto amato Regnum Siciliae. 


10° Filippo da Novara, Guerra di Federico II..., cit., p. 194. 
193 Federico II: immagine e potere..., cit., pp. 253-257, in particolare p. 253. 


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105 


Giovanni Coppola 





MARMEDITERRANEO 





Fig. 1: Itinerario di Federico II alla Sesta crociata, 28 giugno 1228-10 giugno 1229 (rielaborazione 
grafica di L. Esposito). 


106 


Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 


The Latin Kingdom of Jerusalem 


Peace Treaties of the 
XII-X111Centuries 


vga Treaty of Richard 
A 


Treaty of 1198 


Treaty of Frederick 11 
TI Hohenstanfen (1228) 


Treaty of 1240 
Limits of expansion: 


—— Treaty of Richard of 
Cornwall (244) 


soceo Treaty of St.Lonis 
(o) 
















derichos 
Jerusalem, 
SD 
SBaitdibrin) (DEADSEA 


Fig. 2: Il Regno latino di Gerusalemme. Cartina con l'indicazione dei territori annessi al Regno a segui- 
to dei trattati stipulati tra crociati e musulmani. 

Nella legenda - Trattati di pace tra XII-XIII: trattato di Riccardo Cuor di Leone, 1192; trattato del 
1198; trattato di Federico II, 1228; trattato del 1240; limiti dell’espansione del trattato di Riccardo di 
Cornovaglia, 1244; trattato di San Luigi, 1250. (Cartina tratta da Boase 1967, p. XIV). 


107 


Giovanni Coppola 








Fig. 3: L'imperatore Federico II tratta con il sultano al-Kamil davanti alla porta di Gerusalemme. Città 
del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Chig. L. VIII, 296, 75v. La Nuova cronica di Giovan- 
ni Villani, miniatura del XIV secolo. 


108 


Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 








Fig. 4: Planimetria della città di Gerusalemme (da Cassanelli 2000, p. 93). 


109 


Giovanni Coppola 








Fig. 5: Gerusalemme, Cittadella, la Torre di David, David Roberts, litografia, 1850. 


110 


Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 








Fig. 6: Gerusalemme, la Torre di Davide a fianco della porta di Giaffa, esterno. 


111 


Giovanni Coppola 


























Fig. 7: Gerusalemme, cittadella e Torre di Davide, interno. 


112 


Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 








Fig. 8: Gerusalemme, Porta di Santo Stefano. 


113 


Giovanni Coppola 








Fig. 9: Giaffa, centro storico medievale. 


114 


Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 








Fig. 10: Gerusalemme, lastra con iscrizione araba, Rochefeller Museum (da Sharon, Schrager 2011, p. 
1 





Fig 11: Oslo, collezione privata, iscrizione latina disegnata da Charles Clermont-Ganneau (da Sharon, 
Schrager 2011, p. 144). 


115 


15 


TTT 


ee —————————————————7—707— 


ngle 1977, fig. 36, p. 71). 


10 


vanni Coppola 





Fig. 12: Mî'iliya, pianta di Castrum Regis o Castellum Novum, (da Pri 


116 


Costruzioni federiciane in Terra Santa durante la Sesta crociata, 1228-1229 




















SECTION 
o 






ul __R 





Fig. 13: Montfort, pianta e sezione della fortificazione (da Pringle 1977, fig. 38, p. 73). 





Fig. 14: Montfort, vista della fortificazione da Oriente . Spicca l’alta torre in primo piano vicino alla 
grande sala saldata alla struttura semicircolare dell’ingresso (Gate tower). 


117 


Giovanni Coppola 








Fig. 15: Sidone, “Castello del mare”. 





Fig. 16: Mî'iliya, torre del recinto fortificato di Castrum Regis. 


118 


Da Landeschi a Ridolfi: sperimentazioni agrarie 


e paesaggio in Valdelsa fra il XVIII e il XIX secolo 





DANIELE VERGARI 


La figura di G. B. Landeschi come agronomo e parroco è ben nota nell’ambito 
scientifico e San Miniato, che per vari tu ne Li visto l’attività nella seconda 
metà del XVIII secolo, gli ha dedicato una strada che passa accanto alla sua chiesa 
di Sant Angelo a Montorzo. 

Landeschi arrivò a San Miniato nel 1758 prendendo possesso dei tre poderi 
che componevano il beneficio parrocchiale (Lami, 1938, Vannini, 2004)!. Come 
parroco trovò una situazione di estrema povertà, con “/.../ piagge inculte e di- 
rupate, con poche piante, e quelle in cattivo stato [...] fabbriche che minacciavano 
rovina” (Landeschi 1775: 6), e accanto alla sua attività di parroco si dedicò con 
zelo e passione alle sperimentazioni agrarie migliorando lo stato dei suoi poderi 
e rendendoli fruttiferi?. 

Nei quasi trent'anni in cui si occupò della parrocchia di Sant'Angelo, Giovan 
Battista Landeschi trasformò queste piagge dirupate in una sorta di giardino tan- 
to da essere definite una [...] delle più ridenti e graziose colline che circondano la 
città di San Miniato (Landeschi, 1775: 6). 

L'attività di G. B. Landeschi come parroco e come agronomo, si inserisce in 
quel milieu culturale della Toscana granducale della seconda metà del settecento 
vivacizzato da una stagione di riforme iniziate con la reggenza lorenese e portate 
avanti da Pietro Leopoldo?. 

È un periodo caratterizzato dal tentativo di sviluppare e rinnovare l'agricoltura 





In alcuni testi l'insediamento del Landeschi, è riportato - erroneamente - nel 1753. 
Landeschi era nato a Firenzuola nel 1721. Dopo gli studi in seminario Landeschi arrivò nel 1758 
a San Miniato. Landeschi dichiarò di essersi dedicato all’agricoltura per aumentare le entrate della sua 
chiesa: “[...] di ottenere il fine bramato, cioè di ridur l'entrate di mia chiesa ben sufficienti (dopo averle trovate 
assai scarse)” (Landeschi, 1775 42:43). Landeschi affiancò il suo interesse per l’agronomia all'attività pasto- 
rale che veniva regolarmente svolta, come dimostrano alcuni documenti conservati nell’Archivio Vescovile 
di S. Miniato, si veda, per esempio, ASVSM, Visite Pastorali 1757-1772, filza n. 65, Visita pastorale alla 
Parrocchia di S. Angelo a Montorso, 20 Agosto 1758; oppure ASVSM, Visite Pastorali 1774-1777, filza n. 
66, Visita Pastorale alla Parrocchia di S. Angelo a Montorso, 8 Ottobre 1777 (Cardini: 2008). Noto con il 
nome di “parroco samminiatese” o, addirittura di “Socrate rustico”, grazie ai suoi Saggi di agricoltura, fu 
socio dei Georgofili e dell’Accademia dei Rinati (poi degli Euteleti). Morì il 30 novembre 1783 a Santa 
Maria a Lungotuono dove era ospitato dal fratello, anche lui parroco. 

3. L'opera di G. B. Landeschi, uscita anonima nel 1775 a Firenze, dal titolo Saggi di agricoltura 
di un paroco samminiatese fu riconosciuta dagli economisti toscani come rispondente alle istanze fisio- 
cratiche promosse da Pietro Leopoldo e fu recensita e conosciuta anche fuori d’Italia. La prefazione fu 
tradotta in francese e pubblicata nel 1776 sul periodico della fisiocrazia, le Nouvelles Éphémérides Écono- 
miques mentre, fra il 1807 e il 1810, proprio su sollecitazione dell’Accademia dei Georgofili, l’opera fu 
arricchita di note e vide altre due edizioni (Carnino, 2014: 122-123). 


2 


119 


Daniele Vergari 





toscana, sia da un punto di vista economico sia tecnico-agronomico, che trovò il 
sostegno dell’amministrazione lorenese (Zobi, 1850-1852; Wandruszka, 1968): 
nel giugno 1753 venne fondata, dal canonico Ubaldo Montelatici, l'Accademia 
dei Georgofili, che pochi anni dopo divenne il punto di riferimento scientifi- 
co per le politiche riformiste leopoldine. In questo contesto si diffuse progressi- 
vamente, anche tra gli intellettuali toscani, la dottrina economica fisiocratica e 
l'interesse per le scienze agrarie crebbe, coinvolgendo non solo gli scienziati ma 
anche parte dei proprietari terrieri e soprattutto i parroci che, dal loro osservato- 
rio privilegiato, potevano attuare nuove tecniche agronomiche e diffonderle tra i 
contadini (Mirri, 1980: 753-756). 

In quest'ambito si mosse, fin dal suo arrivo a San Miniato, Giovan Battista 
Landeschi. Le sue sperimentazioni agrarie, ben documentate e studiate, sono sta- 
te fondamentali per la nascita e l'evoluzione del paesaggio collinare toscano. 

Nel corso della seconda metà del XVIII secolo gran parte del territorio to- 
scano vide un complesso processo di trasformazione con una radicale modifica 
dell'ambiente e del territorio; la crescita demografica e la necessità di acquisire 
nuove terre per le coltivazioni portarono all’esecuzione di importanti opere di 
bonifica idraulica che interessarono ampie aree della toscana interna fra cui i 
paduli di Bientina e Fucecchio e il piano fra Fucecchio e Santa Croce. Anche 
le aree collinari, nella stessa zona, furono interessate da lavori di disboscamento 
incontrollato e le pendici, ormai spoglie, furono arate sommariamente a “rit- 
tochino”, ovvero seguendo la linea di massima pendenza, e messe a coltura per 
ottenere grano “e altre biade”*. In breve tempo si manifestò tutta la fragilità di 
questi terreni: l’acqua piovana libera di scorrere sul terreno provocò smottamenti 
e frane, aumentando i processi erosivi e riducendo drammaticamente la fertilità 
del terreno portando a suoli sterili e improduttivi (Vecchio, 1974). 

Era questo il paesaggio che aveva osservato Pietro Leopoldo nei suoi viaggi 
dove il territorio di San Miniato è descritto come “Vasto e ben coltivato e popo- 
lato nella pianura e valle ma con terreni sterili nei poggi” (Pietro Leopoldo, 1969- 
1970: 27). Vi era una sola eccezione in questo territorio: i tre poderi del beneficio 
parrocchiale di Giovan Battista Landeschi, prossimi alla Chiesa di Sant'Angelo a 
Montorzo. 

L'attività delle sue sperimentazioni è raccolta in un volume edito presso Ga- 
etano Cambiagi, a Firenze nel 1775 dal titolo Saggi d’Agricoltura di un Paroco 
Samminiatese 

La storia del volume è raccontata nella prefazione ad opera di Giovanni Bo- 
naventura Spannocchi, Vicario a San Miniato, che vedendo l’opera del prelato, 
lo convinse a mettere per iscritto le sue osservazioni di agricoltura realizzando 
così un libro che non solo fu accolto favorevolmente dalla comunità scientifica - i 
georgofili lo elessero socio il 4 ottobre 1775, lo stesso giorno in cui presentò il 





4 Il rittochino è un'antica pratica agronomica estremamente diffusa in Toscana. Esso consiste nel 


procedere con i lavori di aratura secondo le linee di massima pendenza eseguendo i lavori con sempli- 
cità e rapidità di esecuzione. Tuttavia in pendici collinari, anche con ridotta pendenza, tale sistema può 
risultare estremamente rischioso perché favorisce il dilavamento e la perdita di suolo. Nonostante fin 
dal XVIII secolo i principali agronomi toscani, come Landeschi, Targioni Tozzetti, Ridolfi e Cuppari, 
abbiano auspicato l'abbandono di questa pratica, ancora oggi è comune vedere terreni lavorati per le 
linee di massima pendenza (Pazzagli C., 1973: 16-20). 


120 


Da Landeschi a Ridolfi: sperimentazioni agrarie e paesaggio 
in Valdelsa fra il XVII e il XIX secolo 





volume, per acclamazione - ma che era destinato a diventare uno dei testi di ri- 
ferimento della nuova agricoltura”. D'altronde anche l’amministrazione lorenese 
aveva avuto una certa attenzione per lo scritto del Landeschi come fa supporre la 
sua edizione presso Cambiagi, allora stampatore molto vicino al Granduca. 

Il testo del volume raccoglie molte considerazioni, anche di natura sociale, 
sull’agricoltura ma è nella seconda parte della sua opera che Landeschi descrive 
le sperimentazioni tecnico-agrarie intraprese nei terreni del suo beneficio. Tali 
sperimentazioni riguardano molti campi della coltivazione, dalla coltura delle 
viti a quella degli olivi, dalla coltivazione dei gelsi ai consigli riguardanti i lavori 
pena del podere ma la parte più rilevante riguarda il problema della scarsa fer- 
tilità dei suoli del Samminiatese e al suo rimedio, cioè la costruzione di ciglioni. 

Landeschi, in linea con la scuola agronomica toscana del periodo, pose come 
assioma infallibile il rapporto diretto tra il suolo pianeggiante e la sua fertilità: 


“Convien esser persuasi e riputare come assioma infallibile, che qualunque 
fondo o suolo, quanto più è pianeggiante, tanto più è disposto ad essere fertile e 
quanto meno pianeggia, tanto più è sterile e infruttifero; tal verità per poco che 
si osservi vedesi per esperienza in cento e mille luoghi delle colline” (Landeschi, 
1775: 127), 


La sterilità era, dunque, in diretta correlazione con l’erosione superficiale: 


“Questa sorta di sterilità essendo derivata dell’esser state tali terre dall’acqua 
scarnite e prive affatto di quella superficie di terra che sola era capace a produrre 
il frutto” (Landeschi, 1775: 128) 


e il rimedio proposto dal sacerdote di S. Angelo, per ovviare alla infertilità dei 
terreni in declivio, era la costruzione di ciglioni. 

In questo modo le piante sarebbero state coltivate su piani orizzontali, rispetto 
alla collina, proprio perché i ciglioni: 


“[...] sono per sostenere la terra acciò il suolo divenga, o si conservi pianeg- 
giante e non sia dall’acque rovinato?” (Landeschi, 1775: 129). 


I ciglioni, realizzati a partire da un arginello in terra che serviva per costruire 
il piano orizzontale di dimensioni proporzionalmente più piccole a seconda della 
maggiore o minore declività del suolo. Alla base di ciascun ciglione, veniva realiz- 
zata una fossetta che raccoglieva l’acqua e la conduceva verso altre fosse, dorri, 0 





°. Chiarenti, nelle Osservazioni, faceva notare all’inizio dell’800: “Il Landeschi, parroco nei contorni 


di S. Miniato, è stato il solo, che non pure ha conosciuto, ma anche dimostrato l'errore di coltivare la colli- 
na verticalmente, e ha saputo immaginare e praticare il vero metodo di coltivarla” (Chiarenti, 2007: 106). 
Mascagni, il noto anatomista, in una sua memoria letta presso l'Accademia dei Georgofili nel 1804, diceva: 
“Viaggiando in diverse parti della Toscana ho avuto luogo d’ osservare più volte con mio rincrescimento, 
e sorpresa quanto mal siano dirette le acque, che piovano sulla superficie dei campi situati nelle pendici 
delle colline [...] di qui mi avviene esser stato savissimo il modo di coltivare i poggi a gradinate o ripiani 
sostenuti da ciglioni o muretti in virtù de’ quali l’acque di scolo rallentano il loro moto, passano con loro 
corso di solco in solco, di fossetta in fossetta” (Mascagni, 1804: 224-248). 


121 


Daniele Vergari 





piccoli corsi, nella migliore delle ipotesi fornite di pescazoli - piccoli sbarramenti 
di legna, salici e giunchi — al fine di trattenere le particelle di terra in sospensione. 
La terra così raccolta poteva essere poi raccolta e distribuita dai contadini sui 
campi piani ottenuti con il terrazzamento mentre i fossetti venivano convogliati 
in acquidocci o impluvi naturali. La terra di questi ciglioni sarebbe stata ben 
fertile dopo circa sei anni dalla costruzione di queste strutture. In questo periodo 
però tale terreno doveva essere lavorato, concimato e lasciato “stagionare da’ caldi, 
da diacci e dalle piogge” (Landeschi, 1775: 132). 

Sopra questi ciglioni si potevano coltivare piante di olivi, viti e alberi da frutto 
a distanza di circa un braccio dalla sommità e con una sufficiente distanza tra 
loro. Le piante avevano numerosi vantaggi se poste “in vetta” ai ciglioni: non 
soffrivano di ristagni idrici, avevano una buona riserva di umidità (dato che il 
campo pianeggiante in Estate accoglieva l’acqua delle piogge mantenendo le ra- 
dici fresche), rimanevano sempre calzate dalle “ricavature” del deposito terroso 
delle fossette alla base dei ciglioni. Le radici delle piante, poi, inoltrandosi nel 
ciglione, lo rendevano più stabile. Nello stesso tempo le radici, passando nel- 
la fossa contigua, potevano godere dei vantaggi dello scolo delle acque. Il resto 
dell’appezzamento ottenuto veniva poi coltivato con graminacee e leguminose 
secondo la tradizionale rotazione triennale®. 

Un sistema ingegnoso e laborioso che diede rapidamente i suoi frutti: i terre- 
ni del beneficio parrocchiale del Landeschi, moltiplicarono per sei volte la loro 
rendita — passando da 25 a 154 scudi - diventando un modello da imitare. Alla 
morte del sacerdote i terreni, un tempo spogli, contavano più di 3.100 piante di 
tutti i generi: viti, olivi, gelsi, peschi, fichi, meli, ciliegi, albicocchi, ecc., senza 
considerare la costruzione di una nuova casa e il restauro di quelle esistenti (Lami, 


1938: 217-219). 


L'insegnamento e l’esperienza di Landeschi ebbero, forse più di quanto fino 
ad oggi appurato, una certa diffusione soprattutto nelle aree circostanti a San 
Miniato. 

Certo l'introduzione di queste nuove pratiche non fu semplice, né rapida. L'a- 
nonimo estensore di una inedita memoria, conservata nell'archivio dei Georgofili 
e letta all'Accademia il 3 luglio 1776, un anno dopo la pubblicazione dei Saggi di 
agricoltura descrive la difficile situazione del territorio collinare della bassa valdel- 
sa da un punto di vista idrogeologico e ribadisce che le 


“coltivazioni degli ulivi e viti fatte per linee orizzontali cioè dall’alto in bas- 
so, e più volgarmente a declive, e dicesi anche a ertachina, sono un errore così 
massiccio in genere di agricoltura quanto lo sarebbe, se si volesse andare a caccia 
piuttosto con balestre, _ coll’archibuso.” (Anonimo, 1776) 


tanto che il Marchese Roberto Pucci, possidente a Granaiolo, riteneva che “se 
presto non si prende l’opportuno riparo il male sarà irrimediabile”. 





6 Nei terrazzamenti trovavano posto anche gli alberi da frutto (susini, peschi, ecc.) ma anche gel- 


si, utili per i bachi da seta. A completare il quadro delle coltivazioni uno spazio importante era destinato 
anche alle aree boscate, indispensabili per la vita e l'economia del podere. 


122 


Da Landeschi a Ridolfi: sperimentazioni agrarie e paesaggio 
in Valdelsa fra il XVII e il XIX secolo 





Era quindi necessario abbandonare i vecchi metodi di coltivazione per intro- 
durne di nuovi e, sempre secondo l’estensore, la “buona agricoltura” si era co- 
munque diffusa nell’area nei poderi dei Sig.ri Neri, di Gillio a Meleto 
dai Ridolfi, a Granajolo dai Marchesi Pucci, dal Cavaliere Antinori verso Monte- 
lupo e, infine, a S. Angelo a Montorzo e presso i parroci a lui vicini. 

La diffusione degli insegnamenti del parroco samminiatese trasformò, nel cor- 
so di qualche decennio, con la realizzazione di ciglioni e la messa a dimora di olivi 
e viti, una parte del territorio collinare della bassa valdelsa che, secondo le parole 
di Chiarenti, assunse 


“l'aspetto di un ameno anfiteatro mercé le diverse gradinate formatevi dagli 
argini, e particolarmente per la loro tortuosità e varietà degli angoli”. (Chiarenti, 


1819: 115) 


La diffusione dei ciglioni era lenta, anche per il costo non indifterente di rea- 
lizzazione di queste opere, e l'antica consuetudine di lavorare a rittochino rimase 
ampiamente diffusa anche in zone prossime a quelle dove vennero sperimentati 
i ciglioni, come suggerisce un articolo di Lorenzo Baroni che, denunciando il 
gravissimo stato di dissesto idrogeologico delle colline vicino a Palaia, descrive 
così le colline fra l’Elsa e l'Era: 


“Vedesi in molti luoghi la superficie delle colline esposta al guasto ed alla 
deperizione; le Piante che s'incontrano massime di Ulivi inferme e sterili pel fre- 
uente dilavamento delle acque piovane, che nulla dirette o incanalate, invece di 
dan scorrono senza ritegno [...]; smotte e sbrotamenti che precipitano la terra 
migliore nelle valli sottoposte [...]” (Baroni, 1804: 421) 


Tuttavia è sempre Baroni a informarci, nella stessa memoria, delle sperimen- 
tazioni agrarie di Giuseppe Baccetti, a Cojano, presso Castelfiorentino che, fra la 
fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, propose una evoluzione del ciglionamen- 
to del Landeschi, realizzando ciglioni erbosi dotati di fossi orizzontali sulle pendi- 
ci collinari per il corretto emungimento delle acque che eventualmente potevano 
essere raccolte da un acquidoccio disposto secondo le linee di massima pendenza. 
Con questo metodo le acque “non precipiteranno al basso dilavando il terreno 
per dove passano, ma circolando placidamente per i fossi intersecanti il poggio vi 
depositano le migliori sostanze terrose” (Baroni, 1804: 431). 

Sulla stessa linea, e negli stessi anni, si mosse Francesco Chiarenti, medico, 
scienziato e georgofilo, proprietario terriero nell’area di Montaione che, dopo la 
breve e intensa esperienza politica del triumvirato repubblicano e del successivo 
esilio, tornò ad occuparsi della messa in coltivazione delle aree collinari dei suoi 
poderi duramente danneggiate da fenomeni erosivi”. 

Chiarenti si fa promotore dei precetti del parroco sanminiatese evolvendone 
ulteriormente i concetti fondamentali proponendo sempre la costruzione dei ci- 
glioni e teorizzando anche un sistema di piccole “colmate di collina” dove, 


7. SuF Chiarenti si veda Salvestrini R. (a cura di), // perfido giacobino dottor Chiarenti. I mano- 


scritti inediti di e su Francesco Chiarenti, medico, politico, maire, agronomo. Firenze, Polistampa, 2009. 


123 


Daniele Vergari 





“tutto consiste nell’economico uso dell’acqua conducendola quasi per mano 
ove si crede utile. Se per esempio abbiamo in un luogo un poggio da spianare, si 
può benissimo ridurre con l’acqua facendo delle fossette, e dei canaletti sopra di 
esso, e lasciando corrodere dalla medesima tutta quella terra, che sarà necessaria a 
renderlo piano, e questa si può trasportare per mezzo di altre fossette ove saranno 


» 


dei concavi per essere riempiti” (Chiarenti, 1819: 145). 


A completare il quadro del pensiero agronomico di Chiarenti è sicuramente 
interessante notare la proposta di unire le frazioni sabbiose e argillose del ter- 
reno attraverso lo studio della direzione e della localizzazione delle fossette per 
ottenere così colmate di terreni “mist”, molto più fertili e “fecondi”. Chiarenti, 
tuttavia non si fermò alle sole sperimentazioni agronomiche ma, riprendendo 
una tematica “sociale”, cara anche a Landeschi, propose una innovativa visione 
dell’istruzione dei fattori e dei contadini. Gran parte degli agronomi toscani era 
contraria ad un sistema di istruzione che coinvolgesse contadini e fattori, riser- 
vando ai proprietari il compito di dedicarsi agli studi di agraria. Chiarenti, forse 
grazie anche ai suoi trascorsi giacobini, identificò proprio nei contadini più ca- 
paci la possibilità di formare dio e agenti di campagna ma la sua proposta fu 
duramente criticata proprio dall’Accademia dei Georgofili e da Cosimo Ridolfi 
che, nel 1818, scrisse 


“Vorrebbe il Sig.e D. Chiarenti che i fattori o ministri di campagna fossero 
persone istruite, dotate di cognizioni matematiche, chimiche, fisiche, ammini- 
strative vorrebbe che fossero civili, caritatevoli, pazienti... Noi però siam di parere 
che siavi un mezzo più semplice onde giungere a questo risultato medesimo, ed è 


l'educazione dei proprietarj” (Chiarenti, 2009: 46 


Ma tornando alle sperimentazioni agronomiche è Cosimo Ridolfi il vero pro- 
tagonista in Valdelsa nella prima metà din Grazie a Agostino Testafer- 
rata, suo fattore e maestro, dopo alcuni anni di sperimentazione nei poderi della 
Villa di Meleto, Ridolfi arrivò a definire un insieme di sistemazioni idraulico 
agrarie per i terreni collinari più noto come co/mate di monte che saranno oggetto 
di 9 articoli sul giornale agrario toscano fra il 1828 e il 1830. 

Testaferrata e Ridolfi partirono proprio dalle sperimentazioni del Landeschi 
per sistemare delle pendici ampiamente compromesse e si trovarono ad operare 
in aree simili a quelle di S. Angelo a Montorzo ma con una diversa costituzione 
del terreno, molto più ricco È argille. Questo rese impossibile realizzare con 
successo i ciglioni perché tendevano, con l’eccesso di acqua, a gonfiare e franare. 
Testaferrata quindi immaginò, e realizzò, un sistema ingegnoso che permetteva 
di ottenere superfici omogenee, e facilmente lavorabili lungo le pendici, con una 





8. Per colmata di monte riportiamo la definizione data dallo stesso Ridolfi nel suo articolo letto 


all'Accademia dei Georgofili: “Intendesi per Colmata di Monte quella che tende a riempire le sinuosità 
di un terreno montuoso colla terra nei punti culminanti, affinché sparite le prominenze, ed i seni, il 
monte prenda una regolare inclinazione, la quale si presta poi alla buona cultura orizzontale. In questa 
colmata si lascia passare a fecondare la valle, o la pianura quella terra che riesce soverchia a riempire i 
borri, o che è necessaria per rendere più solido il piede del monte.” (Ridolfi, 2008: 154). 


124 


Da Landeschi a Ridolfi: sperimentazioni agrarie e paesaggio 
in Valdelsa fra il XVII e il XIX secolo 





ridotta pendenza. 

La costruzione delle comate di monte seguiva uno schema preciso: nei punti 
più elevati della collina da sistemare venivano realizzate delle cavità (gozò) colle- 
gate a dei fossi che seguivano le linee di displuvio della collina stessa. Una volta 
riempite queste cavità con l’acqua precipitata questa, ricca di particelle di terra, 
veniva die sui borri, che dovevano essere colmati. Le pendici erano così 
“bonificate” e la continua ripetizione di queste operazioni permetteva la creazio- 
ne dei campi coltivabili (anche se non pianeggianti) là dove prima vi erano “piag- 
ge dirupate”. Accanto alla formazione dei nuovi campi viene realizzato un sistema 
di emungimento delle acque superficiali tale da assicurare che i piani appena 
formati non subissero né nuovi processi erosivi del suolo né frane o smottamenti. 
Le acque dovevano essere governate e il loro scolo deve essere regolato da fosse 
che permettano di scendere verso la pianura con regolarità ed a velocità ridotta. 
Venivano così realizzate delle fosse rettilinee — con una pendenza minima, suffi- 
ciente solo allo scolo delle acque in eccesso — collegate fra un piano e l’altro da 
brevi acquidocci. 

Ela he dell'unità a spina, elemento peculiare del processo di bonifica col- 
linare che sarà oggetto di miglioramenti ed evoluzioni tecniche per tutto il XIX 
secolo e che, ancora oggi, rappresenta una caratteristica del paesaggio agrario 
toscano. 

Si arriva così dopo quasi 70 anni di lavori e sperimentazioni ad un complesso 
ed elaborato metodo sistematorio delle pendici collinari. Finita infatti la necessità 
di mantenere le terre collinari fino a pochi decenni prima occupate da boschi, 
le sperimentazioni agrarie possono rivolgere lo Lia: sulla base delle scoperte 
scientifiche del periodo, ad altri aspetti come le rotazioni colturali, i mezzi agri- 
coli, l'introduzione di nuove specie o colture, l'istruzione, solo per citarne alcuni. 

E anche in questo percorso sarà sempre il Marchese di Meleto l’indiscusso 
protagonista, negli anni successivi al 1830, delle principali innovazioni e speri- 
mentazioni agrarie nella Valdelsa la cui notorietà supererà ben presto i confini 
della Toscana e quelli nazionali. Basta pensare all’introduzione dell aratro Ridolfi, 
con la costruzione della fabbrica a Meleto, l'introduzione della rotazione qua- 
driennale, e, soprattutto, la nascita dell'Istituto di Meleto destinato a formare 
una generazione di agenti di campagna e fattori. Ridolfi, infatti, sulla base delle 
sue esperienze di viaggio per l'Europa e delle visite agli istituti di Roville, Fellem- 
berg e Hofwyl, propose, accogliendo in parte le proposte fatte da Chiarenti quasi 
vent'anni prima, un percorso di studi metodico e scientifico per gli allievi della 
sua scuola. L'esperienza di Meleto si interruppe nel 1843 dando però i suoi frutti 
con la nascita della Scuola di Agraria all’Università di Pisa (1844) e con le suc- 
cessive Lezioni di agraria date dallo stesso Marchese a Empoli e raccolte nelle sue 
“lezioni orali di agraria” che, edite fra il 1857 e il 1868 in tre successive edizioni, 
hanno rappresentato uno degli esempi più emulati della manualistica agraria del 
periodo. 

L'importanza storica delle colmate di monte e del lungo processo di innovazio- 
ni tecniche avviate dalle esperienze di Giovan Battista Landeschi non può essere 
limitato solo alle considerazioni esclusivamente agronomiche o di “difesa del suo- 
lo”. Landeschi, Chiarenti, Testaferrata e Ridolfi, studiarono ed applicarono — tut- 
ti in una ristretta area della Valdelsa proprio dal Marchese di Meleto considerata 
come “una scuola d’Agricoltura, nella quale il sistema di cultura si spiega a tutti i 


125 


Daniele Vergari 





gradi della scala di sua perfettibilità” (Ridolfi, 2008: 152) — un nuovo modello di 
sviluppo delle campagne dove l’agricoltura si intreccia con il miglioramento delle 
condizioni di vita dei contadini e con il tema dell’istruzione degli stessi. 

A distanza di quasi duecentocinquanta anni, ancora oggi possiamo osservare 
come queste sperimentazioni abbiano trasformato il territorio della Valdelsa in 
uno dei più caratteristici paesaggi collinari delle aree interne della Toscana. 

Ma preme ricordare anche che l'insegnamento del Landeschi è ancora oggi di 
drammatica attualità: la scarsa fertilità dei suoli — da lui risolto in modo così ori- 
ginale — è ancora oggi uno dei problemi più rilevanti per l'agricoltura. Il rischio di 
desertificazione al quale sono esposti i terreni per la perdita di frazione organica 
e per l’erosione, e quindi di fertilità, è molto alto e l’esperienza del parroco di 
Sant'Angelo a Montorzo può tornare a fornire utili spunti di riflessione?. 





°.. Poco è rimasto del beneficio parrocchiale di G.B. Landeschi nei pressi di S. Miniato. L'unica 


area ancora intatta dei suoi ciglioni è stata presa in gestione dall’Associazione G. B. Landeschi con 
l'intenzione di restaurarne alcune parti e renderle visibili e comprensibili. Il luogo, in prossimità della 
loc. Calvaiola, è rientrato anche in un più ampio progetto di valorizzazione del territorio di S. Miniato 
(progetto Versanti curato dall’Arch. A. Braschi che ringrazio) dove la collina del Landeschi sarebbe stata 
uno dei luoghi più valorizzati per la storia dell'agricoltura e del territorio. 


126 


Da Landeschi a Ridolfi: sperimentazioni agrarie e paesaggio 
in Valdelsa fra il XVII e il XIX secolo 





Bibliografia 


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Accademia dei Georgofili Busta 54, ins. 49. 


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127 


Daniele Vergari 


Fig. 1: Localizzazione dei terreni del beneficio parrocchiale di G. B. Landeschi (Lami, 1938) 


128 





Da Landeschi a Ridolfi: sperimentazioni agrarie e paesaggio 
in Valdelsa fra il XVII e il XIX secolo 





alt: 


Fig. 2: Le classiche sistemazioni idraulico-agrarie descritte in una tavola del Giornale Agrario Toscano 
del 1828 da Cosimo Ridolfi. Nell’ordine: rittochino, cavalcapoggio, giropoggio e i ciglioni del parroco 
di San Miniato. 


-ATLDRLPITTLP LO TE LEt 





Fig. 3: Tavola che accompagna l’opera di Francesco Chiarenti (1819) e che illustra, in modo idealizzato, 


i ciglioni di G. B. Landeschi. L'ordine e il “buon governo” sembrano essere i protagonisti del paesaggio 
rappresentato. 


129 


Daniele Vergari 








€ Fasi 


Fig. 4: La costruzione delle colmate di monte in una tavola di Cosimo Ridolfi edita nel Giornale Agrario 
Toscano del 1829. 





Fig. 5: L'unità a spina di Meleto come appare in una recente immagine. 


130 


Giuseppe Rondoni etnografo. 
Le leggende medievali e le fiabe dei contadini di San Miniato 


sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





ROSSANO NISTRI 


Cercando la cultura del popolo 

In uno dei primi numeri del Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, a un 
anno dalla morte di Giuseppe Rondoni! (Fig. 1), per pochi mesi Presidente 
dell’Accademia stessa, e in occasione della sua solenne commemorazione accade- 
mica, fu pubblicata la bibliografia, quasi completa e non del tutto precisa, dell’il- 
lustre storico sanminiatese?. Scorrendo i 156 titoli di quell’elenco, riferiti a scritti 
di carattere prevalentemente storico, se ne notano alcuni, tra il 1875 e il 1887, 
dedicati al folclore e alle tradizioni popolari. Mentre con le celebri Memorie stori- 
che di San Miniato, date alle stampe nel 1876, rendeva omaggio alla sua città na- 
tale, a soli 23 anni, ancora studente dell’ateneo fiorentino, Rondoni si avvicinava, 
conformemente alla propria concezione della Storia? e dal suo specifico punto di 
vista, orientato verso una visione religiosa e morale degli eventi, anche alla storia 
spicciola, al mondo della cultura tradizionale, cioè ai comportamenti del popolo, 
ai suoi pregiudizi e alle favole tramandate dalla gente priva d’istruzione*. 

Dalla fine del XVIII secolo, sotto l'impulso della particolare sensibilità ger- 
mogliata in seno al Romanticismo europeo, era venuto crescendo un largo inte- 
resse per il recupero delle radici popolari della cultura del vecchio continente, di 
quella voce nella quale, attraverso i secoli e talvolta i millenni, si riteneva si fosse 





! Giuseppe Rondoni nacque a San Miniato il 17 novembre 1853. Si laureò in Filosofia nel 1887 


e in Lettere nel 1880 all’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Insegnò Filosofia al Liceo Comunale di 
Velletri e Lettere classiche al Ginnasio di Siena, quindi occupò la cattedra di Storia e Geografia prima 
al Liceo Cicognini di Prato, poi ancora al Liceo di Siena, dove rimase sette anni. Infine, per ventisette 
anni fu ordinario di Storia nel R° Liceo Dante Alighieri di Firenze. Fu membro della R*. Deputazione 
Toscana di Storia Patria, direttore della Società Storica della Valdelsa e presidente dell’Accademia degli 
Euteleti di San Miniato. Pubblicò innumerevoli saggi storici e fu “apprezzato collaboratore” di alcune 
tra le più importanti riviste storiche della sua epoca (l'Archivio Storico Italiano, la Rivista Storica Italiana, 
la Rassegna Nazionale). Morì a Firenze il 16 novembre 1919. 

2 [Galli Angelini (a cura)] (1920), Bibliografia, p. 25. Non prendiamo qui in esame le opere storiche 
di Rondoni e non ci dilungheremo a elencare le inesattezze della bibliografia. Abbiamo però notato diverse 
imprecisioni nelle referenze bibliografiche delle opere e la mancata registrazione di alcuni interventi pubbli- 
cati su riviste, principalmente sull’Archivio Storico Italiano di cui Rondoni fu a lungo collaboratore. 

3. Panella, p. 8. Per Rondoni “la storia consiste nello svolgimento della civiltà intiera: cioè tutti i 
fatti del passato entrano nel dominio della storia...”. 

4 Ivi, p. 17-18. Panella scrive che, nella concezione dello storico e dell'insegnante di storia Giu- 
seppe Rondoni, era necessario estendere “lo sguardo a tutti gli orizzonti, a tutte le manifestazioni dell’at- 
tività umana, dalle più alte, le arti, le lettere, le scienze, alle più umili e men pregiate, quali i costumi del 
popolo, le superstizioni, i pregiudizi”. 


131 


Rossano Nistri 





conservata l’anima dei popoli. I canti, le fiabe, i racconti tradizionali furono visti 
come “i segni minuti dell’infanzia dell’uomo — e individuo e nazione”?, il depo- 
sito arcaico del vitalismo e delle energie più vere dei diversi gruppi culturali, la 
testimonianza dei valori originari dell'umanità. Di questa cultura bassa si tentava 
l’interpretazione secondo una prospettiva completamente nuova rispetto al pas- 
sato: le tradizioni linguistiche del popolo erano avvertite come la voce “che si fa 
da sé”, non più o non soltanto letteratura di bassissimo livello, ma specchio reale 
della cultura — cioè della vita vissuta - in un preciso territorio. Sulla scia di von Ar- 
nim, di Brentano e dei Grimm, anche da noi gli studi folclorici coinvolsero molti 
eccellenti letterati e studiosi di storia o di altre discipline umanistiche, che con 
diverso grado di correttezza filologica, data la mancanza di coordinate disciplinari 
in un campo ancora tutto da inventare, si affannarono a raccogliere, trascrive- 
re, catalogare in modo empirico, pubblicare e chiosare lo sterminato materiale, 
“trasformazione e ricordo dell'età eroica di un popolo intero”°, di cui le regioni 
italiane erano state fertile vivaio e ora apparivano come un inesauribile scrigno. 

Nella patria dei cento comuni, la valorizzazione della cultura del popolo ebbe 
in aggiunta lo scopo implicito, come era avvenuto in Germania con l'enorme 
fatica filologica dei Grimm’, di affermare, nei decenni precedenti la nascita del 
Regno d’Italia, e in quelli seguenti, per tutto l’Ottocento - l'epoca in cui, fatta 
l’Italia, bisognava fare gli Italiani - l’idea di un popolo come Nazione. Era neces- 
sario sostenere e dimostrare che l’anima delle genti della penisola, pur nella mol- 
teplicità delle espressioni dialettali e delle culture regionali, era sostanzialmente 
unitaria e che la voce da esse espressa nel presente, massime laddove non era 
ancora percepita la spinta dell’industrializzazione, rappresentava un patrimonio 
comune, la costante metastorica e transterritoriale dell'anima e del costume na- 
zionali, proiettati attraverso i secoli nella contemporaneità. 

Già nella prima metà del XIX secolo pubblicarono le loro celebri raccolte Nic- 
colò Tommaseo e Costantino Nigra e, dietro di loro, Vittorio Imbriani, Giuseppe 
Tigri, Domenico Comparetti, Arturo Graf, Giuseppe Pitrè, Alessandro D’Anco- 
na, Angelo De Gubernatis furono i nomi più noti del piccolo e agguerrito eser- 
cito di appassionati uomini di cultura che nel corso dell'Ottocento si adoperò a 
fissare sulla carta quella memoria tradizionale che veniva lentamente cancellata 
dall’avanzare degli opifici, come si chiamavano allora, dell’alfabetizzazione e del 
modernismo. Il folclore divenne un tendenza alla moda tra gli intellettuali, così, 
oltre ai Grandi destinati qualche decennio più tardi a riempire della propria vita 
e delle proprie opere le colonne dell’Enciclopedia Italiana, tanti piccoli o picco- 
lissimi ricercatori di paese, non etnografi né folcloristi, ma solo appassionati della 
verità del popolo e della sua anima antica, seguendo uno slancio non di rado 
occasionale, si dettero a trascrivere e a pubblicare ciò che ascoltavano sulle labbra 
della gente comune. “L'età nostra, com'è noto, si pose indefessa a raccogliere le 
tradizioni e leggende più strane, queste grandi ombre di grandi profili, perse- 


°. Dolfini, vol. I, p.X. 

6 Rondoni (1886), p. 5. 

7. Dolfini, pp. XIII-XIV: “Il senso ultimo della loro [dei Grimm] ricerca complessiva (...) è quello 
di penetrare profondamente, capire e spiegare meglio possibile il momento decisivo dell’individualità, 
dell’autenticità della nazione tedesca, di leggerne il vocabolario dell'anima”. 


132 


Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





guendole sotto ogni loro forma (...). Ma dacchè iniziavasi lo studio della poesia 
popolare, e il Grimm raccoglieva premuroso le favole medievali alemanne, fu 
dovunque una gara crescente di accumular tradizioni raccattandole sia ne’ vecchi 
libri, sia nelle più remote capanne”?. Anche Giuseppe Rondoni, per un breve pe- 
riodo, cavalcò l’onda e fu tra quei pionieri ma, seguendo la propria vocazione, lo 
fece più da storico che non da folclorista, nella certezza che lo studio del materiale 
tradizionale, quando “si proceda con vero rigore di metodo e senza esagerazioni 
fanatiche, può sovente indicarci l'intimo nesso fra storia, psicologia e filosofia”?. 

La bibliografia non lascia dubbi. La sua vocazione giovanile era stata per la 
letteratura, per il teatro, per l’arte e per la filosofia, come dimostrano il saggio su 
Il Rolla di Alfred Musset, apparso su una rivista studentesca di Pavia nel 1874, e 
in seguito alcune riflessioni teatrali e scritti letterari, estetici o di filosofia morale 
che, dagli anni giovanili, si faranno sempre più radi inoltrandosi negli anni’80 
dell’Ottocento!°. Senza dimenticare del tutto queste passioni soi che si ri- 
proporranno qua e là nei suoi più maturi studi storici, già dal 1876, con la pub- 
blicazione delle Memorie storiche, Rondoni, sotto la guida di Augusto Conti e 
soprattutto di Pasquale Villari, suoi insegnanti nell’ateneo fiorentino, si era fatto 
“consapevole di aver sbagliato strada (. 3 e si indirizzò alla storia”. Fu proprio il 
Villari a favorire in lui “una larga concezione dei problemi storici, quando tratta 
di metodologia e di interpretazione dei fatti umani”"!. 

Crediamo di non allontanarci dalla verità inducendo che in lui l'attrazione per 
il folclore e per le tradizioni popolari sia maturata, in questa prima fase di interessi 
non ancora ben confermati nella direzione da privilegiare, seguendo un atteggia- 
mento comune e diffuso, e forse anche alcune suggestioni scaturite dall'autorità 
di Giosuè Carducci, di cui a San Miniato era ancor viva l’eco del breve ma movi- 
mentato passaggio, e la familiarità che Rondoni ebbe con il suo maestro Augusto 
Conti. Il Carducci, ed è lo stesso Rondoni a ricordarne l’influenza'?, aveva ponti- 
ficato: “... a noi ora conviene raunare, discutere, raffrontare, ricomporre non solo 
le leggi e le forme dei dialetti; ma i canti, i proverbi, le novelle e le tradizioni e le 
leggende italiche e romane, pagane, cristiane e del medioevo” e così “ritessere per 
tutto il bel paese la poesia eterna, e non più cantata dal popolo”!. 

Sicuramente Rondoni conosceva quanto il filosofo Conti aveva scritto a pro- 





8 Rondoni (1886), p. 5. 
Ivi, p. 6. 

10° [Galli Angelini], pp.24 segg.. Oltre a Il Rolla di Alfred Musset su Lo Studente, Pavia, VI, 19 
apr. 1874, pp. 3.5, e VII, 30 apr. 1874, pp. 2-5, nella bibliografia di Rondoni si trovano altri testi di 
carattere non storico: A. Sartini: la morale ed il teatro su Rivista Universale, Firenze 1875, XXI, pp. 672- 
676; Potenza educatrice dell’affetto nella letteratura e nella scuola in Per la solenne distribuzione dei premi 
agli alunni delle Scuole Comunali di Siena, il 18 Giugno 1882, Siena, Tip. Pucci, 1882; A proposito del 
libro “Sculture e mosaici nella Facciata del Duomo di Firenze: argomenti e spiegazioni del Prof. A. Conti” 
su Scienza e lettere, Firenze, Febbraio 1884, pp. 149-160; Lorenzelli Sac. Benedetto — L'appetito e le sue 
distinzioni secondo l’Aquinate, confutazione del Darvinismo e del Positivismo su Scienza e Lettere, Aprile 
1884, pp. 413-14. Poi, dopo 24 anni, un unico scritto dedicato A Renato Fucini pubblicato su // Piccolo 
di Empoli, III, n° 23, 7 Giugno 1908. 

!! Panella, p. 6. 

Rondoni (1886), Avvertenza, p. 3. 

13. Carducci (1883), Confessioni, p. 97. 


133 


Rossano Nistri 





posito dell’istinto classicista del poeta concittadino Pietro Bagnoli, allora molto 
celebrato: “E chi di questo natio confrontarsi dell'ingegno nostro con quello dei 
Greci e Latini vuole argomento sicuro, legga qualche poesia popolare italiana, o 
la raccolga dal vivo canto dei contadini, e vi sentirà dentro un sapore di grazia 
ellenica, una classica sobrietà che tinnamora”!. Queste suggestioni furono su- 
perate nell’arco di pochi anni, poiché tutte le esperienze di Rondoni in campo 
etnografico, fatta eccezione per la riproposta aggiornata e arricchita in veste di 
conferenza nel 1896 alla R° Accademia dei Rozzi di Siena, di alcuni temi del 
suo volume sulle tradizioni popolari senesi edito dieci anni prima, si limitano a 
pochissimi testi pubblicati su riviste o in opuscoli. Probabilmente, come si era 
accorto in precedenza di non avere la stofta del critico letterario e del filosofo 
puro, così Rondoni non impiegò molto, da persona seria e onesta qual era, e forse 
— come vedremo - con l’aiuto involontario di Giuseppe Pitrè, a lasciare l'indagine 
delle tradizioni popolari nelle mani di chi aveva la preparazione metodologica per 
occuparsene e in quella investiva la parte maggiore della propria attività. 


Un moralista alle prese con le cose del popolo 

L'interesse di Giuseppe Rondoni per la cronaca che diventa storia quotidiana 
si manifesta la prima volta con un opuscoletto di 18 pagine, dato alle stampe nel 
1875, il Ricordo _ celebrate in onore di Maria Vergine del Soccorso nei giorni 
5, 6, 7, 8 settembre dell'anno 1875 nella chiesa dei SS. Michele e Stefano in S. Mi- 
niato (Fig. 2). Non è uno scritto dichiaratamente etnografico, seppure tratti un 
argomento che con l’etnografia ha molto a spartire. È un’operina ascrivibile a un 
genere letterario minore a carattere devozionale, in voga tra gli ultimi decenni del 
XVIII e i primi anni del XX secolo: la descrizione delle feste religiose, con la loro 
ridondante messinscena teatrale e il sontuoso apparato scenografico, le liturgie, i 
costumi, gli addobbi e gli ornamenti. Nella macchina celebrativa di una ricorren- 
za religiosa, le famiglie più cospicue ostentavano la propria devozione e insieme 
rappresentavano pubblicamente il benessere raggiunto, confermando il proprio 
ruolo sociale; il popolo analfabeta ne godeva, in un'epoca in cui la comunicazio- 
ne della liturgia si sviluppava esclusivamente in latino, soprattutto la pompa e la 
magnificenza esteriore. Si può supporre che Rondoni avesse avuto come modello 
del suo opuscolo quello pubblicato nel 1866 da Vincenzo Majoli, nipote di Pie- 
tro Bagnoli, dedicato alla Descrizione delle solenni feste in onore di Gesù crocifisso 
detto di Castelvecchio della città di S. Miniato successe nei giorni 5, 6, 7 e 8 settembre 
1863. Un librettino dello stesso genere sarà dato alle stampe dalla Curia vescovile, 
cinque anni dopo quello del Rondoni, con il titolo Per le feste straordinarie che 
a gloria del SS. Crocifisso detto di Castelvecchio si celebrano nella Chiesa cattedrale 
di S. Miniato nei giorni 5, 6, 7 e 8 settembre 1880; una anonima postilla docu- 


!4 Conti A,, p. V. Nella nota 1 a pie’ di pagina, il filosofo esemplifica: “Nel giorno stesso che io scri- 


veva queste parole, mi recai a spasso la sera per la valletta dell’Ensi prossima a Samminiato, e intesi cantare 
da due villanelle: Lo mio amore mha dato due viole, / ed io le messi sotto il capezzale, / tutta la notte ho sentito 
l'odore... Non potei udire altro, perché le giovinette andavano verso casa, tenendosi con un braccio cinte 
alla vita l'una dell’altra”. Leggermente diversa la versione dello stornello data da Tigri, p. 316: “M'è stato 
regalato tre viole; / Me le son messe sotto il capezzale; / Tutta la notte ho sentito l'odore”. 

!5 Il testo della conferenza Leggende, Novellieri e Teatro dell'antica Siena fu pubblicato a Siena, Tip. 
Sordo-Muti, 1896. 


134 


Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





mentaria (“Breve notizia”), dedicata ancora ai festeggiamenti per il Crocifisso di 
Castelvecchio nell’anno 1913, sarà posposta alla seconda edizione della Storia del 
venerato simulacro scritta cinquanta anni prima dal prevosto Conti!°. 

È un curioso opuscolo, quello dedicato dal giovane Rondoni, appena venti- 
duenne, alle feste di Maria Vergine del Soccorso che si celebravano ogni ventotto 
anni nella chiesa sanminiatese di Santo Stefano! Le celebrazioni precedenti, nel 
1847, durante le quali “si consacrarono le bandiere d’Italia”!8, avevano visto la 
partecipazione, tra i fedeli, dei due illustri concittadini Pietro Bagnoli (vecchio e 
infermo, pochi giorni prima della sua morte) e Augusto Conti". Un curioso opu- 
scolo, dicevamo, che ha per noi almeno due motivi d'interesse. Il primo deriva 
dalla descrizione di una ut religiosa che, se popolare non era in senso stretto, 
vedeva però una grande partecipazione di popolo. Il secondo permette di gettare 
luce sulla simili con la quale Rondoni guardava ai propri concittadini. 

Per i festeggiamenti del ‘75 fu dispiegato un grande sforzo d’immagine, così 
che una parte del resoconto, oltre che alle liturgie e alla partecipazione popolare, 
è dedicato alla descrizione, dello sfarzoso apparato scenografico messo in piedi 
dal Comitato organizzatore, composto dai maggiorenti cittadini (di cui al mo- 
mento giusto il giovane Rondoni elencherà, a futura memoria, nomi, cognomi 
e i titoli di merito): “... la ricchezza, anche sontuosa, dei drappi, (...) il buon 
gusto nella distribuzione degli addobbi e dei colori, massime nell’arco dell’altar 
maggiore...”°, “un intercolonnio tutto olezzante di fiori e di alloro a festoni e 
ghirlande...”?!. In quattro giorni furono celebrate più di sessanta messe, molte 
delle quali cantate; si pronunciarono svariati sermoni, omelie e allocuzioni da 
parte dei canonici e I vescovo Del Corona; una sfarzosa e affollatissima proces- 
sione percorse le vie cittadine (“la folla pareva un mar vivente, un fluttuar di visi 
e di spalle (...), un lastrico di teste umane, onde usciva un rombo prolungato e 
confuso...°)??; ci furono ogni giorno concerti con le bande musicali di San Mi- 
niato e di Castelfiorentino; e persino una sorta di scoppio del carro a imitazione di 
quello della Pasqua fiorentina, in cui, tra razzi serpeggianti, “compiè la Colombi- 
na la sua corsa sfrenata, che piacque a tutti, dacchè pareva un mazzetto volante di 


16 Conti G., pp. 122-125. 

17 Da un'indagine svolta presso anziani parrocchiani della chiesa di Santo Stefano e Michele risul- 
ta che la festa della Vergine del Soccorso è stata celebrata fino al periodo della seconda guerra mondiale, 
con scadenza, sembra, annuale, ma con minori fasti rispetto a quella descritta nell’opuscolo del Ron- 
doni. Dopo la parziale distruzione della chiesa nel luglio 1944 e la sua riapertura del 1956, la festa e la 
processione non si sono più celebrate. 

18. Rondoni (1875), p. 13, che trae l’informazione da Augusto Conti (v. n. successiva). Le bandiere 
d’Italia (un tricolore con l'aggiunta del giallo papalizo, cioè propriamente un quadricolore) era apparso 
in alcune città del granducato di Toscana durante le manifestazioni indipendentiste del 1847. “Il segno 
del Papa nella bandiera nazionale rappresenta l’unità Italiana conquistata coll’aggregazione degli Stati 
intorno al centro comune Romano, e salva l’individualità di ciascun principato. Esso corrisponde alla 
trasformazione effettuata nell’idea liberale italiana dopo il Gioberti e Pio IX” (Giornale LYtalia, p. 2, 
senza firma, attribuibile al direttore Adriano Biscardi). 

19 Conti A., pp. XXXVII. 

2° Rondoni (1875), p. 5. 

2 Ivi, p.6. 

Ivi, p. 12. 


22 


135 


Rossano Nistri 





fiori”?3. La conclusione fantasmagorica, come nella migliore tradizione delle feste 
di paese, fu affidata a “varie macchine pirotecniche (...) che irradiando di tanto 
in tanto il prato, il poggio che gli soprasta, le logge e la ròcca bruna e silenziosa, 
svelavano, come per incanto, fe di uomini afosa gli uni sugli altri, quasi 
moltitudine sedente sui gradini di un anfiteatro immenso”. 

AI di là del resoconto cronologico dei festeggiamenti, il Ricordo presenta un 
ulteriore motivo di interesse perché mette in luce un atteggiamento che Rondo- 
ni, più o meno esplicitamente, non abbandonerà mai, LIL opere dedicate alla 
cultura popolare. Il popolo, nel pensiero di Rondoni, non ha una cultura al di 
fuori dici “perché cattolicità vera, significa universalità e libertà”?: 
il progresso “anche nei suoi difetti e nelle sue sciagure, come nelle AA e 
nei suoi pregi, serve ad un disegno mirabile della Provvidenza...” ed “è dunque 
incardinato, secondo il Rondoni, nel Cristianesimo, dal quale quello si origina, 
si svolge e si svolgerà”?°. Solo “negli affetti di religione tutto diventa sublime, 
perfino le festicciuole di una parrocchia campestre”, destinate “a rinnuovare 
nelle allegrezze di Dio, i ricordi, le gioie e le speranze degli uomini, che non sono 
astrattezze; ma vite socievoli, e come tali, spinti dalla voce di natura, han bisogno 
di confondersi insieme per le vie, nel cimitero e nel tempio, per avere una patria 
ed un culto, di piangere e ridere insieme”?8, 

Una fede tanto intransigente dà forma e vita a una dimensione morale e a 
posizioni culturali altrettanto intransigenti che, se non perfettamente controllate, 
scivolano l’una nel moralismo, le altre in una sorta di conservatorismo naziona- 
listico??. Nel suo elogio funebre di fronte ai soci dell’Accademia degli Euteleti, il 
paleografo Antonio Panella che dello storico fu amico e estimatore, afferma che 
per Rondoni “l’arte non ha diritto di essere se non è morale”; e che la sua morale 
è “essenzialmente religiosa come nel Conti; tanto vero che, dopo aver sostenuto 
la reciproca coordinazione della morale e dell’arte, trova che questa raggiunge la 
sua più efficace espressione quando è ispirata e guidata dal sentimento religioso. 
Egli viene così a del morale con la religione...”5: “senza Cristianesimo 
e senza Dio la morale non c'è’5., 

In alcuni passaggi dell’opuscolo dedicato alla festa mariana, questa morale si 
fa agguerrita, e Rondoni polemizza, forse un po’ fuori luogo, considerando l’ar- 
gomento dello scritto, con le “ombre malnate del trascendentalismo tedesco”, 
e con i brontolii di “qualche volterriano annacquato”, con “gl’Italiani scim- 


23 Ivi, p.8. 
2 Ivi, pp. 13-14. 
3 Ii, p. 17. 


26 


Panella, pp. 8-9. 

27. Rondoni (1875), p. 5. 

28 Ivi, pp.3-4. 

Le posizioni di Rondoni erano d’altronde conformi alle indicazioni del Si/labo emesso da Pio 
IX nel 1864 contro le forme del pensiero moderno ritenute erronee e perciò condannate dalla Chiesa. 
Lo storico sanminiatese le esplicita sulla rivista fiorentina Scienza e lettere nell'aprile 1884, recensendo 
un'opera di Benedetto Lorenzelli a confutazione del Darwinismo e del Positivismo (v. n. 11). 


29 


30. Panella p. 7. 

3 Rondoni (1975), p. 13. 
8 Ivi, p. ll. 

5 Ivi, p.17. 


136 


Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





miottatori dissennati e ridicoli di ogni cosa, purché non italiana, e peggio delle 
prepotenze tedesche di ogni sorta, e del Conte di Bismark, che vuole squadrare a 
suo modo il cervello e la coscienza di tutti, rinnuovando le superbie pagane dello 
Dio Stato”; e ancora con “certi mangiapreti, che si compiacciono imbrattare gli 
altri della bruttura propria...°*. Dante, Michelangelo, Galileo, Ariosto, Man- 
zoni, Gioberti, Rossini, i campioni del genio italico, furono tutti cattolici: al di 
fuori della religione non c'è tradizione né gloria italiana. 

Appare fortemente condizionato da tale intransigenza lo sguardo divergente 
rivolto da Rondoni verso la gente della sua cittadina. “I Sanminiatesi, i quali 
con aspettazione non mediocre accorrevano all’altare della Vergine, assistendo 
agli uffici divini, nell'’ammirare l'assetto bellissimo, potevano sentire l’intima ed 
ineffabile armonia, con che l'ordine esterno di una cosa bella richiama lo spirito 
all'ordine immortale”3°. La descrizione dei fedeli timorati di Dio, si abbandona al 
lirismo retorico e alle immagini di maniera comuni nell’iconografia devozionale. 
Nella processione, sfilavano “donne e fanciulle del popolo, che pel giorno della 
Madonna, avevano serbato la veste più bella; erano donne e fanciulle cittadine 
che portavano l’offerta alla Protettrice delle vergini e delle madri”?”. In attesa del- 
la comunione generale, “sul balaustro ad un vecchio pittore fiammingo avrebbe 
offerto un n di sentimento profondo un folto drappello di contadini, a testa 
scoperta, più puliti e manierosi del solito, raccolti lidia davanti all’al- 
tare ove, in faccia alla luce del sole si celebrava il sacrifizio del Re della luce. Quel 
pittore avrebbe avuto a ritrarre un magnifico spicco di tinte: faccie abbronzite o 
rossastre risaltanti sul bianco delle tele, il verde del fogliame, ed anzi avrei ama- 
to che il mio artista cogliesse il momento del Sanctus, mentre quella gente era 
prostrata in varie attitudini, ed un raggio di sole, scappando di sotto al tendone, 
vestiva il capo e le braccia alzate del sacerdote”?8. Spesso si avverte addensarsi il 

athos, “tra il fumo degli incensi e tanti lumi”, quando gli occhi dei fedeli si ve- 
Lao di lacrime; mentre in altra occasione “i volti dei figliuoli e dei padri spirano 
inusitata dolcezza, si guardano, si parlano con garbo più squisito...°?. 

Fuori dalla chiesa, nell’ordinario, tra la gente che vive dentro le mura cittadi- 
ne, le cose sono descritte in modo meno idilliaco. Tra “i Sanminiatesi, che siamo 
o si dovrebbe essere come una famiglia, d'amore e d'accordo, pel perfezionamen- 
to di ciascuno e di tutti”‘°, serpeggiano sentimenti non propriamente cristiani, e 
“ad occhio veggente, a colpo so di giorno in giorno (lo dico con dolore) 
si sdrucciola nelle segregazioni dispettose ed intolleranti dell’astio e della maldi- 
cenza da disgradarne alle volte certe grette ridicolaggini dei nostri bisnonni”*!. 
Il moralista riaffiora sotto la spoglia del cronista di costume: “... in S. Miniato, 
diciamolo francamente, c'è un difento: la svogliataggine, l’ozio più o meno abbar- 
bicato in tutte le classi della società, e dallo ozio, come vermi di cadavere, ripul- 


8 Ivi, p. 18. 
3 Ivi, p. 16. 
36 Ivi, p. 5. 
9 Ivi, p. 12. 
38 Ivi, p. 10. 
2 Mi pid: 
0 Ivi, pid: 
fl Ivi, p. 15. 


137 


Rossano Nistri 





lulano le leggerezze intorno a ciò che havvi di più grave, le insinuazioni maligne, 
le ciance, la PeR se non cattiva, insipida e sonnolenta, le dilapidazioni ed i tristi 
che ci fan guadagno, la povertà ed il languore per tutto e di tutti”*. I due quadri, 
insomma, non solo non collimano (quasi che il popolo prostrato nelle cerimonie 
liturgiche non fosse lo stesso che dava così brutta immagine di sé nella vita quo- 
tidiana), ma divergono fortemente, perché l’etnografo dilettante Rondoni non 
si limita a esporre dei dati, ma giudica la realtà descritta secondo un 4 priori che 
con quella realtà non dovrebbe interferire. Un limite questo, da cui non saranno 
esenti neppure le fatiche etnografiche del decennio successivo‘. A sua discolpa, 
dobbiamo riconoscere che l’opuscolo, sebbene tratti una materia riguardante i 
costumi del popolo, è, come abbiamo detto, ascrivibile a un genere letterario 
religioso. Possiamo ritenere che il giovine Rondoni con questo scritto non aves- 
se alcuna intenzione di dare un contributo alla letteratura etnografica, quanto 
piuttosto di stilare una semplice e devota cronaca cittadina attraverso la quale 
elevare la fede dei credenti e, al tempo stesso, di rivolgere un doveroso encomio 
alle autorità civili e religiose che si erano adoperate per realizzare le celebrazioni. 


La leggenda, una quasi Storia 

Prima di ricoprire la cattedra di storia al liceo Dante di Firenze, Rondoni tra- 
scorse un settennio al Liceo di Siena, durante il quale raccolse la maggior parte 
della cospicua mole di documenti che dettero vita allo studio Tradizioni popolari 
e Land di un comune medioevale e del suo contado (Siena e l'antico contado sene- 
se) (Fig. 3), la sua opera più elaborata nel campo della cultura tradizionale, data 
alle stampe dalla fiorentina Rassegna Nazionale, dietro raccomandazione di Augu- 
sto Conti, nel 1886‘. Un lavoro “in apparenza non in tutto aderente all’ordine 
dei suoi studi”. 

Il volume è composto di tre lunghi capitoli, il primo dedicato alle leggende 
civili, il secondo alle leggende religiose, il terzo alle leggende medioevali. “Nel 
medioevo furono alcuni secoli nei quali pare che la leggenda subentri alla sto- 
ria. Appunto allora troviamo le origini e gli incrementi dei nostri Comuni tutti 
avvolti nello splendido velo della E vola” . Oggetto di questa ricerca — afferma 
l’autore - sono principalmente le “tradizioni più o meno popolari e vetuste intor- 
no ai primi tempi del Comune, alla sua età mitica, a’ fatti cioè ed ai personaggi 
anteriori o posteriori di poco a Montaperti”, in definitiva, i miti d’origine da 
Comune senese e dell’anima cristiana dei suoi cittadini. Lo storico Rondoni ha 
la ferma convinzione che “tante immaginazioni e fantasticherie” abbiano “spesso 
un fondamento di vero e compiono la storia”, che la leggenda possa e debba ri- 


2 Ivi, p.17. 

4 Santini. p. 288. Negli anni della maturità, Rondoni ebbe la percezione dei limiti delle sue 
prime ricerche. Accennando, nel necrologio sull’Archivio Storico, agli ultimi anni di vita di Rondoni, 
Santini afferma che l’amico sperava “di avere dinanzi a sé tempo sufficiente per completare alcuni lavori 
rimasti a mezzo, e per ripresentarne sotto nuova ed ampliata veste altri, pubblicati negli anni giovanili 
ed oggi invecchiati di fronte al progresso degli studi critici...”. 

44 Rondoni (1886), p. 5. 

5. Panella, p. 12. 

i Rondoni (1886), p. 7. 

7 Ivi, p.9. 

Ivi, p. 5. 


48 


138 


Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





allacciarsi alla storia o derivare da essa. Anche quando si occupa di materiali della 
tradizione, prevalgono in Rondoni la vocazione dello storico e la preoccupazione 
di collocare le narrazioni in maniera congrua rispetto a un duna) e a un dove, a 
un appropriato fondale storico, senza considerare che una leggenda vale di per sé, 
per ciò che racconta della cultura popolare, e non in relazione a una realtà storica 
precisa e ben definita; né l’ammissione che le tradizioni documentate siano “più 
o meno popolari e vetuste” contribuisce a portare chiarezza sulla materia dell'in- 
dagine. La scarsa delimitazione del campo (che cosè e cosa non è popolare?) 
fu, d’altronde, un retaggio comune a quasi tutti gli etnografi e i Bidonsi non 
professionisti dell’epoca, quando ancora si arrancava a definire, nello sterminato 
calderone della cultura popolare, obiettivi disciplinari precisi. 

La vera materia di quello studio ci pare non siano le tradizioni popolari, le 
leggende come tali e lo implicazioni etnografiche, quanto piuttosto la storia 
delle tradizioni e delle leggende sull'origine di Siena 0, viceversa, le tradizioni e 
le leggende a confronto con la storia, i mutamenti che le leggende hanno avuto 
nel corso dei secoli, nel tentativo di comprendere quanta verità storica ci sia in 
ognuna di esse. I racconti leggendari sono tratti, con poche eccezioni, dalle carte 
degli archivi, dai codici antichi, dai materiali conservati nella biblioteca senese 
è dalle opere a stampa degli storici e dei cronisti del passato, da Sesto Aurelio 
Vittore a Goffredo da Viterbo, da Giovanni di Salisbury, a Giovanni Villani e 
Ludovico Antonio Muratori, fino ai riscontri sulle raccolte di novelle di Gentile 
Sermini, di Scipione Bargagli, di Vittorio Imbriani e ad un accenno della vicenda 
di Davide Lazzaretti, il a dell’Amiata, da pochi anni conclusasi al momento 
della stesura della monografia. Le leggende, insomma, riempiono le pagine del 
libro ma, se sono tradizionali, nel senso che ne circolavano in Siena molteplici 
versioni tramandate oralmente, non sono popolari in senso proprio, poiché non 
rispecchiano la cultura originaria del popolo, ma piuttosto, dl migliore delle 
ipotesi, ciò che dei fatti storici e delle vicende narrate nelle fonti scritte citate da 
Rondoni poteva essere arrivato alle orecchie della gente senza istruzione. Rara- 
mente si riconosce il popolo quale creatore di tali narrazioni. Troviamo, in questo 
libro, tanta erudizione, la conoscenza delle fonti storiografiche, ma non c'è la 
voce del popolo, come poco ci sono i suoi umori, il suo ingegno e la sua vitalità. 

Alle Tradizioni popolari e leggende del Prof. Rondoni dedicò una lunga recen- 
sione Giuseppe Pitrè sulle pagine della sua prestigiosa rivista di fo/k-lore (come si 
diceva allora), la più importante del suo tempo, stampata a Palermo, da lui fon- 
data e diretta assieme a Salvatore Salomone-Marino, l'Archivio per lo studio delle 
Tradizioni Popolari®. Pitrè elogia il tentativo di Rondoni, dala “un lavoro su 

ueste leggende non è privo d’importanza e di attrattive”?%; apprezza la ricchezza 
dei materiali raccolti, attraverso i quali “non solo i più notevoli eventi, ma an- 
che le vie, le torri, le chiese, i palazzi hanno la loro storia fantastica”?!; e ancora, 
nota la presenza di raffronti e di comparazioni per mezzo delle quali si getta su 
quelle leggende una sguardo complessivo che — secondo Rondoni - può mettere 


4 Non crediamo necessario definire in questa sede l’importanza della figura di Giuseppe Pitrè 


(1841-1916) nella fondazione di una scienza etnografica in Italia e il ruolo svolto dall'Archivio nell’evo- 
luzione delle ricerche sulla cultura tradizionale. 

5° Pitrè (1887 a), p. 123. 

2 Ivi, p. 124. 


139 


Rossano Nistri 





in luce somiglianze intime riscontrabili nel medioevo in ogni parte dell’ Europa, 
Lai la identità sostanziale della natura umana”, poiché si rileva che 
molte di queste leggende hanno origine o condividono temi e svolgimenti con 
analoghe storie soprattutto francesi, “richiamando lo schema fondamentale di 
mille altre leggende di tempi e di genti anche lontane”? Riportando le parole tra 
virgolette, Pitrè segnala che “queste sono le conclusioni del Rondoni: alle quali 
nulla di nostro abbiam voluto aggiungere affinché il lettore ne giudichi da sé. La 
teoria della identità sostanziale dia natura umana — prosegue Pitrè - ammessa da 
tutta una scuola di dotti d’ogni nazione viene preceduta da un particolare che 
la indebolisce, cioè dall'’ammissione di fonti francesi in alcune tradizioni senesi; 
tra le quali fonti, per dirne una, quella del lupo mannaro, che è tanto francese, 
quanto inglese, tedesca, russa, e via dicendo. Richiamando l’osservazione di un 
mitografo francese, l’A. scrive: «Secondo il sig. La Bruyère? gli schemi tipici delle 
io popolari (e si aggiunga pure delle leggende) non deo l’ot- 
tantina». Noi che non abbiamo gli studi del La Bruyère non istiamo a discutere 
sul numero: crediamo però dover distinguere novella da leggenda, e dubitare che 
quella cifra sia da ammettere pei due generi insieme. Nel caso nostro poi una 
osservazione ci pare ilipiil. ed è l'origine erudita di non poche leggende 
del territorio senese, la quale dà luogo a dubitare che la teoria ammessa pei tipi 
delle novelle popolari sia del tutto applicabile alle leggende”. 

Si potrebbe cogliere, nelle parole di Giuseppe Pitrè un filo di ironia, particolar- 
mente nel momento in cui avanza il dubbio che una leggenda, soprattutto se d’ori- 
gine erudita, possa essere equiparata a una novella popolare. Il concetto è rafforzato 
nel paragrafo seguente, quando lo studioso siciliano afferma: “Il Rondoni ha fami- 
liarissima la storia civile e religiosa del Senese, e ne possiede i più minuti particolari: 
però percorre il medioevo tutto fermandosi di preferenza ad avvenimenti pubblici 
eda firci privati che gli scrittori crearono di sana pianta o accrebbero di circostanze 
inventate da essi o prese dalla tradizione corrente. La storia diventa mano mano 
leggenda: e tu ne vedi la evoluzione e ne studi le modificazioni, le amplificazioni, 
le trasformazioni graduali a misura che il tal fatto od il tal altro passa da un novel- 
liere, da un commentatore, da un cronista, ad un altro novelliere, commentatore, 
cronista”? L'illustre etnografo sottolinea con dispiacere le carenze del professore di 
storia: troppo sudore sulle carte, scarsa selezione e soprattutto poco lavoro sul cam- 
po, un limite al quale Pitrè aveva già accennato nelle pagine precedenti, affermando 
che solo “l’eco de’ fatti più clamorosi del medioevo si sente qua e là in tradizioni 
languide e scolorate”?°. Poi argomenta: “Questo lavoro procede con paziente cri- 
tica, ma non senza qualche ripetizioncella, giustificabile, a nostro avviso, col desi- 
derio dell'A. di affermare sempre più le sue idee e di procedere con la luce dei fatti 
esposti e discussi. (...) Miglior -.. avrebbe ottenuto l'A. se avesse allargato un 
po’ il campo de’ confronti, qui abbastanza limitato, coi quali specialmente nella 
parte III, avrebbe potuto venire a conclusioni più sicure. Ma scrivendo in Siena non 


5. Rondoni (1886), p 180. 
9. La Bruyère, p. IX. 

3 Pitrè (1887 a), p. 126. 
Ivi. 

56 Ivi. 


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Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





si hanno molti libri per indagini e comparazioni di tal natura, e così spieghiamo la 
mancanza di notizie che in un gran centro di studi di questo genere difficilmente si 
sconoscono. Se non che, quando uno s’avviene in libri come questo del Rondoni, 
pieni di amore e di coscienza, vorrebbe non trovarvi lacune di sorta, citazioni in- 
complete o difettose”?7. 

Senza dirlo apertamente, il prof. Pitrè addebita al prof. Rondoni una certa 
mancanza di metodo e una non troppo ampia conoscenza della materia che non 
sia di natura strettamente storica. Amore e coscienza, sì, ma poi anche la tendenza 
a presentare una grande varietà di materiali per convalidare idee precostituite e 
già consolidate, invece di raccogliere le conclusioni dall’analisi dei fatti esposti. 
Troppa attenzione alle similitudini, poca indagine sulle differenze. La ricerca del 
principio unificatore allontana lo sguardo dalle peculiarità di ogni narrazione e 
del microcosmo culturale che l’ha accettata e tramandata. I propri limiti, sostan- 
zialmente, li aveva già indicati, quasi come un punto di forza, lo stesso Rondoni 
nella conclusione del suo saggio, confermando una verità per lui inoppugnabile 
nei confronti della quale invece la nascente scienza etnografica operava un pro- 
gressivo ridimensionamento. “Ma è un fatto che quanto più si scruta e s'indaga, 
anche dai fatti storici più minuti rinasce il concetto fondamentale dell’uomo an- 
tico, (...) si ritorna alle verità universali della coscienza nella sua triplice relazione 
con sé stessa, coll’universo e con un principio superiore all'una e all’altro”. La 
storia — e le piccole storie quotidiane elaborate nel mondo della tradizione — non 
sono per lui se non l’anello che congiunge la coscienza individuale a Dio quale 
coscienza superiore in cui deve confluire tutto l'esistente. Un'idea, crediamo, che 
ben difficilmente poteva collimare con il positivismo del Pitrè. 

La recensione alle Leggende senesi apparve nel I fascicolo del VI volume dell’Ar- 
chivio (Gennaio-Marzo 1887). Nel II fascicolo del IV volume (Aprile-Giugno 
1885) e nel II fascicolo dello stesso VI volume (Aprile-Giugno 1887) furono 
pubblicati i due contributi contenenti i racconti popolari raccolti da Rondoni a 
San Miniato. Il secondo di questi scritti è anche l’ultimo da lui dedicato alla ri- 
cerca sulle tradizioni popolari. Quanto abbia pesato la non entusiasmante recen- 
sione di Giuseppe Pitrè alla monografia delle leggende senesi, sulla decisione di 
Rondoni di non frequentare più, nonostante l'attrazione che ne subiva, gli studi 
folclorici, crediamo non sarà mai dato saperlo”. Noi, i posteri, nonostante i limiti 
metodologici e le eventuali lacune dei suoi lavori, dobbiamo comunque essergli 

rati per averci tramandato quelle novellette e lo saremmo stati ancora di più se 
È storico avesse proseguito nella sua fatica di raccolta dei materiali tradizionali, 
un campo in cui, nella realtà sanminiatese, a quanto ci risulta, nessun ricercatore 
ha lasciato più traccia per i cento anni successivi. Molto più dell’interpretazione 





7 Ivi, pp. 126-127. 

5. Rondoni (1886), p. 181. 

9. Santini, nella sua Necrologia sull’Archivio storico afferma che Rondoni “negli ultimi anni della 
sua vita, fatte ulteriori ricerche, ebbe in mente di riprendere a mano il lavoro” sulle leggende senesi, ma 
il proposito non fu realizzato. 

Non considerando novelline, canti e proverbi citati singolarmente in opere di diversi autori, i pri- 
mi contributi consistenti alla ricerca sulle tradizioni popolari nel Sanminiatese si avranno negli anni °80 
del secolo scorso, con le note di Luciano Marrucci apparse sul settimanale della diocesi La Domenica, 
soprattutto tra il marzo ‘83 e il giugno ’84, nelle quali sono pubblicate novelle, leggende, canti, proverbi 


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Rossano Nistri 





che Rondoni avrebbe potuto darne, saremmo stati interessati proprio alle storie, 
ai documenti vivi, alle novelle, alle fiabe — o come vogliamo chiamarle — e sem- 
mai ai canti che egli avesse potuto raccogliere e tramandarci. 


Fiabe e leggende sanminiatesi 

Negli stessi anni in cui riuniva e ordinava il materiale della monografia sulle 
leggende senesi, come si è detto, Giuseppe Rondoni ebbe modo di raccogliere 
nelle campagne sanminiatesi alcune fiabe che, assieme a tre leggende ben cono- 
sciute dalla gente di San Miniato, furono pubblicate su due fascicoli dell'Archivio 
per lo Studio delle Tradizioni Popolari (Figg. 4 e 5 ). Un primo contributo firmato 
da Rondoni, appare sotto il titolo Alcune fiabe dei contadini di S. Miniato al Te- 
desco in Toscana sul IV volume dell'Archivio ®!. Vi sono proposte quattro novelle 
a carattere religioso, precedute da una breve introduzione. La prima ripercorre 
la leggenda della Madonna dei Bambini di Cigoli, le altre tre sono dedicate alle 
peregrinazioni di Gesù e di san Pietro sulle colline attorno a San Miniato e all’in- 
contro/scontro con i rustici abitanti di quelle campagne. Il successivo contributo, 
Appunti sopra alcune leggende medioevali di Pisa, della Lunigiana e di S. Miniato al 
Tedesco è pubblicato sul VI volume dell'Archivio e segna la fine della collaborazio- 
ne di Rondoni con la rivista di studi folclorici*”, tre mesi dopo la pubblicazione 
della recensione di Pitrè al saggio sulle leggende senesi. 

Le leggende rinarrate dal Rondoni (quella del Crocifisso di Castelvecchio e 
quella dell'annuncio fantasmatico della morte di Michele Mercati a Antonio Mo- 
rali — o viceversa) erano già state trascritte in alcuni testi a stampa, la seconda con 
alcune varianti. Le cosiddette fiabe (ad esclusione della leggenda della Madonna 





e modi di dire raccolti sul territorio. Seguirà nel 1986 la raccolta di Rossano Nistri Briccicalla briccicalla. 
Riflessioni casalinghe sulle tradizioni orali di una famiglia (sono presenti nella biblioteca comunale di San 
Miniato e nella biblioteca dell’Accademia degli Euteleti le fotocopie del dattiloscritto originale di 330 
pagine) contenente i materiali tradizionali, canti, filastrocche, storie, novelle e ricette di cucina raccolte 
in famiglia con il magnetofono e successivamente trascritte alla lettera. 

6! Pitrè Giuseppe e Salvatore Salomone-Marino (1885), Archivio, pp. 367-372. 

6 Rondoni (1887), Appunti, pp. 297-307. Qui ci occuperemo soltanto della terza parte dello 
scritto, riferito alle leggende di San Miniato. Per scrupolo di cronaca, si riportano gli argomenti delle 
leggende di Pisa e della Lunigiana, riunite nelle prime due parti del testo. Prima parte, Pisa: La fonda- 
zione di Pisa da parte di Pelope. La fondazione di San Piero a Grado ad opera di San Pietro. Sant'Agosti- 
no e il bambino che raccoglie il mare con una conchiglia. La costruzione del tempio di Diana ad opera 
di Nerone. La leggenda dell’origine del quartiere pisano di Chinzica. L'origine del motto: “Fiorentini 
ciechi”. Seconda parte, Lunigiana: Il ritrovamento del Volto Santo conservato a Lucca e del sangue di 
Cristo conservato a Sarzana. Il vescovo di Luni cattura un terribile drago. L'uccisione del figlio del feu- 
datario di Castelnuovo Magra. Un muratore serve messa a un prete già morto. Leggenda degli Ombrari, 
la processione di morti. 

6 La leggenda del Crocifisso di Castelvecchio è una sorta di riassunto tratto dalle pagine del 
libretto di Conti G., p. 7 segg.. La leggenda dell’annunzio di Mercati a Morali (o viceversa) si trova già 
in Rondoni (1886), p. 246, e in precedenza in Baronio, V, pp. 394-395 e in Terenzio Mamiani, I, p. 
631. Non c'è però univocità sui nomi dei protagonisti. Baronio e Mamiani attribuiscono l'episodio allo 
spirito di Marsilio Ficino che comunica la propria morte a Michele Mercati; Rondoni (1886) parla di 
Marsilio Ficino che comunica a Antonio Morali; Rondoni (1887) riferisce invece l'episodio a Michele 
Mercati e Antonio Morali, senza specificare chi sia il defunto e chi il sopravvissuto (“Muore uno dei due, 
e mentre l’amico stava a tarda ora di notte...” p. 309). 


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Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





di Cigoli, che propriamente una fiaba non è — e che era, ed è, di dominio comu- 
ne“, essendo legata a una devozione ancora oggi fortemente radicata tra la gente 
del territorio sanminiatese), benché inserite in un flusso di narrativa i a 
soggetto religioso abbastanza comune nel contado non solo toscano, ci pare da 
allora non siano state più pubblicate dopo l’apparizione sull’Archivio, né ricorda- 
te o citate in opere di altri autori. Questo è motivo sufficiente a giustificarne una 
nuova pubblicazione integrale sul Bollettino (Appendice 1 e 2). 

Nei sei raccontini (li chiamiamo così, poiché incerta è la terminologia indistin- 
tamente usata da Rondoni per definirli: Pibe, novelle, leggende, quasi si trattasse 
di sinonimi) raccolti in quei due contributi, ci sembra bra poter rilevare le stesse 
caratteristiche già indicate per la coeva raccolta di tradizioni senesi, soprattutto la 
prevalenza degli aspetti storici e la derivazione libresca in quelle che possono esse- 
re considerate propriamente leggende. Della collaborazione con l'Archivio, Panella 
afferma nel suo elogio funebre di fronte ai soci dell’Accademia, che Rondoni “sen- 
tiva in altri termini che anche l’etnografia entrava nel campo della storia... [...] Il 
qual fatto testimonia tra l’altro, come uno storico non irretito nei paludamenti di 
una sprezzante erudizione possa discendere fino alla parola dell’umile abitatore del 
contado per elevarla a documento in servigio della scienza”. Ma si tratta di parole 
nel corpo di un elogio funebre e non di un giudizio critico. Ciò che per Panella 
poteva considerarsi un merito, ne costituiva invece, come aveva rilevato Pitrè nella 
sua recensione alle Leggende senesi, il limite. Rondoni vede in questi materiali di 
cultura popolare, soprattutto nelle leggende, lo ammette egli stesso, “rottami di 
antichità”, cioè frammenti deteriorati della Storia, piuttosto che strumenti lingui- 
stici e culturali, vivi e funzionali, in cui si conservano l'identità e le tradizioni delle 
comunità che continuano a tramandarli. Non sa trovare loro una funzione che non 
sia legata al passato né riesce ad apprezzarle nella forma usata dai suoi informatori, 
funzionale ai loro bisogni di comunicazione. 

Delle quattro novelle sanminiatesi raccolte “dalla bocca di due contadini e 
una contadina”, egli scrive: “Le ho trascritte tali quali potei udirle dalla viva voce 
dei raccontatori, correggendo solo qualche idiotismo e in un punto o due rav- 
versando un poco il periodo, senza toglier nulla allo schietto candore dello stile 
popolare”. Qui potremmo obiettare che nessun contadino “nel cuore del Val- 
darno di Sotto”, a fine Ottocento, avrebbe parlato con un linguaggio così lineare, 
composto, quasi privo di forme vernacole e anacoluti, come quello nel quale 
Rondoni ha trascritto le sue novelle. Egli ha palesemente usato un procedimento 
di traduzione (o di imitazione italiana) del vernacolo, così come facevano nello 
stesso periodo alcuni altri raccoglitori di estrazione letteraria, a cominciare dal 





6 Il racconto si riferisce a un episodio ritenuto storico, accaduto il 21 luglio 1451, riconosciuto 


dalla Santa Sede come evento miracoloso con un documento ufficiale del 1791. 

5 Panella, p. 13. 

6 Rondoni (1887), p. 307. 

Rondoni (1885), p. 367. 

6 Tra i raccoglitori di cose popolari, due scuole prevalevano, l’una contro l’altra armata. Per 
semplificare, da una parte chi, come Alessandro D'Ancona, riteneva si potesse migliorare il risultato 
colorendo e ritoccando il testo, con qualche sfumatura, qualche velatura, con piccole sostituzioni o 
correzioni (Imbriani, VI); dall'altra chi, come Max Miiller pensava che “la novella dovrebbe darsi per 
quanto è possibile colle ipsissima verba del narratore (...). Egli è fuor di dubbio che un collettore, il 


143 


Rossano Nistri 





Nerucci nelle Novelle montalesi, per finire, qualche decennio più tardi, con il Nie- 
ri dei Cento racconti, una raccolta tanto letteraria quanto folclorica. Più rispettoso 
nella trascrizione del vernacolo e nella trasposizione delle strutture sintattiche 
originali era stato l’Imbriani, che aveva stenografato in presenza degli informatori 
le Li della sua Novellaja, nella cui - garantiva: “Le ho poste in carta 
con sommo zelo, tali e quali uscivan di bocca a qualche cechino, a qualche vec- 
chietta, a qualche balia, a qualche nonna, usa ad intrattener con esse i nepotini. 
Ho esagerata l'esattezza, segnando persin le esclamazioni e gl’intercalari viziosi, 
persino i foderamenti di parole: non supplendo le lacune; non correggendo gli 
spropositi evidenti (...), Insomma non ho mutato od omesso od aggiunto, nulla, 
nulla, nulla...”99. Sulle pagine dello stesso Archivio del Pitrè abbondano i raccon- 
ti e i canti trascritti nei dialetti originali (sardo, friulano, siciliano, pugliese...), 
semmai con la traduzione a fianco. 

Rondoni ha corretto e migliorato i testi, quasi che la lingua bassa dei suoi in- 
formatori contadini non avesse una dignità sufficiente per la pubblicazione a stam- 
pa. In quei decenni di incertezza filologica, alla revisione delle forme i raccoglitori 
avevano spesso affiancato la censura dei contenuti, secondo un atteggiamento per- 
benistico comune a molti studiosi e appassionati di cose popolari. Il Tommaseo 
aveva evitato di inserire nella sua raccolta di canti ogni testo che potesse contenere 
volgarità. Carducci, nonostante il suo amore per le cose popolari, ci era andato 
pesante, affermando che non gli si era mai “dato il caso di raccogliere lì [nella poe- 
sia popolare] in sull’atto un sentimento artistico, un effetto poetico, un fiorellino, 
come direbbero, puro e vergine. Cantare certamente cantano: ma quando non son 
cose vecchie, le sono scempiaggini e sconcezze bociate con certi versi strani che di 
Dio ne scampi””°. E ancora agli inizi del 900, Giovanni Giannini, giudicando con 
il metro dell’estetica e del decoro, espungerà dalla sua raccolta molti testi, conside- 
randoli infelici, prosaici e triviali, lontani dagli interessi e dal gusto di “coloro che 
nella poesia cercano soltanto l’espressione del bello”! 

Operando entro il preciso limite di censura preventiva attivato della propria 
etica, che lo porta a non prendere in considerazione e ad allontanare i. sfera 
dell’arte, anche se popolare, tutto ciò che non sia adeguato allo spirito cristiano 
o che non abbia un contenuto intimamente morale, Rondoni non ha bisogno di 
censurare le novelle e le leggende. I piccoli racconti pubblicati sull’Archivio hanno 
tutti un espresso contenuto religioso e di ammaestramento cristiano, e sono stati 
selezionati secondo un criterio che non crediamo casuale. Nel Valdarno Inferiore 
erano ben conosciute tra la gente del popolo storie o novellette di contenuto laico 
o comunque giocoso, sia in prosa sia in versi: La storia di Petuzzo, la 
cina picciò, La novella dello stento, La campana dei pellegrini, tanto per fare qualche 
esempio; e poi, oltre a quelle dell’Imbriani, c'erano le novelle dl dal Pitrè 
in quegli stessi anni”?; fino a quelle riproposte da Carlo Lapucci alla fine del secolo 


quale ritocchi e abbellisca una novella, andrebbe frustato...” (Miller, pp. 6-7). 
Imbriani, p. 3. 
7°. Carducci (1942), p. 354-355. 
"Giannini, p. 4. 
72. Pitrè (1885). 


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Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





passato in una sua gustosa raccolta”; o ancora i racconti, a metà tra la leggenda e 
la verosimiglianza storica, ascoltati dalla bocca degli anziani, ancora nella nostra 
infanzia sanminiatese, nell’ultimo dopoguerra, sul tesoro nascosto nei cunicoli sot- 
to la rocca di Federico, sulla morte di Pier della Vigna, sul fantasma della contessa 
Matilde e su decine di altri fantasmi che popolavano — secondo la voce popolare — i 
molti luoghi lugubri o sconsacrati della città e del contado. Rondoni trascura del 
tutto racconti di questo genere che avevano per lui, crediamo, scarso interesse poi- 
ché non portavano alcun esplicito insegnamento, non avevano morale. 

Le novellette che hanno come protagonisti Gesù, la Madonna e i santi erano 
molto conosciute negli ambienti sii dell’Italia preindustriale, ed avevano 
spesso le loro radici narrative, mutatis mutandis, in opere morali dell’antichità, 
pagana o cristiana (Valerio Massimo, // Novellino, la stessa Bibbia, i Vangeli apo- 
crifi, san Bernardino da Siena), se non nella novellistica culta 3-500esca, dal De- 
cameron al Piovano Arlotto, al Sacchetti, al Pulci, al Lasca), utilizzate come cano- 
vacci di strutture affabulatorie, da riempire con contenuti variabili a piacere, tali 
da soddisfare di volta in volta alle necessità non solo pedagogiche del narratore. 
“Ogni paese aggiunge, taglia, altera, modifica, (...) perché ogni contatore, rimuta 
abbellisce, traspone, rifà secondo il suo ingegno, le sue cognizioni, la sua pratica 
di mondo, l’età, il sesso, e secondo l’uditorio, per far più eco, per garbar di più ed 
essere ammirato maggiormente”7*. Nascono in questo modo L varianti, su cui si 
sono accaniti i folcloristi ottocenteschi nel vano sogno di recuperare la versione 
originaria, il massimo comun denominatore, di un canto o di una novella; va- 
rianti che oggi sappiamo avere ben poco valore rispetto a quell’obiettivo, ma che 
ci interessano in quanto contribuiscono, proprio in ragione delle loro differenze, 
a definire il quadro culturale delle comunità che le hanno elaborate e tramandate 
di generazione in generazione. Molto verosimilmente erano stati i parroci e i 
predicatori “i maggiori diffusori, elaboratori e, certo, anche inventori di queste 
storie che servivano egregiamente alla loro opera per alleggerire il discorso, rav- 
vivare l’attenzione, chiarire e comprovare l’argomento”??, così come i cantastorie 
girovaghi, nella seconda metà dell’800, lo erano stati per i canti narrativi e per 
quelli di tradizione anarchico-socialista. 

Non stupisce, dunque, che Gesù e San Pietro vadano in giro tra la gente 
semplice, i rozzi e gli incolti, in abito e con l’aspetto dei mendicanti, per mettere 
alla prova, da mul a simile, quei poveri diavoli. E vero: Gesù è il figlio di Dio, 
ma si è fatto uomo, e vive tutte le esperienze degli uomini, dalla nascita in una 
spelonca alla morte tra atroci supplizi. Chi non ricorda la filastrocca della nostra 
infanzia: “Maria lavava, / Giuseppe stendeva / e il figlio piangeva / dal freddo che 
aveva...”: Gesù nasce uomo, e uomo povero si per essere compreso dagli 
uomini deve avere una vita da uomo povero; e poiché parla la loro lingua, seppu- 
re per concessione di qualche parroco o priore, gli uomini lo comprendono. Nei 





7. Lapucci, p. 41, // pero e la zucca; p. 122, Una buca ben fatta; p. 142, La misura del campanile; 


p. 292, Il sogno dei tre amici; p. 336, Il vecchietto che non poteva stare zitto. Le cinque novellette sono da 
Lapucci attribuite al territorio sanminiatese, senza indicazione della fonte. L'A. assicura che, all’epoca 
della pubblicazione del libro, “questa è una materia in larga misura, ancora viva, tanto che è stato pos- 
sibile raccoglierla in gran parte dalla viva voce” (p. 8). 

7 De Robertis, VI, che riporta parole di Idelfonso Nieri senza indicarne la fonte bibliografica. 
Ivi, p. 7. 


79 


145 


Rossano Nistri 





raccontini rinarrati dal Rondoni vediamo muoversi un Gesù paziente, capace di 
perdono, ma anche implacabile, con una punta di sadismo nei confronti delle sue 
vittime peccatrici: non si perde in prediche, ma riduce gli uomini alla ragione con 
la forza dell'esempio, facendo passare la verità della punizione attraverso i loro 
corpi o i loro beni materiali. La gente senza lettere rifiutava le astrazioni, si teneva 
legata all’oggettività delle cose e utilizzava queste piccole storie alla stregua di un 
pozzo sapienziale da cui tirare su un’acqua della saggezza che, in quel mondo dai 
confini limitatissimi, aveva più valore del vino della conoscenza (che poi era quai 
sempre acquetta o mezzone). Lì, nel pozzo sanminiatese, qualunque cosa il sec- 
chio avesse portato alla superficie se duueope Rondoni avesse continuato a tirare 
acqua, ci sarebbe piaciuto poter dare oggi un'occhiata. 


Appendice 1 


ALCUNE FIABE DEI CONTADINI DI S. MINIATO AL TEDESCO IN 
TOSCANA 

(Archivio per lo Studio delle Tradizioni Popolari — Rivista trimestrale diretta da 
G. Pitrè e S. Salomone Marino — Volume IV, Fascicolo II — Palermo, Luigi Pedoke 
Lauriel, Editore — 1885, pp. 367-372). 

“Sono quattro I assai brevi, ma molto antiche, raccolte nellameno e 
pittoresco circondario di S. Miniato al Tedesco, nel cuore del Valdarno di Sotto, 
dalla bocca di due contadini e di una contadina, perché mi parvero non sfornite 
di qualche importanza per gli studiosi delle tradizioni popolari. Le ho trascritte 
tali quali potei udirle dalla viva voce dei raccontatori, correggendo solo qualche 
idiotismo e in un punto o due ravversando un poco il periodo, senza toglier nulla 
allo schietto candore dello stile popolare. 

La prima novella si riferisce alla origine del culto di una immagine della Ver- 
gine so si vuole da tempo remoto protettrice del villaggio di Cigoli, già pro- 
pugnacolo de’ Pisani e dei Samminiatesi nelle guerre del medioevo, e che oggi 
ancor, torreggiando sull’erta cima di un poggio tra la Val d’Evola e il Val d'Arno, 
ricorda col Lido aspetto i castelli descritti dall’Ariosto e dal Walther Scott. 
Questa novella è curiosa soprattutto, perché in nuova, sebbene in rozza e misera 
veste, riproduce la ui leggenda della donna e della moglie perseguitata a 
torto, e salva poi per opera della Madonna. Le altre tre fiabe sono notevoli perché 
appariscono quasi EA intermedio fra la leggenda religiosa e la vera e propria 
novella, e perché ne pongono sott'occhio come i frammenti di uno stesso ciclo 
leggendario intorno ai viaggi di Gesù e di alcuni Apostoli pel mondo, quasi eco 
ultima e stanca delle favole grandiose e multiformi onde sorsero gli Evangeli Apo- 
crifi, tanto ripetuti e commentati sì variamente nel Medioevo. E per discendere a 
qualche particolare, non è senza interesse che in esse s'incontrano Gesù e S. Pietro 
viaggianti in sembianza di vecchi e di mendichi, appunto come Giove e Mercu- 
rio, o come Cerere secondo le favole immortalate DI secondo Inno Omerico, e 
l'episodio di Filemone e Bauci nella Metamorfosi di Ovidio. Del resto il culto 
antichissimo al Crocifisso di S. Miniato al Tedesco, celebre soprattutto durante i 
fervori de” Bianchi e de’ Battuti, spiega la frequente presenza di Gesù e di S. Pie- 
tro nelle novelle del contado Samminiatese, perlochè la fuga mirabile della Ma- 
donna di Cigoli non è in fondo che un’imitazione o riproduzione della fuga non 
meno portentosa dell’immagine di quel Crocifisso, del quale la leggenda risale 


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Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





forse alla prima metà del secolo decimoterzo (nota 1. V. G. Conti, Storia del SS. 
Crocifisso di S. Miniato, e G. Rondoni, Memorie storiche di S. Miniato al Tedesco)”. 
Ecco senz'altro le novelle: 


I 

C'era una volta in Cigoli una donna maritata di poco, e le morivano tutti i 
bambini, mano a mano che partoriva. Il marito disperato giurò di ammazzarla, 
se anche l’ultimo bambino che aveva fatto venisse a morire. Ecco che la bambina 
(perché l’era una bambina) mentre il marito della donna era lontano si ammala, e 
a un tratto muore. La donna, tutta in lacrime, conoscendo vicino il ritorno dello 
sposo, spaventata e fuori di sé, lascia in culla la morticina, e si mette a fuggire ur- 
lando. (Nota 1: altri narra che la donna fuggiva per andarsi ad affogare. La storia 
della Madonna di Cicoli corre anche oggi stampata per le mani dei contadini; ma 
il nostro racconto oftre presumibilmente la versione più antica). Fuggi, fuggi per 
monti e per valli, ecco 1 t'incontra una vecchina che le comanda di tornare su- 
bito indietro, ma la poverina non dà retta, e via. Allora la vecchina ripete: “Torna 
indietro” con gran voce, e dice: “Io sono Maria e la bambina è viva”. La donna 
sbalordita torna a casa, corre alla culla e ti vede la bambina grassa e fiera ridere e 
trastullarsi. Il miracolo si sparse per Cigoli e per tutti i paesi dintorno, e la gente 
pose l’immagine della Nada nel luogo ove alla donna apparì la visione e poi 
vi fabbricarono una cappella, consacrata a Lei ed a S. Rocco. Ma la immagine 
una notte, abbandonato quel posto, andò a stare da per sé nella Pieve, dove oggi 
si trova, e fa grazie a mille. In sul partire la Madonna lasciò detto: 

“Cigoli lungo, S. Rocco e Michele, 

che io son Maria avete a sapere”. 

D’allora in poi ogni anno per la festa della Madonna di Cigoli le mamme 
fanno una gran processione co’ loro bambini in collo, e le burrasche, suonando 
le campane della Pieve, si allontanano subito dal paese. (nota 2. Qualche mito- 
logo, notando che la Vergine che salvò la donna dalla persecuzione, salva dalla 
burrasche anche il paese da Lei favorito e rappresentato qui in certa guisa dalla 
povera Cigolese, potrebbe in questo particolare trovar forse una nuova conferma 
del significato primitivo della celebre leggenda della sposa o della donna infelice, 
che avrebbe appunto, com'è noto, per suo fondamento un mito celeste)”. 


II 


Quando Gesù e S. Pietro andavano accattando pel mondo, passarono da un 
campo, dove i contadini vangavano con gran fatica. Da un pezzo non era piovu- 





76 


La fuga mirabile della Madonna di Cigoli, come gli spostamenti del Crocifisso di Castelvecchio, 
e più in generale la scelta del luogo da parte di un venerato simulacro o di una reliquia, sono un tema 
mitico ricorrente fin dall’antichità. Si diceva godessero dello stesso privilegio, ad esempio, la sacra cintola 
mariana del duomo di Prato (Collin de Plancy, p. 171) e anticamente le statue di Feronia conservate nel 
lucus di Capena sull’antica via Tiberina (Dumezil, pp. 362-363). 

7. Applicato anche al crocifisso di Castelvecchio, quello della divinità che fa cessare (o provoca) i 
temporali e le burrasche, aiutato o meno dal suono delle campane, è un altro tema mitico ricorrente fin 
dall’antichità (Zeus/Giove signore della pioggia. Cfr. Frazer, XV). Molti i santi cristiani cui la voce po- 
polare attribuisce questo potere, assegnandone la gestione ai simulacri che li rappresentano: san Biagio, 
sant Antonio Abate, sant Anna, santa Genoveffa, santa Scolastica, san Medardo 


147 


Rossano Nistri 





to, e la terra era arida e dura, né in cielo apparivano le nuvole, ed il sole abbru- 
ciava la campagna. Gesù, mosso a pietà di quella povera gente, disse: “Poveretti, 
la terra è soda”, e quelli risposero: “Sì, galantuomo; ma noi speriamo in Gesù che 
presto ci manderà l’acqua”. Gesù tutto allegro li benedisse in cuor suo, e andò 
innanzi. Cammina, cammina attraversa prati e monti, e vede un altro campo ed 
altri contadini tutti sudati, che lavoravano con gran fatica. Allora gridò: “Poveret- 
ti, la terra è soda e l’acqua lontana”, ma quelli arditi accennano col dito le nuvole 
che salivano nel cielo e rispondono: “Sì, ma comincia a rannuvolare, e il Lunario, 
che non sbaglia mai, mette presto l’acqua. Coraggio e speriamo bene, e voi, ga- 
lantuomo, non ci venite a rompere il capo con brutti discorsi”. E lo canzonarono 
ben bene. Gesù guardò S. Pietro e gli disse: Questa gente ha più fede nel Lunario 
che in me; vuo castigarli; e seguitò il suo cammino. Ed ecco che mentre là dove 
vangavano i primi cadde ad un tratto un grande acquazzone, senza che prima 
apparissero le nuvole, e rinfrescò la terra e le piante, là dove vangavano i secondi, 
spariti i nuvoloni, il sole splendé più di prima, e la terra doventò sempre più secca 
e più sterile. Tant'è vero che l’uomo deve aver fede in Dio solo. 


II 

Ne’ tempi antichi, quando Gesù e San Pietro andavano pel mondo in forma 
di poveri vecchi, capitarono ad un'osteria (e si dice nelle parti di Cusignano) 
[nota 1. E una parrocchia del Comune di S. Miniato sulle colline della Val di 
Evola], e chiesero di mangiare. L'oste era gobbo e brutto e il Signore guardandolo 
disse piano a San Pietro: “Bada, ecco uno segnato da me”. Dopo mangiato, Gesù 
e S. Pietro chiesero il conto, e il gobbo maligno subito lo fece salire a 50 franchi, 
ma il Signore, senza scuotersi a quel rubamento, tirò di sotto il mantello una 
sacchetta piena di monete d’oro e pagò senza fiatare. L'oste frattanto, sbirciata la 
sacchetta, e persuaso che i due vecchierelli sotto i poveri vestiti nascondessero un 
gran tesoro, preso dall’avarizia, tirata da parte la moglie, le disse: “Hai veduto i 
vecchietti, quante monete hanno in quel sacchetto? Quando saranno andati via, 
vuo’ andare lor dietro, e aspettarli nel bosco e portarglielo via”. Ma Gesù colla sua 
divina sapienza aveva letto nel cuore del ladro, e uscendo, con una scusa, si fece 
seguire da lui per un bel pezzo di strada. Perduta di vista l’osteria, egli ad un tratto 
si ferma, si volta e con un segno della mano fa diventare l’oste un somaro, e se lo 
tira dietro per la cavezza fino alla casa di un tale che teneva gli asini. 

Appena arrivato dà una voce e chiama l’asinaio, e lo prega per amor di Dio a 
custodire quell’asino fin tanto che non fosse ripassato a riprenderlo. “Mettetegli, 
così disse i Signore al guardiano degli asini, sempre soma doppia, e dategli doppie 
bastonate e metà di mangiare”. L’asinaio non intese a sordo; caricava doppia soma 
al poverino, e gli dava sempre una tempesta di legnate. Ma, meraviglia 1% le mera- 
viglie! Mentre gli altri tre ciuchi del nostro galantuomo ben trattati e ben pasciuti 
andavano deperendo a vista, il miracoloso somaro, malgrado i digiuni e la basto- 
nate, andava un giorno più dell'altro doventando sempre più grasso e più lustro di 
pelo. Allora il guardiano pensò di fare un tiro al vecchio che glielo aveva affidato, 
e cioè dare a lui uno dei tre asini secchi, e tenersi il grasso. Un bel giorno eccoti 
il vecchino di ritorno, cioè nostro Signore a richiedere la bestia, e il guardiano, 
dopo averla rimpiattata, facendo lo gnorri gli presentava subito i tre asini magri, 
dicendo: “Dev'essere fra questi, prendetela”; ma Gesù chiamò Poste trasformato 
in ciuco per lo antico suo nome, ed egli pian piano eccotelo uscir fuori dal luogo 


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Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





ov'era rimpiattato, rispondendo con voce umana: “Eccomi quà, son pronto”. Ora 
il Signore, lasciato il perfido asinaio rintontito e confuso, si partì con l’asinello, e 
tornato all’osteria, trovò la donna dell’oste tutta in pianto. Le domanda che abbia, 
e lei, disperata, risponde che ha perduto il marito né sa più dove sia. Gesù, mosso a 
compassione con un segno della mano fa ritornare il somaro nella forma d'uomo, 
e così rende lo sposo alla poverina, dicendo: “Lui ha già scontato il castigo che 
meritò per aver voluto derubbare e mettere in mezzo il Signore. Restate in pace”, e, 
manifestatosi per il vero Dio, tutto ad un tratto sparì. [nota 1. Questa metamorfosi 
fa subito pensare all’Asino celebre di Apuleio, e forse non è senza qualche legame 
con un episodio del Vangelo Arabo, secondo il quale la sacra famiglia fuggendo in 
Egitto trova in un villaggio tre fanciulle in pianto, perché il loro Fatelle era stato 
trasformato in mulo da una maliarda. Gesù lo fa tornare al pristino stato]. 


IV 

Su poggi di S. Quintino [nota 2. È una fattoria nel Comune di S. Miniato, 
sulla cima di un’erta collina.] v'è un podere, e in questo podere una piaggia. Ogni 
anno, nella stagione della raccolta ci si forma una bufera e ci si rovescia una gran- 
dinata spaventosa che distrugge tutta la raccolta, grano, viti, olivi. E un castigo e 
una iii divina per un gran peccato che nei tempi antichi ci fu commes- 
so. Gesù e S. Pietro, poveri e vecchiarelli, se ne andavano pel mondo: cammina e 
cammina, arrivarono su quella collina stracchi e trafelati; li videro i contadini di 
lì, e ammiccandosi, gridarono: “Dàgli, dàgli a quei vecchi accattoni, gabbamon- 
di, scarpatori [nota 3. Si chiamano così i ladruncoli campestri], che vanno in giro 
per le campagne”. E li tirarono terra e sassi e bastonate. S. Pietro si volta allora al 
Signore e gli dice: “Signore, sù, date un bel castigo a questi birbanti”. Ma Gesù, 
con pazienza, continuò piano piano il suo cammino, e rispose: “Lasciali fare, 
in questa piaggia non ci sarà mai bene”. E andò via. D’allora in poi ogni anno 
a raccolta la grandine viene a far vendetta del Signore, e la mortalità distrugge 
anche i bestiami di quel podere [nota 4. Questa novellina si può ricollegare al 
ciclo delle leggende ulfbio Errante, ed ai mitologi può anche apparirne una 
trasformazione lontana]. 


GIUSEPPE RONDONI 


Appendice 2 

Da APPUNTI SOPRA ALCUNE LEGGENDE MEDIEVALI DI PISA, 
DELLA LUNIGIANA E DI S. MINIATO AL TEDESCO 

(Archivio per lo Studio delle Tradizioni Popolari — Rivista trimestrale diretta da 
G. Pitrè e S. Salomone Marino — Volume Sesto, Fascicolo II — Palermo, Luigi Pedoke 
Lauriel, Editore — 1887, $ III, pp. 307-309). 

Sui confini opposti del contado Pisano, là dove sorse la Ròcca di S. Miniato 
al Tedesco, propugnacolo imperiale e poi forte arnese di guerra conteso da Guelfi 
e da Ghibellina ai Pisani e dai Fiorentini; a piè di quel cassero che rammenta 
Federigo II, Pier della Vigna e i vicari del sacro romano impero, sorse durante i 
fervori dei Bianchi, un piccolo Oratorio in onore di un'immagine del Crocifisso, 
che fu palladio di quel piccolo Comune. È un'immagine di Do molto antica 


149 


Rossano Nistri 





e venerata, ma non ne sappiamo la origine, né il tempo, né l’autore. Si narrò e 
si narra infatti dal popolo che due ignoti pellegrini si presentarono un giorno 
ad una devota vecchiarella che aveva Îa sua casuccia proprio sotto il castello, e la 
pregarono di custodire una cassa ben chiusa fino al loro ritorno. Sparvero, né se 
ne intese più nuova. Frattanto nella notte dalla cassa emanavano raggi, talché la 
vecchia annunziò il prodigio ai magistrati, i quali accorsi alla casuccia ed aperta la 
cassa, vi trovarono racchiusa la immagine del Redentore. Inutile aggiungere che 
si ritenne quel simulacro un dono del cielo, e che i due pellegrini La angeli. 
Perlochè si traportò il Crocifisso nel tempio principale, ma non volle starvi, ed 
ogni mattina si ritrovava alle falde del poggio. Onde, costruito con grande divo- 
zione l'Oratorio, ora consacrato alla Vino di Loreto, vi fu venerato fino al 
secolo XVIII, quando venne eretta una nuova chiesa in suo onore. Una proces- 
sione di Bianchi lo recò a Pisa, ove fece non pochi miracoli, guarendo le malattie 
di lunga data, raddrizzando storpi, e riducendo i peccatori al ben vivere. Leggesi 
inoltre in un antico libro manoscritto di Ricordi che il popolo vide uscire dagli oc- 
chi dell'immagine vere e vive lacrime per le colpe degli uomini. Fabbricandosi poi 
l'Oratorio, un certo Niccolò di Maso, richiesto di vendere una casa, che avrebbe 
impedito l’aria alla chiesetta, e ch'era necessario distruggere, si ricusò. Ma la casa 
prodigiosamente rovinò da se stessa, senza offendere alcuno, cosicché il proprie- 
tario ed i suoi congiunti commossi ne rilasciarono il fondo a favore dell'Oratorio, 
[nota 1. La pia tradizione è riferita dal Prop. G. Conti nella sua Storia del SS. 
Crocifisso di S. Miniato; ma è viva ancora nel popolo Samminiatese. Il Libro di 
Ricordi si conserva in S. Miniato, e fu preso in esame dal Prop. G. Conti]. 

Senza uscire di S. Miniato s'incontra un'altra leggenda popolare e filosofica 
ad un tempo. Il Medioevo sta per finire, e in Toscana i Neoplatonici, tanto fra 
gli splendori di Careggi, quanto fra le ombre amene di un boschetto ne’ dintorni 
della nostra cittaduzza, elevano la mente e l'immaginazione nelle dispute loro 
argute e profonde [nota *. E tradizione in S. Miniato che in un boschetto presso 
la città, poco fuori dell’Arco di S. Martino, si adunassero a disputare i Neoplato- 
nici, e talora fra questi anche il Ficino e Lorenzo il Magnifico.]. S. Miniato ebbe 
infatti due filosofi amici del Ficino e del Magnifico Lorenzo, un Mercati ed un 
Morali. Essi tennero lunghe dispute sulla immortalità, e finirono per promettersi 
solennemente che chi di loro morisse pel primo, ne avrebbe, se vera fosse la so- 
pravvivenza delle anime, recata all’altro una prova, apparendogli. Muore uno dei 
due, e mentre l’amico stava a tarda ora di notte immerso nei propri studi, ode 
nella via lo scalpore frettoloso di un cavallo, e la nota voce del compagno che lo 
chiama. Si fa tosto alla finestra, e scorge il defunto che sopra un bianco corsiero, 
softermatosi un poco, esclama: “vera sunt, amice, quae de immortalitate animae 
dixisti”, e quindi scompare. I vecchi Samminiatesi, ai quali fu tramandato il mira- 
bile racconto dai loro antichi, indicano anche la casa ove abitava colui ch’ebbe la 
visione; ma chi ne addita una, e chi un’altra, chi l'antica casa Morali, e chi quella 
Mercati. Il Mamiani tesoreggiò questa veramente poetica leggenda nei Dialoghi 
di Scienza Prima”. 


GIUSEPPE RONDONI 


150 


Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





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151 


Rossano Nistri 





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1885. 

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Comune Medioevale e del suo contado (Siena e l'antico contado Senese), Firen- 
ze, coi tipi di M. Cellini e C., 1886, in Archivio pe lo studio delle Tradizioni 
..: Volume VI, Fascicolo I, pp.123-127, Palermo, Luigi Pedone Lauriel 
Editore, 1887 (a). 

PrrrÈ G. e SALlomoNE-MARINO S. 1887 (a cura), Archivio per lo studio delle Tra- 
dizioni Popolari, Volume VI, Fascicolo II, Palermo, Luigi Pedone Lauriel Edi- 
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giorni 5, 6, 7, 8 settembre dell'anno 1875 nella chiesa dei SS. Michele e Stefano 
in S. Miniato, San Miniato, Stamperia Ristori, 1875. 

RonponI G., Memorie storiche di S. Miniato al Tedesco con documenti inediti e le 
notizie degli illustri Samminiatesi, San Miniato, Tipografia Massimo Ristori, 
1876. 

RonponI G., Alcune fiabe dei contadini di S. Miniato al Tedesco in Toscana in 
PITRE Giuseppe e SALOMONE-MARINO Salvatore (1885). 

RonponI G., Zradizioni popolari e leggende di un Comune Medioevale e del suo 
contado (Siena e l'antico contado Senese), Firenze, Ufficio della Rassegna Nazio- 
nale, coi tipi di M. Cellini e C., 1886. 

RonponI G., Appunti sopra alcune leggende medioevali di Pisa, della Lunigiana 
e di S. Miniato al Tedesco in PITRE Giuseppe e SALOMONE-MARINO 
Salvatore (1887). 

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Firenze, R®. Deputazione Toscana di Storia Patria, 1919. 

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Giornale settimanale La Domenica, dal 19 marzo 1983 al 10 giugno 1984, 
San Miniato, Diocesi di San Miniato. 


152 


Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





TTT = - nc = "i 
© 





Fig. 1: Giuseppe Rondoni (in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, anno II, fascicolo 1-2, fuori 
numerazione di pagina). 


153 


Rossano Nistri 





RICORDO DELLE FESTE 


CELEBRATE IN ONORE 


DI 


MARTA VERGINI DIL SOCCORSO — 


Nei giorni, 5, 6, 7 ed 8 Settembre dell’anno 4375 


NELLA CHIESA 


DEI SS. MICHELE E STEFANO 


Sx MINIATO 


DI 


GIUSEPPE RONDONEK 


ti 


S. MINIATO 


BTAMPERIA RISTORI 


psn 


1875 


Fig. 2: La copertina del Ricordo delle feste celebrate in onore di Maria Vergine del soccorso nei giorni 5, 6, 7, 
8 settembre dell'anno 1875 nella chiesa dei SS. Michele e Stefano in S. Miniato di Giuseppe Rondoni, San 
Miniato, Stamperia Ristori, 1875. 


154 


Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 





GIUSEPPE RONDONI 


PANI Se PR ARNARIANANAA RAI AI 14 Dip ERNIA TISANA AI ARI PAL AANARAARAIATARI ZA 1 ne 


TRADIZIONI POPOLARI E LEGGENDE 


DI 


UNGOMUNE MEDIORVALE E DEL SUO CONTADO 


(SIENA _E L'ANTICO CONTADO SENESE) 


Può credersi che col procedere degli studi 
storici fra noi, concepiti in quella più 
larga mantera ch'è loro propria oggidi, 
molte di queste leggende finora dispre. 
Riate, saranno messe a luce, e accre- 
sciuta così la conoscenza, troppo in- 


sufficiente, che oggi abbiamo di tal 
motivo, 


Comparetti, Ciconio nel Modiocvo 
P.I, pag. 17. 


FIRENZE 
UFFIZIO DELLA RASSEGNA NAZIONALE 
Via Faenza 72 bis 
1886 
COI TIPI DI M. CELLINI E (, 


Fig. 3: Il frontespizio di: Giuseppe Rondoni, Tradizioni popolari e leggende di un Comune Medioevale e 


del suo contado (Siena e l'antico contado Senese), Firenze, Ufficio della Rassegna Nazionale, coi tipi di M. 
Cellini e C., 1886. 


155 


Rossano Nistri 








ALCUNE FIABE DEI CONTADINI 


DI S. MINIATO AL TEDESCO IN TOSCANA. 


[ad 
Te ono quattro novelle assai brevi, ma molto antiche, rac- 
DÒ JE colte nell’ameno e pittoresco circondario di S. Mi- 
[SP969# | niato al Tedesco, nel cuore del Valdarmo di Sotto, 
dalla bocca di due contadini e di una contadina, perchè mi parvero 
non sfornite di qualche importanza per gli studiosi delle tradi- 
zioni popolari. Le bo trascritte tali quali potei udirle dalla viva 
voce dei raccontatori, correggendo solo qualche idiotismo e in 
un punto 0 due ravversando un poco il periodo, senza toglier 
La prima novella si riferisce alla origine del culto di una 
immagine della Vergine che si vuole da tempo remoto protet- 
trice del villaggio di Cigoli, già propugnacolo de' Pisani e dei 
Samminiatesi nelle guerre del medioevo, e che oggi ancora, tor- 
reggiando sull’erta cima di un poggio tra la Val d'Evola e il Val 
d'Arno, ricorda col fantastico aspetto i castelli descritti dall'Ariosto 
e dal Walther Scott. Questa novella è curiosa sopratutto, perchè 
in nuova, sébbete in rozza e misera veste, riproduce la memora- 





Fig. 4: La pagina 367 dell'Archivio po lo Studio delle Tradizioni Popolari — Rivista trimestrale diretta da 
G. Pitrè e S. Salomone Marino — Volume IV. Fascicolo II — Palermo, Luigi Pedone Lauriel, Editore — 1885 
con le fiabe sanminiatesi raccolte da Giuseppe Rondoni. 


156 


Giuseppe Rondoni etnografo. Le leggende medievali e le fiabe 
dei contadini di San Miniato sull’Archivio per lo Studio delle Tradizioni popolari 








APPUNTI 


SOPRA ALCUNE LEGGENDE MEDIOEVALI 


DI PISA, DELLA LUNIGIANA E DI S. MINIATO AL TEDESCO 










1) x Y LtrE le fiorentine e le senesi, sono molto curiose le 
A È leggende medioevali pisane. Si comincia al solito colle 
#29] origini della città. « Ed io come l'ho sentita raccon- 
tare a molti vecchi così dirolla », In tal modo il Roncioni, di- 
ligentissimo storico municipale pisano fiorito tra il sec. XVI e 


La 
N“ 





* Colla persuasione che le leggende e tradizioni pepolari ch'ebbero tanta 
efficacia nella vita dei Comuni Medioevali toscani possano fornire utile argo- 
mento di studio , e che perciò torni necessario distingucre nettamente quelle 
che venute di fuori rimasero soltanto in Toscana, dalle altre che si estesero 
all’intiera nazione, e le regionali indigene dalle locali, sento il dovere d'invo- 
care l'aiuto dei lemori dell'Archivio delle Tradizioni popolari pregandoli a fa- 
vorirmi turte quelle indicazioni che stimeranno più opportune pel mio disegno. 
ln particolare poi si desiderano riscontri o conferme sulle leggende qui ac- 
cemnate 


Archivio per le tradizioni popolari — Vol. VI. x 


Fig. 5: La pagina 307 dell'Archivio per lo studio delle Tradizioni Popolari, Volume VI, Fascicolo II, Paler- 
mo, Luigi Pedone Lauriel Editore, 1887 con le leggende sanminiatesi raccolte da Giuseppe Rondoni. 


157 


Momenti della ricerca in Valdera 
L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 





LORENZO BACCI 


In ricordo di Giuseppe Mostardi e dei giorni in cui il sole sembrava splendere sui 


colli della Valdera 


L'area dei Casalini-Fonte delle Donne occupa una limitata parte dei dolci 
rilievi (m 56 s.l.m.) della zona centro-meridionale dell’attuale Comune di Terric- 
ciola (fig. 1), delimitata a nord dalla Via dei Poggiarelli e dalla località Le Franate; 
tende a raggiungere il lembo pianeggiante percorso dal Botro dei Casalini a sud, 
dove incontra il poggio della Fattoria di Fibbiano per riassumere in modo più 
marcato il suo aspetto collinare. 

La tradizionale e celebre fertilità del suolo terricciolese, sabbioso a nord-est, 
argilloso a sud-ovest, suscitò la curiosità e l’attenzione degli eruditi e cultori 
dell’etruscheria del secolo XVIII' e in vero rappresenta a tutt'oggi la principale 
risorsa economica di questo distretto della provincia pisana, dove quest'area oc- 
cupa un ruolo indubbiamente autorevole. 

Sebbene i contributi del Bruni abbiano conferito la dignitas proprietaria dei 
vicini colli di località Scannicci alla gens volterrana dei Lecu, connotata soprat- 
tutto a carattere iconografico dalla prerogativa sacerdotale’, in virtù degli ultimi 
stadi della ricerca sul territorio di Terricciola tra 2001 e 2003 sembrerebbe op- 
portuno, con le inevitabili cautele che il caso impone, poter aggiungere ulteriori 
elementi conoscitivi per una maggiore comprensione dell’area ed inglobarla nella 
fitta rete degli insediamenti della valle dell'Era, che proprio negli ultimi anni — 
con le indagini archeologiche condotte alle Melorie di Ponsacco? e alla Giuncaio- 
la di Pontedera" — si stanno profilando con maggiore certezza, rivelando sempre 
più un sistema articolato e complesso non esente da cesure. 

La zona summenzionata presenta una certa eterogeneità nelle varie evidenze 
che meriterebbero un'adeguata metodologia d’indagine capace di razionalizzare il 
quantitativo dei dati al momento in possesso, in modo che si possa in futuro far 
collimare con margine più ampio di certezza informazioni che ad oggi risultereb- 





! AA.VV. Cronaca di un restauro, da pieve di Santa Maria a Castrovetere a santuario di Monterosso, 


Pisa-Roma 2000, pp. 18 s. 

2 BRUNI, Valdera, pp. 148 ss. 

3. CIAMPOLTRINI, a cura di, Gli Etruschi della Valdera. Forme dell'insediamento fra VII e V 
secolo a.C., Felici Editore, pp. 39 ss. 

4 CIAMPOLTRINI, Gli Etruschi della Bassa Valdera tra Pisa e Volterra. Prolegomeni all'edizione 
dello scavo della Giuncaiola di Pontedera (2011-2012), Segni dell’Auser, pp. 20 ss. 


159 


Lorenzo Bacci 





be forzato ricondurre ad un'unica tipologia frequentativa. 

In questo quadro il ritrovamento occasionale di un contesto sepolcrale presso I 
Poggiarelli durante gli anni Settanta del secolo scorso, potrebbe qualificare anche 
gli altri ipogei disposti nelle immediate vicinanze de I Casalini come funeribus 
destinata; il più autorevole esempio di questi potrebbe essere, ancora con le con- 
suete accortezze, l’ambiente sotterraneo presente sotto l'abitazione della famiglia 
Campani, che potrebbe apparire come una versione più complessa dell’ipogeo 
n° 10 in proprietà Francone della ‘necropoli’ di Legoli, nel Comune di Peccioli). 

Tra gli altri monumenta presenti vanno segnalati gli unici due cippi funerari 
riconducibili all'area in oggetto: il primo, recuperato in giacitura secondaria a 
seguito di mirate ricognizioni di superficie (Fig. 2 A-B)°, si presenta con deco- 
razione fitomorfa incisa che separa il fusto troncoconico dalla calotta, dove al 
centro si innesta un umbone ben marcato con forti affinità stilistiche anche con 
il cippo II rinvenuto all’interno della tomba scoperta dal priore di Celli Martino 
Gotti nel 1737, dove era ancora collocato, insieme ad un altro cippo, attorno a 
«una piccola arca di marmo con figura sopra il coperchio a foggia di cassetta»; il 
secondo, attualmente disperso, venne ritrovato a ridosso dell’ipogeo a nicchiotto 
soprastante l’attuale stadio comunale, riconducibile alla consueta tipologia clavi- 
forme in marmo, il quale non sembrerebbe discostarsi particolarmente dal gran- 
de signum funerario segnalato dallo scrivente nel 1999 in territorio di Lajatico, 
in località Baloccaia via vicinale per Pietracassa, databile per tipologia fra la tarda 
età arcaica e il V secolo a.C. (Fig. 3 - 4). 

Constatata l'esiguità e l’incertezza pressoché proverbiale della documentazione 
attualmente disponibile sulla Fonte Hl Donne, gli argomenti cui spetta mag- 

iore attenzione sono senza dubbio il contesto, le modalità di ritrovamento della 
‘Testa Campani” e le possibili interpretazioni che potrebbero essere assegnate 
alla fonte vera e propria, connessa con le testimonianze antiche di cui quest'area 
doveva essere foriera. 

Gli affioramenti acquiferi, non sempre ben circoscritti, compresi tra il Botro 
dei Casalini e le propaggini dei poggi della Fattoria di Fibbiano, a cui il popolo 
terricciolese ha sempre voluto assegnare il toponimo di “Fonte delle Donne”, 
sono la risultante di riserve idriche sotterranee a cui andrà aggiunto lo scolo delle 
acque dell’impluvium naturale della collina soprastante, il quale degrada verso la 
“Fonte” e da quella verso il botro di fondovalle. 





©. BRUNI, Legoli, p. 77. 

© Il cippo dei Poggiarelli di Terricciola, sul quale non conosciamo il luogo esatto della giacitura 
primaria, è stato segnalato dallo scrivente nel 2003, e immediatamente recuperato, d’intesa con la So- 
printedenza per i Beni Archeologici per la Toscana e con la collaborazione del Comune di Terricciola, 
con il concorso fondamentale dell'ispettore onorario della SBAT per Terricciola prof. Giuseppe Mostar- 
di; per un'analisi del sig7272 si veda CIAMPOLTRINI, Gli Etruschi di Terricciola, pp. 32 ss. 

7. Sivedala bibliografia riesaminata da ultimo da BRUNI, Legoli, pp. 12 ss. 

8. Il segnacolo, recuperato con la collaborazione del Comune di Lajatico, ed attualmente esposto 
nell’androne del Palazzo Comunale, è stato già in parte analizzato dal dott. Giulio Ciampoltrini; per 
la documentazione ex Archivio Storico Iconografico Gruppo Archeologico Tectiana (in seguito citato 
ASIGAT), Inv. N° 7, tom. I, bust. 43. Per i giorni del recupero del cippo di Lajatico voglio ringraziare 
il prof. Giuseppe Mostardi, l’ex sindaco di Lajatico sig. Paperini, gli amici e collaboratori Alessandro 
Pugliesi e Yvonne Holzeimer. 


160 


Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 





L’immaginario locale e non solo ha sempre riservato a queste acque l’auctoritas 
di rimedio per le donne sprovviste del latte materno; tant'è che il perdurare di 
queste usanze di chiara ascendenza pagana indusse la Santa Inquisizione di Pisa 
a stampare ed emanare un editto datato 2 marzo 1735, «proibente sotto pena di 
scomunica l’usare quelle e simili superstizioni» poiché, citando il Targioni Toz- 
zetti, la fonte offriva «un rimedio presentaneo per le Donne prive di latte, sicché 
appena ne hanno bevuta, se ne ritornano a casa con le mammelle piene di latte», 
tanto da suscitare «certe superstizioni, come d’arrivare per una strada alla sor- 
gente, e partire da essa per un’altra, lasciar denari o roba vicino alla medesima»?. 

L'importanza di questa menzione, che da un lato conferma in maniera pun- 
tuale le numerose testimonianze orali odierne di chi fra la popolazione più an- 
ziana ha ancora vivo il ricordo della pratica, dall'altro attesta il perdurare della 
sopravvivenza di forme di religiosità pagana in Valdera durante tutto l’Evo Mo- 
derno e Contemporaneo. 

Il caso di Terricciola non sembra essere isolato. Mario Giovannelli, nella sua 
Cronistoria dell'antichità e nobiltà di Volterra, nel descrivere le cose “mirabili” delle 
campagne della città etrusca dice: «Hauendo noi raccontato l’Antichità, Nobiltà e 
Bellezza della Città di Volterra, e così conueniente, che narriamo anco le cose ma- 
rauigliose del suo territorio & circostanti paesi, & acciò ordinatamente andiamo 
(seguitando Zaccheria Zacchi Volterrano) prima ci volteremo à tre di quei cinque 
colli, cioè Monte Bradoni, Portone & Ulimeto nequali vede: anzi molt’antichità, 
e Sepolture antiche, & copiosi d’ogni bene; esce alle radici di quest'ultimo Colle 
una Fontana d’acqua di tal maniera, che tutte le cose, che vi sono poste dentro 
fra spazio di quidici giorni di pietra coperte si trouano. 

Poscia quindi à tre miglia in circa demostrasi Nera Villa, ou'è una Fontana 
d’acqua chiara, che beuendone le Donne priue di latte, fra poco tempo molt’ab- 
dii v'è ritornato»!°. 

Potremmo ritenere allora che le caratteristiche miracolose della Fonte delle 
Donne di Terricciola non fossero le sole a richiamare afflussi di popolazione di 
sesso femminile per ovviare al problema dell’allattamento della prole, bensì che 
la specificità delle acque lattarie fosse una consolidata fama vulgaris dell’agro vol- 
terrano. 

In entrambi i casi si potrebbe ricondurre queste pratiche ad antichi retaggi 
mai sopiti del culto della fertilità, spesso strettamente connesso alla dea Diana", 
o forme marcatamente e genuinamente più arcaiche del culto delle acque e delle 
fonti!?. 

L'assenza di contesti stratigrafici sicuri e di indagini sistematiche contribuisce 
a creare lacune assai ampie, nelle quali le testimonianze orali del ritrovamento 
confuso e fortuito della testa fittile di pieno V secolo a.C. (“Testa Campani”) du- 


°.  TARGIONI TOZZETTI, Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, 1, Fi- 
renze 1768, pp. 209 s. ; l’editto citato dal Targioni Tozzetti e da altri autori successivi che riprendono 
certamente la notizia da questo, non è stato finora reperito in nessun archivio parrocchiale, diocesano e 
neanche presso l’Archivio Arcivescovile di Pisa che conserva le carte dell’inquisizione pisana. 

10M. GIOVANNELLI, Cronistoria dell’Antichità e Nobiltà di Volterra, Pisa 1613, p. 59. 

!! Per gli aspetti antropologici del tema si veda J. G. FRAZER, Zhe Golden Bough. A Study in 
Magic and Religion, London 1922, pp. 255-265. 

12 Si veda da ultimo, per il mondo etrusco, L'acqua degli Dei, passim. 


161 


Lorenzo Bacci 





rante l’escavazione delle fondamenta di un annesso agricolo, non contribuiscono 
certo a dipanare incertezze e forti perplessità che il caso impone (Fig. 5). Secondo 
la testimonianza della signora MariaRosa Salvini, che partecipò direttamente ai 
lavori di mezzo scasso dell’area, venne individuata cinquanta centimetri circa sot- 
to il suolo di campagna una fossa terragna di forma rettangolare irregolare taglia- 
ta nel sabbione geologico, in luogo dove una volta trovava spazio una vigna. La 
frettolosità dei lavori indusse i presenti a non preoccuparsi delle numerose classi 
ceramiche che si intravedevano dalla fossa, le quali, sempre dal vivido ricordo 
della Salvini, potrebbero essere classificate come forme vascolari di fabbrica vol- 
terrana, per la maggioranza chiuse, databili tra gli inizi del VI e i primi decenni 
del III secolo a.C! 

Dalla summa dei pochi dati fin qui esposti, ed in virtù della sacralità che 
connotava la Fonte delle Donne fino agli anni Sessanta del XX secolo, il caso del 
deposito votivo di Grotta Lattaia sul Cetona potrebbe aprire un ventaglio di ipo- 
tesi degno di nota!‘, indicando la zona come area ik consacrata alla fertilità. 

Nel contesto della valle dell'Era durante l’età arcaica era già noto il luogo di 
culto collocato presso Sant'Ottaviano a Villamagna, in prossimità del torrente 
Strolla!, mentre per quanto riguarda il III secolo a.C. e la media valle il solo 
esempio conosciuto rimaneva il podere L'Inchiostro di Capannoli dove alcuni 
fittili anatomici recuperati negli anni Trenta del Novecento sembravano indicare 
la pratica di un culto salutare". 

A questi andrà aggiunto ora il culto della Fonte delle Donne a Terricciola, il 
quale potrebbe essere cronologicamente associato all'edificazione del tempio che 
proprio in quegli anni appare nelle vicinanze della riva destra dell'Arno, all’in- 
terno del contesto urbano di Pisae, nel quale sembrano privilegiarsi gli apparati 
decorativi fittili a stampo di importazione dall’Etruria interna e da quella meri- 
dionale17!. 

Sebbene il contesto di Terricciola non sia palesemente urbano, nel racconto 
dell’individuazione fortuita di una fossa rigurgitante di forme ceramiche sembre- 
rebbe scorgere alcuni elementi comuni a molti santuari dell'Etruria Settentriona- 
le, i quali allontanavano col rito del seppellimento gli ex voto all’interno di pozzi 
in disuso o all’interno di fosse terragne appositamente scavate, dove potrebbe aver 
trovato posto e qualificazione il reperto poco fa menzionato, la ‘Testa Campani”, 
che di fatto si pone come ‘oggetto’ (cultuale?) di livello medio-alto nell’ambito 
delle produzioni coroplastiche. 

In assenza di dati capaci di individuare la presenza di tular (confine), alza- 
ti murari di delimitazione della #54 (casa) sacra o cippi di segnalazione dello 
spazio consacrato, la zona dei Casalini-Fonte delle Donne, si potrebbe definire 
ica parvus deo sacratus sine ara (luogo poco esteso, consacrato a un dio senza un 
altare). 

Rimane pertanto da sottoporre ad accurata esegesi le informazioni provenien- 


43 Documentazione in ASIGAT, Inv. N° 1, tom. I, bust. N° 33. 

15 L'acqua degli Dei, pp. 153 ss. (D. MANCONI, G. PAOLUCCI). 
Da ultimo BRUNI, Valdera, pp. 154 ss. 

!° Bibliografia e rassegna in BRUNI, Valdera, pp. 154 ss. 

1 BRUNI, Pisa Etrusca, p. 63. 


162 


Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 





ti dalle limitrofe aree collinari (Scannicci, Le Franate) ed integrare queste con le 
evidenze emerse da località Fonte delle Donne, non soltanto per la continuazio- 
ne della Carta Archeologica Comunale, già intrapresa anche dallo scrivente ma 
arenatasi nel lontano 2005, ma per affrontare con maggiore sicurezza la tematica 
della distribuzione dei poli demici e delle necropoli rupestri ad essi riconducibili. 


I materiali recuperati 

Nel gennaio del 2002 la proprietà Campani, posta nelle immediate vicinanze 
della Fonte delle Donne e luogo del ritrovamento fortuito della fossa terragna di 
probabile destinazione votiva, è stata sottoposta ad attente indagini di superficie. 

Constatato che il piazzale antistante l’annesso agricolo era stato sconvolto du- 
rante la costruzione del precedente da grosse pale meccaniche che avevano depo- 
sitato uno strato di terra di riporto di notevole potenza, l’unico luogo dove era 
ancora possibile condurre una prima ricognizione era solamente l’appezzamento 
di terreno che corre tra il capannone e la strada de I Poggiarelli, dato - anche gli 
spazi interni del fabbricato, sebbene non avessero subito alcun posizionamento 
di piani di calpestio, erano stati accuratamente scavati dai mezzi meccanici sino 
al solido blocco geologico di origine naturale e mai interessato da frequentazioni 
antropiche. Pertanto è stato possibile raccogliere pochissimi frammenti ceramici 
provenienti dall'ultimo terrazzamento confinante con l’annesso agricolo, oltre 
che ai materiali prontamente consegnati dalla famiglia Campani assieme alla testa 
fittile già ricordata!5. 

I reperti raccolti, tutti in ceramica acroma grezza, sono connotati da un cat- 
tivo stato di conservazione causato con ogni probabilità dall'azione meccanica e 
manuale degli scassi e mezzi scassi volti al messa in opera delle fondamenta ce- 
mentizie dell’edificio attiguo; ciò spiegherebbe la presenza di rotture e abrasioni 
non certo recenti. 

Nel complesso il materiale pervenutoci può essere datato tra la fine del IV se- 
colo e i primi decenni del III secolo a.C., riconducibile per tipologia e fase crono- 
logica ai reperti rinvenuti dallo scrivente in località San Piero a Vilica nell’estate 
dd 1995, dove accanto a materiale di tipica produzione volterrana venne raccolto 
anche un piccolo frammento pertinente ad uno skyphos sovradipinto verosimil- 
mente di importazione ceretana, nonché ceramica a vernice nera volterrana e 
numerose scorie ferrose!9. 

Interessante il confronto tra questi materiali e le primissime classi ceramiche 
recuperate dal Gruppo Archeologico Tectiana nell'autunno del 1998 in località 
Le Serre di Peccioli?”, anch'esse riconducibili tra IV e III secolo a.C., grazie alle 

uali venne concentrata l’attenzione per poi dare avvio alle indagini stratigrafiche 
della favissa del santuario di Ortaglia (Peccioli). 

Ceramica acroma grezza 

Ansa a maniglia in ceramica acroma grezza a sezione ovoide innestata su fram- 
mento di parete concava riconducibile a un’anfora. Largh. massima conservata 
cm 13,9, alt. massima cm 6,4; diam. massimo cm 3,25. Colore arancio intenso, 





18 Schedatura in ASIGAT, Inv. 3, tom. I, bust. 3. 
!° Cenni in BRUNI, Valdera, p. 156, nota 97. 
20. S. ADDIS, Peccioli, località Le Serre: primo contributo, in BRUNI, Legoli, pp. 153 ss. 


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Lorenzo Bacci 





argilla poco depurata con numerosi inclusi scistosi di piccole e medie dimensioni, 
inclusi micacei di quarzite e pirite. Trova confronti con esemplari ellenistici di 
Montereggi e Le Serre di Peccioli?!. 

Frammento di parete riconducibile a una forma chiusa, molto probabilmente 
a un’olla di uso domestico. Largh. massima conservata cm 6,1, lungh. massima 
conservata cm 11; alt. massima conservata cm 1,7. La parte esterna presenta 
un impasto color nocciola scuro poco depurato con numerosi inclusi scistosi di 
piccole e medie dimensioni, mentre la parte interna della parete presenta una 
colorazione decisamente arancio. 


Laterizi 

Frammento di ala di tegola, lisciato a stecca. Lungh. massima conservata cm 
14,4; largh. massima conservata cm 13,1; alt. massima conservata cm 2,9. Im- 
pasto depurato color avana con inclusi scistosi di medie e grandi dimensioni di 
detriti fluviali color grigio topo, equamente distribuiti nell'impasto. Micro tracce 
di quarzite. Caio con tipi attestati dallo scavo de Le Serre??. 


Il cippo funerario da località I Poggiarelli 

Provenienza: Terricciola (PI) — località I Poggiarelli. 

Tipo di giacitura: Secondaria. 

Sede Espositiva: Ipogeo del Belvedere di Terricciola (Pisa). 

Misure: 

Diametro Max: cm 28,1 

Altezza Max: cm 91,6 

Altezza Bulbo: cm 14,2 

Altezza Fusto: cm 63,8 

Altezza Calotta: cm 5,7 

Altezza Apice: cm 2,5 

Diametro Apice: cm 5,7 

Misure fascia di decorazione: cm 3,8. 

Descrizione: Marmo bianco a grana fine con patina color giallo ocra, integral- 
mente conservato, provenienza incerta (forse da Loc. “La Croce” di Terricciola) 
recuperato fortuitamente in località I Poggiarelli di Terricciola. 

Bulbo di forma vagamente pentagonale irregolare, sommamente sbozzato e 
con andamento rastremante verso la parte finale; tracce eloquenti di scalpellature 
tra il raccordo del bulbo ed il fusto, eseguite in antico e con cadenzatura regolare. 

Il fusto si presenta di notevolissima fattura tecnica, scevro da scabrosità, così 
come tutto il profilo del segnacolo, perfettamente rastremante verso il bulbo. 

Nella prima porzione di materiale marmoreo (dal cm 14 sino al cm 24) è 
presente una colorazione naturale grigio scuro, colorazione presente in forma 
di macchia isolata in altra zona a se stante del fusto (ampiezza: cm 12,5 x 10,5). 

Si segnala una parte mancante compresa tra l’attaccatura della calotta e lo 
sviluppo del fusto, disposta in senso verticale e di forma irregolare. 





2! L'abitato etrusco di Montereggi, Capraia e Limite 1985, p. 58, fig. 202 (L. ALDERIGHI); AD- 
DIS, art. cit. pp. 157 ss., figg. 15-21. 
22 ADDIS, art. cit., pp. 157 ss. 


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Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 





La calotta appare decisamente bombata e nettamente distinta dalla parte im- 
mediatamente inferiore del cippo, contraddistinta da apice o cacumen, piuttosto 
preminente e di forma conica, e due macchie di medie dimensioni, sempre di 
colore grigio scuro. 

Si segnala la bella decorazione ad excisione che corre lungo tutto lo spazio del 
fusto immediatamente al di sotto della calotta e che caratterizza il manufatto. 

La decorazione del cippo dei “Poggiarelli” ripropone il motivo a foglie d’edera 
stilizzate, già noto per l’area della Valdera, sul cippo proveniente dii chiesa di 
San Sebastiano a Montefoscoli: in questo esemplare però la decorazione fitomor- 
fa è eseguita con la tecnica dell’incisione, per una risoluzione dell’opera meno 
complessa e più economica. 

Nel caso del cippo n° 1 la presenza delle foglie d’edera non solo richiede una 
perizia di esecuzione più lunga e specializzata, ma ad un confronto iconografico 
(non soltanto col segnacolo di Montefoscoli) risulta chiara una maggiore raffina- 
tezza, che sembra avvicinarlo ad esemplari di gusto più urbano, come il grande 
segnacolo in marmo presente nel giardino del Museo Guarnacci di Volterra. 

Larghe parti della decorazione sono rese poco leggibili da calcinazioni naturali 
probabilmente originate da un lungo interramento, mentre piccole parti della 
stessa, ad una prima analisi, sembrano non identificabili a causa di antiche usure, 
dilavamenti, o lunghi periodi di esposizione agli agenti atmosferici. 

Da segnalare alcune abrasioni superficiali e tre profonde abrasioni causate, 
con ogni probabilità, da mezzi meccanici atti all’escavazione dei terreni, per cui 
è ipotizzabile che al momento del rinvenimento il cippo potesse presentarsi in 
posizione originale. 

Nelle rare zone in cui non si è verificato il formarsi della patina giallognola 
suddetta, il segnacolo è composto da marmo bianco a struttura saccaroide. 


L’ipogeo di località Fonte delle Donne 

Tipologia: tomba a nicchiotto 

Proprietà: Comune di Terricciola (Prov. di Pisa) 

Orientamento: N-E - S-O 

Lunghezza originaria: cm 197 

Lunghezza massima: cm 232 

Altezza massima rilevabile: cm 137 

Collocato a quota superiore rispetto allo stadio comunale, in posizione dirim- 
pettaia rispetto al colle della Fattoria di Fibbiano, segnaliamo la presenza di un 
interessante ipogeo a nicchiotto (Fig. 6, 7), dove di fronte era infisso nel terreno 
un cippo claviforme in marmo bianco, andato disperso a seguito dei movimenti 
terra che videro la realizzazione dell’impianto sportivo??. 

L'ipogeo si trova in posizione centrale rispetto a un aggetto di forma vagamen- 
te quadrata del costone di sabbione pleistocenico che sorregge la soprastante Via 
dei Poggiarelli. 

L'accesso alla struttura si presenta in gran parte occluso da un potente strato di 
crollo, in buona parte penetrato anche all’interno del vano originario, determina- 
to dal distacco di parte della volta d’accesso e degli stipiti. 





2. ASIGAT, Testimonianze orali, bust. n° 5. 


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Lorenzo Bacci 





Non sono visibili, allo stato attuale delle conoscenze, opere di regolarizzazione 
d’Età Moderna. 

L'accesso è interessato dalla presenza di erbe infestanti che potrebbero com- 
promettere in futuro la stabilità strutturale dell’ipogeo e dai caratteristici fori 
circolari d’ingresso al nido del Merops Apiaster*. 

La pianta è a forma pressoché quadrata, presentando una larghezza massima 
di m 2,32 e una lunghezza originaria (desunta da ciò che rimane degli stipiti) di 
m 1,97. Le pareti hanno un andamento indicativamente regolare e solamente gli 
angoli interni si presentano più curvilinei, a causa del disfacimento del sabbione. 

Nella parete di fondo in prossimità dell'angolo con la parete ovest, a quota 
superiore è ricavata una nicchia quadrangolare irregolare di scarsa profondità, 
i cui lati, andando in senso circolare partendo dall'alto, presentano la misura 
di cm 35, cm 40, cm 40 e cm 38, andando a ripetere su scala ridotta la pianta 
dell’ipogeo stesso. 

La copertura è a volta centinata, lievemente fratturata al centro in senso or- 
togonale e interessata dal consueto fenomeno di spolvero del sabbione, per altro 
esteso anche a buona parte della superficie interna verticale di tutto il vano ipo- 
geo. 

Il potente strato a matrice sabbiosa, di colore giallo, che occlude l’accesso e 
copre anche il piano di calpestio, non ha permesso di analizzare quest'ultimo, 
rendendo impossibile la misurazione dell’altezza totale della struttura. 

Tra l’angolare est, l’unghiatura della volta soprastante e parte della parete di 
fondo è conservata una porzione del profilo originario dell’ipogeo, non essendo 
interessato al fenomeno dello spolvero e dalle azioni animali sn si possono os- 
servare invece su buona parte del perimetro inferiore. 

Questo lacerto lascia vedere una superficie di colore biancastro accuratamente 
lisciata, molto regolare, e un angolo vivo e definito tra la parete di fondo e la 
parete est. Dans è rimarcato da piccoli ritocchi di scalpello a punta sottile che 
vanno a creare un effetto chiaroscurale volutamente eseguito: l'aspetto della tom- 
ba, al di là della semplicità di insieme, doveva presentarsi dignitoso. 

La volta centinata trova confronti con l’ipogeo di Via di Castello in proprietà 
Lisi del complesso di Legoli?. 

L'ipogeo di Fonte delle Donne presenta forti affinità tipologiche con la tomba 
dell’area della Pieve di San Martino a Palaia? e con la tomba C della Necropoli 
del Portone di Volterra?” (con quest'ultima struttura tombale i dati dimensionali 
sono pressoché equivalenti). 


Il cippo de I Poggiarelli si inserisce fo nella tipologia morfologica 
già nota grazie agli esemplari di Montefoscoli, Volterra - Museo Guarnacci e Celli 


2. Volgarmente noto come Gruccione, uccello della specie dei meropidi purtroppo divenuto mol- 


to raro. 

25. S. ADDIS, Materiali per una carta archeologica di Legoli: le ricerche dell'estate del 1997, pp. 63- 
64, in BRUNI, Legoli, op. cit. 

26. Appunti per la storia del popolamento etrusco nel territorio di Palaia, pp. 23 ss. (BRUNI), in, 
Palaia e il suo territorio fra antichità e medioevo, Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 1999. 

27. M. CRISTOFANI, Volterra. Tombe ellenistiche nella necropoli del portone, pp. 256 ss., 
1973. 


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Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 





di Peccioli, che gli studi condotti dalla Bonamici?* hanno permesso di accomuna- 
re grazie alla decorazione cuoriforme del fogliame d’edera parzialmente sovrap- 
poste e sinistrorse (escluso il caso di Celli) e alla presenza della calotta bombata 
sulla quale si innesta l’umbone più o meno marcato, alla classificazione elaborata 
da Ciampoltrini, nella fattispecie il tipo B/1°?°, e di poterli datare con margini 
ampi di sicurezza alla fine del VI secolo:a, GC.” 

La documentazione materiale offerta, congiuntamente a quella nota dal vi- 
cino colle di Scannicci da dove è noto un affioramento di laterizi e ceramiche 
databili fra VI e V secolo a.C.#, chiarisce in parte le dinamiche degli insediamen- 
ti d’altura egemoni già timidamente emersi tra villanoviano ed orientalizzante, 
come dimostra il caso ben documentato della Montacchita?. 

Anche le poche ceramiche attestate, assieme alle strutture ipogee dell’area 
(sebbene queste risultino di non chiara lettura), databili come abbiamo visto tra 
IV e III secolo a.C., confermerebbero l'apparente silenzio avvenuto dopo l’età 
classica e il nuovo rigoglio, abitativo e della cultura materiale, che viene in esse- 
re con gli inizi dell’ellenismo e che trova in Volterra il suo principale motore e 
coordinamento, tanto da poter delineare abbastanza chiaramente una ‘Valdera 
volterrana’ circoscritta a metà della valle, sulla linea che unisce Peccioli, Terric- 
ciola e Chianni. 

A questo proposito i materiali emersi nella tarda primavera del 2014 da una 
sezione naturale del costone dove trova spazio l’attuale cimitero comunale di 
Terricciola assumono ulteriore significato. 

Sebbene non sia stato possibile indagare quanto da me segnalato agli organi 
competenti poiché lo strato dal quale provenivano i reperti si insinuava al di sotto 
del muro di recinzione del cimitero, è stata documentata una sezione di colore 
grigio, con andamento orizzontale, caratterizzata dalla presenza di una porzione 
con forma a ‘V’, tale da poter essere identificato come iP fossato che circoscriveva 
un abitato posto immediatamente a quota superiore, come del resto la collinetta 
cimiteriale permetterebbe. 

I materiali raccolti, di cui attendiamo uno studio particolareggiato, erano 
composti da ceramiche grezze da mensa, frammenti di dolia, tegole da copertura 
e frammenti di anforacei da trasporto che ad una prima analisi si presentavano 
coevi ai materiali rinvenuti tanto in località Fonte delle Donne quanto in località 
Le Serre di Peccioli. 

L'egemonia volterrana, piuttosto aperta in questo territorio agli scambi e alle 
influenze di Pisae®, si concretizza con la presenza di una classe privilegiata che 
non appare inferiore nei consumi materiali e negli orizzonti culturali da quella 





28. M. BONAMICI, Nuovi monumenti di marmo dall’Etruria settentrionale, in ‘Archeologia Clas- 
sica’, 43, 1991, pp. 795 ss., in particolare pp. 797, figg. 1-2. 

® CIAMPOLTRINI, Cippi, p. 77. 

30. CIAMPOLTRINI, Gli Etruschi di Terricciola, pp. 27 ss. 

3 CIAMPOLTRINI, Gli Etruschi di Terricciola, op. cit. p. 29. 

3 L'insediamento di Montacchita di Palaia, pp. 17 ss. (G. CIAMPOLTRINI - M. BALDASSARRI), 
in Gli Etruschi della Valdera, Felici Editore 2006. 

3 Si veda per esempio il vicino abitato di località Tegolaia presso Santo Pietro Belvedere nel 
Comune di Capannoli dove la presenza di buccheroidi di tipo pisano risulta molto alta, bibliografia e 
rassegna in BRUNI, Va/dera, p. 130, nota 3. 


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Lorenzo Bacci 





urbana di Velatrhi*, e che sembra estesa e ramificata sul territorio anche grazie 
alla presenza di numerosi clientes di condizione economica agiata, tanto che allo 
stadio attuale degli studi le due compagini sociali sul territorio possono apparire, 
in alcuni casi, difficilmente distinguibili in modo netto, come il recente e straor- 
dinario rinvenimento di due coperchi di urne cinerarie da Casanova di Terriccio- 
la sembra accentuare”. 


Prime attestazioni archivistiche della Fattoria di Fibbiano 

Il solido podere a pianta rettangolare che sovrasta la collina delle Fonte delle 
Donne lo troviamo sotto il toponimo di ‘Fibbiano’, come del resto ancora oggi, 
sotto il toponimo di ‘Fibbiano’ nei fogli del Catasto Leopoldino Ferdinandeo, 
riportato fa le proprietà della famiglia nobile pisana dei Gherardi del Testa. 

Ancora oggi lo stemma gentilizio in ghisa, conservato dopo i restauri dell’im- 
mobile, testimonia la proprietà, ma non conosciamo, allo stato attuale, quando 
l’edificio e gli appezzamenti di terreno ad esso pertinenti vennero acquistati dalla 
famiglia. 

Ad una prima analisi autoptica risultano evidenti diverse fasi costruttive: alcu- 
ne parti infatti si appoggiano chiaramente a nuclei più antichi, a dimostrazione 
dell’accrescimento costante del fabbricato: queste alterne fasi edilizie possono es- 
sere collegate, molto probabilmente, alla crescita demografica che interessa anche 
il territorio di Terriciola tra la metà del Settecento e la metà del secolo successivo?” 
e specificatamente all'incremento dei coloni che abitavano la fattoria, che almeno 
dal terzo decennio del secolo XVIII risultano essere tutti della famiglia Salvini di 
Terricciola”. 

La menzione archivistica recentemente rinvenuta retrodata fortemente l’origi- 
ne della fattoria e di parti dell’edificio stesso al XVI secolo. In effetti l'ala nord-est 
è caratterizzata al pian terreno da un grande vano di forma quadrangolare, scan- 
dito al suo interno da possenti ed eleganti colonne tuscaniche in pietra serena, 
sulle quali si innestano ampi archi in laterizi di evocazione Cinquecentesca. 

Dalla consultazione dell’estimo della comunità di Terricciola, realizzato nel 
dicembre del 1560, risulta che il cittadino pisano Agostino di Francesco Artimi- 
ni possedeva una casa da lavoratore ‘con colombaia' in luogo detto ‘alla serra di 
fibbiano (Fig. 8). 

Assieme alla casa sono descritti anche numerosi appezzamenti di terreno di 
diversa natura (sodo, ulivato, boscato, vignato) che contribuiscono a descrivere 
una fattoria piuttosto estesa e differenziata nelle modalità di coltivazione del- 
la terra, dove la vigna sembra essere stata una parte piuttosto significativa della 
proprietà, che comunque nel suo complesso venne valutata l'interessante cifra di 





3. CIAMPOLTRINI, Gli Etruschi di Terricciola, pp. 31 ss. 

5. Segnalazione di Lorenzo Bacci del dicembre 2014 conservata anche presso l'archivio della On- 
lus Le Città Sotterranee, Posta in Uscita, tomo I, prot. n° 02; Bollettino della Soprintendenza Archeologica 
della Toscana. 

36. G. MARITI, Odeporico ossia Itinerario per le Colline Pisane. Terricciola, Morona, Chianni, Rival- 
to castelli dell'Alta Valdera, (a cura di BENOZZO GIANETTI), CLD Libri 2001, p. 150; E. REPETTI, 
Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, Firenze 1855. 

37. ASIGAT, Testimonianze orali, Tom. I, bust. n° 3. 

38. ASP, Fiumi e Fossi, 17, n° 2235, c. 231 v. 


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Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 





1453 scudi e VD, 

Gli asciutti dati estimali appena citati aprono in realtà nuovi squarci prospet- 
tici sulla storia agraria di uno dei distretti pisani che maggiormente si connota per 
l'economia cl e vitivicola. 

Le considerazioni a suo tempo espresse circa la non eccessiva diffusione della 
coltura della vite a Terricciola fra XI e XVIII secolo trovano ulteriore conferma 
dalla consultazione integrale dell’estimo del 1560, per essere ulteriormente con- 
fermate con lo studio degli estimi successivi, ovvero quelli realizzati nel 1580 e 
nel 1620. 

Ancora una volta possiamo affermare che siamo di fronte ad una anoma- 
lia della diffusione della piccola e media proprietà rispetto alle aree contermini: 
quasi tutti gli abitanti infatti possedevano un appezzamento di terreno, sebbene 
spesso di dimensioni modeste e non pochi erano anche i proprietari delle abita- 
zioni in cui vivevano. 

Ma i piccoli proprietari concentravano i propri sforzi lavorativi ed economici 
soprattutto sulla coltivazione del grano e dell'ulivo, tanto da essere gli aspetti 
preponderanti dell'economia locale, come ebbe da osservare il Mariti ancora sullo 
scorcio finale del Settecento"9. 

Accanto a questo sistema economico però ne conviveva un altro, di dimensio- 
ni meno appariscenti ma egualmente significativo per altri aspetti: il ceto magna- 
tizio, massimamente pisano e fiorentino, tendeva a produrre vino dalle vigne di 
Terricciola, contribuendo forse, tramite i loro cantinieri, a diffondere sempre più 
e sempre più progressivamente le loro conoscenze tecnico-agrarie che pian piano 
si radicarono nel sostrato culturale anche del popolo basso locale. 

Solamente con le riforme agrarie lorenesi della prima metà del Settecento“! 
quest'area vedrà una diffusione sempre più cospicua della vite, per arrivare a 
toccare punte altissime nell'Ottocento e nel Novecento, anche sotto il profilo 
dell’innovazione tecnologica e della cura delle patologie. 

Un caso ben diverso invece è rappresentato dalla vicina Morrona, dove risulta 
molto evidente (stando ancora una volta alla consultazione degli estimi del Cin- 
quecento e del Seicento) la capillare diffusione della coltivazione della vite e della 
produzione del vino, soprattutto da parte dei piccoli proprietari locali, sebbene 
anche in questa comunità molti appezzamenti di terra siano di proprietà dei Pitti 
e dei Ciacchi di Firenze”. 


Le menzioni della Fonte delle Donne nella carta stampata tra la metà del 
Settecento e i primi del Novecento 

È merito di Giovanni Targioni Tozzetti inserire per la prima volta all’interno 
delle produzioni scritte la menzione della Fonte, non tradendo i suoi interessi 
eclettici di matrice squisitamente erudita, tipica del XVIII secolo e che vedrà un 





39. ASP, Fiumi e Fossi, 17, n° 2235, c. 238 v. 

4° G. MARITI, Odeporico ossia itinerario per le Colline Pisane. Agricoltura, Botanica, Minerali, 
Fossili INDICE GENERALE, (a cura di B. GIANETTI), CLD Libri 2004, pp. 53 ss. 

iL. BACCI, Il Complesso degli Ipogei di Terricciola — Analisi di un sito pluristratificato, CLD Libri 
2018, Vol. I, pp. 131-138. 

4. L. BACCI, Morrona nella metà del Cinquecento. Contributi per la storia della comunità, CLD 
Libri 2020, p. 10. 


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Lorenzo Bacci 





valente prosecutore pochi decenni più tardi in Giovanni Mariti, il quale però 
stranamente tace sulla Fonte delle Donne di Terricciola nelle pagine del suo Ode- 
porico. 

Grazie al Targioni Tozzetti conosciamo l’esistenza di un editto emanato 
dall’Inquisizione pisana nel 1735 per frenare le pratiche pagane che si svolgevano 
attorno alla fonte, ma come già accennato la ricerca del prezioso documento fino 
ad oggi è risultata vana. 

Le parole dell'autore per altro non lasciano dubbio alcuno sui rapporti episto- 
lari intercorsi fra lui e l’arciprete Orazio Giovanelli, come si evince chiaramente 
in altre parti della sua opera. Anche per la Fonte delle Donne capiamo che il colto 
ecclesiastico fu il dispensatore di una mole di preziose informazioni sul territorio: 
«Nel Comune di Terricciola, lontano un i. in circa da essa, in luogo detto il 
Castagno, è una sorgente di acqua bianca come quella della Perla, che descriverò 
in parlando dei Bagni a Morba, ma fredda, la quale è, come dice il Sig. Arciprete, 
un rimedio presentaneo per le Donne prive di Latte, sicché appena ne hanno 
bevuta, se ne ritornano a casa colle mammelle piene di latte; ma perché usavano 
certe superstizioni, come d’arrivare per una strada alla sorgente, e partire da essa 
per un’altra, lasciar denari o roba vicino alla medesima ec. fu pubblicato nei 2. 
Marzo 1735. un Editto stampato dalla Sagra Inquisizione di Pisa, proibente sotto 
pena di scomunica l’usare quelle e simili superstizioni.»*9. 

È curiosa invece l’esplicita ambientazione di una novella uscita dall’abile pen- 
na di Bino Sanminiatelli (1896-1984) che troviamo nella sua opera letteraria ‘Le 
pecore pazze“: il titolo, ‘La fonte del latte’ non lascia dubbi circa lo svolgimento 
del cuore della narrazione presso la Fonte delle Donne di Terricciola, così come 
quando scrive «Sulla via di Laiatico, sul mezzogiorno, d’agosto, pareva alitassero 
le vampe di una fornace». 

I due protagonisti della novella, il sempliciotto Poldino e il Ballotta, mentre 
percorrevano la Via Volterrana in direzione di Lajatico, colti dall’arsura estiva, 
sentirono da una vicina valle il rumore dell’acqua che scorre; così il più avveduto 
dei due, il Ballotta, lascia momentaneamente sulla strada il compagno di viaggio 
per abbeverarsi, ma poco dopo comincia ad avvertire una strana sensazione al 
petto. In quel momento rammenta una vecchia storia narrata ai paesani da un 
tale Brucione, che ricordava spesso nelle veglie una vecchia tradizione che diceva 
che esistesse in quei luoghi una sorgente d’acqua usata dalle donne per farsi veni- 
re in abbondanza il latte materno. 

L'epilogo si svolge chiaramente con un niente di fatto, se non che il Ballotta, 
per allontanarsi almeno una notte dalla perfida moglie, decide di fingere i sintomi 
del latte al petto e nascondersi dal pubblico dileggio. 

La breve novella viene qui utilizzata non ve per descrivere in maniera 
fresca i molti risvolti della vita contadina, ma anche per dissacrare in maniera 
comica e audace quella che veniva avvertita come una antichissima tradizione, 
ma al contempo frutto della più bieca ignoranza popolare. 





4. G. TARGIONI TOZZETTI, Relazioni, op. cit. p. 210. 
44 B. SANMINIATELLI, Le pecore pazze, (prefazione di EF PAOLIERI), Vallecchi Editore, Firen- 
ze 1920, pp. 51-52. 


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Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 





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CIAMPOLTRINI G., BALDASSARRI M., L'insediamento di Montacchita di Palaia, 
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Abbreviazioni 


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ASIGAT, Archivio Storico Iconografico Gruppo Archeologico Tectiana (poi 
confluito presso l'Archivio Lorenzo Bacci). 

APT, Archivio Parrocchiale Terricciola. 


172 


Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 








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Fig. 1: Località contormini alla Fonte delle Donne, con la localizzazione dei principali ritrovamenti 
archeologici effettiati tra XVIII e XXI secolo. 


173 


Lorenzo Bacci 








Fig. 2: Tavola dei cippi funerari claviformi della Valdera. Le immagini A e B sono relative al cippo da 
località I Poggiarelli di Terricciola. 


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Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 








Fig. 3: Cippo funerario claviforme da località Baloccaia di Lajatico in corso di scavo. 


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Lorenzo Bacci 








Fig. 4: Cippo funerario da località Baloccaia esposto nell’androne del Palazzo Comunale di Lajatico. 


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Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 








Fig. 5: Testa Campani, da località I Casalini — Fonte delle Donne (V secolo a.C.). 


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Lorenzo Bacci 








Fig. 7: Ipogeo di Fonte delle Donne — particolare dell'interno. 


178 


Momenti della ricerca in Valdera. L'area di Fonte delle Donne di Terricciola: 
dalla documentazione archeologica a quella archivistica 








Fig. 8: ASP, Fiumi e Fossi, 17, n° 2235 — Fibbiano. 


179 


La Strada etrusca del Ferro, 
la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 


GIUSEPPE A. CENTAURO 


Premessa 

Nel complesso sistema viario peninsulare del microcosmo etrusco è stata 
avanzata da tempo l’ipotesi dell’esistenza di una strada transappennica del ferro, 
una ‘via direttissima’ che non fosse cioè un semplice tratturo tra i tanti ma bensì 
un'’arteria strategica di collegamento rapido per il trasporto delle merci dal Mar 
Tirreno all’Adriatico e viceversa. Con gli ultimi rilevamenti terrestri questa ipo- 
tesi è stata confermata da ulteriori indizi e ritrovamenti. Un'analisi mirata degli 
avvenimenti storici e nuovi studi corroborati da recenti evidenze lie 
ne dimostrano infatti la reale presenza in un contesto ambientale di straordinaria 
rilevanza paesaggistica. D'altronde la capacità progettuale degli Etruschi nell’or- 
ganizzazione dei territori occupati pone la civiltà etrusca tra le più evolute del 
mondo antico, nel campo delle bonifiche agrarie, delle infrastrutture viarie, dei 
commerci, come puree dello sfruttamento delle risorse naturali (minerarie e agro- 
forestali) (Preti 2018b). 

La loro profonda conoscenza dei morfotipi ambientali esistenti negli assetti 
orografici, nella conduzione di perlustrazioni geologiche, nello studio dei siste- 
mi delle acque derivava da una atavica sapienza affinata nel progetto dall’analisi 
accurata del 7emplum Celeste in terris (materia antesignana della moderna co- 
smologia). Questi saperi, trasmessi oralmente da una generazione all’altra dalle 
caste sacerdotali, sono stati incrementati e progressivamente applicati per la pia- 
nificazione dell’habitat fin dal VIII-VII sac. Infatti, come è stato recentemente 
dimostrato, gli Etruschi, sono stati in grado di modellare i territori rispettando 
una precisa struttura matematica, basata su relazioni numeriche e geometrie trat- 
te dallo studio dell’Universo, replicando sulla terra, come già fecero gli Egizi e le 
più antiche civiltà mesopotamiche, i rapporti esistenti, la distribuzione e l’ordi- 
namento della composizione astrale che stava alla base della loro concezione del 
sacro. Non a caso si descrivono le ritualità introdotte per dar corpo al progetto di 
città e architettonico come di regole facenti capo alla “geografia sacra” (Feo 2006) 
nelle forme della cosiddetta “teopianificazione” (Preti 20180). 

Gli architetti e costruttori romani saranno profondamente debitori verso gli 
Etruschi, proprio in ordine alla capacità di strutturare i territori, erigere basiliche, 
fare acquedotti ecc. 

La ricerca qui presentata come protagonista della narrazione prende le mosse 
oltreché dalle acquisizioni archeologiche e dagli sviluppi recenti dell’etruscologia, 
da queste nuove attribuzioni a da riscontri diretti condotti nei luoghi 
oggetto degli studi, come quello dedicato alla ricostruzione della grande arteria 
stradale che, tra il VI e V sac, gli Etruschi realizzarono per collegare le coste tirre- 
niche a quelle adriatiche (Centauro 2018b). 


181 


Giuseppe A. Centauro 





L'incipit 

Lo sviluppo della “Lega etrusca”, ricordata da Strabone, instaurata fra le “città- 
stato” dell'Etruria culminò soprattutto nel periodo etrusco arcaico (compreso 
all'incirca tra il 580 e il 480 a.C.) con l'egemonia politica delle Dodecapoli co- 
stituitesi sul modello Ionico (Asia Minore) anche nelle regioni italiche, dalla foce 
del Sele al delta del Po ed oltre. A questa organizzazione territoriale fece seguito 
il consolidarsi di nuove aggregazioni di tipo metropolitano, derivanti da sempre 
più incisive relazioni mercantili intercorse tra questi insediamenti federati. Que- 
sta rivoluzione coincise con la trasformazione in senso oligarchico delle antiche 
caste regali, dalle prime talassocrazie che da oltre un millennio governavano dal 
Mar Egeo al Tirreno superiore fino alle coste più occidentali del Mediterraneo. 
Una rivoluzione sociale quella iniziata dai popoli dell'Etruria che sarebbe sfociata 
a Roma, nel 509, con la cacciata di Tarquinio il Superbo, e il legittimarsi della 
Repubblica e ad Atene, tra il 510 e 507, con il definitivo abbattimento della ti- 
rannide e il restauro in senso democratico della costituzione di Solone. 

Per quanto riguarda l’Etruria Settentrionale e quella Padana, si avviano in 
quello stesso periodo, sospinti anche da conflitti esiziali che minavano la sicurez- 
za nei traffici marittimi, processi di infrastrutturazione dei territori interni che, 
oggi, alla luce di quanto poi la storia evidenzierà, potremmo considerare come 
l'incipit della formazione dell'Europa continentale. 

Il potenziamento del reticolo viario esistente e la creazione di un nuovo col- 
legamento veloce che unisse il Mar Tirreno con l'Adriatico e le maggiori città 
peninsulari furono i punti di forza di questo cambiamento epocale. 

Per scoprire il fascino autentico della storia di queste remote origini e l’evoca- 
tiva bellezza delle terre di qua e di là dell'Appennino nei domini settentrionali dei 
Rasenna, la ricostruzione del tracciato della grande via carrareccia che da Pisa a 
Spina conduceva in celere transito (tre giorni di percorrenza su carro) ci fornisce 
la principale chiave di lettura. Si tratta dunque di uno studio in grado di svelare 
l'essenza del grandioso progetto attuato dalle élites etrusche in un breve lasso di 
tempo, di certo compreso tra l’ultimo quarto del VI e il principio del V sac. 

Questa arteria non poteva che essere la mitica strada del Ferro che univa le ter- 
re dell'Etruria tirrenica a quelle dell'Etruria padana, citata nel papiro Xx6Aakog 
Kapvavdéoc Iepimiove tOv EKTòg TOv ‘HpaxAXgovs otmnA@v («Periplo ester- 
no delle colonne di Eracle»), noto fin dal ‘600 agli studiosi come Periplo dello 
Pseudo-Scilace, in ragione di una pseudoepigrafia (v. Codice Parisinus 443) che 
riprendendo dalle «Storie» di Lo rimandava al suo possibile autore, Scilace 
di Carianda, navigatore greco che per Dario I di Persia affrontò esplorazioni alle 
foci dell’Indo e condusse il giro del Mediterraneo fino alle colonne d'Ercole. 

La presenza di questa strada, ritenuta leggendaria, faceva parte di un grande 
mito dell’antichità fino a quando, nel 2004, Michelangelo Zecchini a conclusio- 
ne di scavi condotti con Giulio Ciampoltrini in località «Casa del Lupo» (nella 
frazione ‘Al Frizzone’ del Comune di Capannori) intuì che potesse trattarsi della 
ricercata “Via etrusca del Ferro”. (Fig. 1) 

L'accertamento archeologico della datazione collocava la strada tra il VI e il 
V sac., come evidenziato dalla presenza nell’inghiaiata di chiodi caduti da cerchi 
di ruota dall’inequivocabile fattura, nonché da altri reperti ceramici tardoarcaici 
rinvenuti in stratigrafia che ne denunciavano un utilizzo fino alla metà del IV 


sac. (Fig. 2) 


182 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 





L'ampiezza della via del Frizzone indicava poi che quella via etrusca glareata 
era deputata al passaggio in contemporanea di due carri con carichi piuttosto 
pesanti, a giudicare dalla profondità dei solchi lasciati dalle ruote. Inoltre, l’allet- 
tamento profondo, solido e ben ordinato, il tracciamento rettilineo, costipato e 
ben drenato caratterizzavano un tipo costruttivo del tutto originale e ben ricono- 
scibile per la sua specifica funzionalità, dettata dalle esigenze di un transito caro- 
vaniero di merci e materiali di cava. Il vicino sinus portuale di Pisa e la presenza 
di masse spugnose di ferro e scorie confermavano la speciale funzione di quella 
strada e la più che probabile provenienza dei carichi dagli scali elbani. Per un 
certo tratto la glareata correva parallela al corso del fiume Serchio (Fig. 3) 


La testimonianza dell’archeologo Michelangelo Zecchini (mia intervista 
del 2013) 

D.: Prof. Zecchini, ci può raccontare come è avvenuta la scoperta della glare- 
ata etrusca del Frizzone? 

R.: In località ‘Al Frizzone”, nella primavera del 2004, un gruppo di archeologi 
e architetti guidati da chi scrive ebbe la fortuna di notare poche pietre di arenaria 
in situ, a contatto con le quali c'erano frammenti di ceramica etrusca tardoarcaica 
a scisti microclastici. L’allargamento dello scavo fece il resto. L'indizio decisivo 
verso la giusta interpretazione si presentò con la comparsa di profondi segni la- 
sciati dal ripetuto passaggio di ruote di carri in due conci di arenaria (Fig. 4). 
Non fu altrettanto facile far cadere i dubbi sulla paternità ‘culturale’ del manufat- 
to, anche perché allora era quantomeno temerario parlare della presenza di una 
grande glareata etrusca in un’area considerata da molti studiosi come ligure 0, 
nel migliore dei casi, come ‘etruscoide’. Poi, dopo due mesi di verifiche, le riserve 
furono sciolte e fu annunciato formalmente (ndr.: la presentazione avvenne alla 
presenza del ministro per i Beni Culturali Giuliano Urbani, del prof. Salvatore 
Settis direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa e del dott. Angelo Bottini 
soprintendente per i Beni Archeologici della Toscana) il ritrovamento di un tratto 
notevole (i saggi effettuati coprono in linea retta circa 200 metri) di un'arteria 
stradale etrusca affatto inattesa per ubicazione, per imponenza (oltre cinque me- 
tri di larghezza massima) e per cronologia (500 a. C. o poco dopo). Non meno 
inattesa è la tecnica costruttiva che, in assenza di crepidines, Nor in ogni modo 
un'ampiezza tale da permettere il passaggio agevole di due carri. 

D.: Prof. Zecchini, quali altre lu. o ulteriori precisazioni, si pos- 
sono fare in merito al ritrovamento di questa grande arteria etrusca che pare allu- 
dere al trasporto con carri di carichi pesanti legati allo sfruttamento delle risorse 
minerarie elbane? 

R.: In effetti, in attesa di ulteriori avanzamenti negli studi e nelle ricerche 
archeologiche opportunamente da proseguire, da quanto è stato messo in luce 
con gli scavi ‘Al Frizzone si possono già trarre alcune considerazioni ed altre op- 
portune precisazioni: 

La scoperta della glareata etrusca permette di comprendere agiatezza e accu- 
muli di ricchezza che traspaiono dall’analisi dei siti archeologici coevi: esemplare, 
a tale proposito, è la citata tomba muliebre del Rio Ralletta di Capannori. 

Il ritrovamento di scorie di ferro negli insediamenti di Romito di Pozzuolo e 
Fossanera ‘A’ (Zecchini 1999), ubicati lungo la direttrice della strada, fa supporre 
che il trasporto di ferro e minerali giocasse un ruolo non secondario. 


183 


Giuseppe A. Centauro 





I profondi solchi presenti sul selciato indiziano, al contempo, una durata non 
effimera e il passaggio di carri pesanti. Il fatto che quattro saggi di scavo, effettuati 
a distanza l'uno die si trovino in linea retta, conduce all’ipotesi, plausibile, 
che altri ed estesi tratti possano essere localizzati, peraltro con una certa facilità 
essendo l’area non urbanizzata. Ciò consentirebbe di rinsaldare la tesi secondo la 
quale ‘Al Frizzone’ di Capannori sarebbe stata individuata l'arteria dei due mari 
(Tirreno-Adriatico) ricordata nel suo «Periplo del Mediterraneo» dallo storico e 
geografo Scilace di Carianda, attivo fra la fine del VI e gli inizi del V secolo a. 
C.. Il passo che nomina Pisa e Spina ad avviso di molti specialisti va riferito alla 
seconda metà del IV secolo a. C. 

La stratificata carreggiata stradale — che oggi appare sconvolta a causa delle 
‘botte’ subite dalle trasgressioni dell’Auser (ndr: fiume Serchio) — doveva essere 
molto solida e di composta com'era in superficie da conci arenacei legati 
fra loro e livellati negli interstizi da una sorta di duro conglomerato fatto di clasti 
e ciottoli impastati in limo e argilla. Ciò rende la testimonianza del cosiddetto 
‘Pseudo Scilace’ («la città di Spina si raggiunge da Pisa in tre giorni di cammino») 
assai meno improbabile di quanto finora è stata giudicata. 


L’anno che sconvolse gli assetti territoriali etruschi nella Valle dell’Arno 

Un forte e consolidato a ha unito per mezzo millennio i domini etruschi 
del versante tirrenico con quello adriatico, prima che accadesse l’imprevedibile e 
le cose mutassero radicalmente nell’assetto della Dodecapoli Padana. 

Comincerò questo racconto dalla ‘fine della storia’, quando al principio del 
IV sac, l'assoluto e perdurante dominio etrusco sugli opposti versanti appenninici 
fu rovinosamente sconvolto nel giro di pochi decenni dalle popolazioni gallo- 
celtiche che avevano attraversato in massa le Alpi alla ricerca di terre ricche e 
ubertose dove stanziarsi. 

Alla metà del V sac gli Etruschi avevano anche perduto il predominio maritti- 
mo nelle rotte tirreniche. E già si annunciava la fine della flebile pace con Roma 
instaurata da Porsenna dopo la presa della città. Insomma si trattò di un vero e 
proprio ‘tsunami antropico’, che segnò in quella lontana epoca tardoarcaica an- 
che un grande rivoluzionamento etnico, con la maggiore potenza del tempo che 
andava sgretolandosi sotto il peso di concomitanti ed avversi avvenimenti. Uno 
sconvolgimento che vide soccombere le élites etrusche insediate nelle pianure 
a sud del grande fiume padano, fino a condannare ad un precoce oblio anche 
le terre da loro insediate nell'alto corso del Tevere fino al Trasimeno. Tuttavia, 
furono colpite anche le medie valli dell'Arno, specie quella che oggi conosciamo 
essere la piana di Firenze, Prato e Pistoia. A nord si trattò di una repentina quanto 
massiccia occupazione dei territori da parte delle popolazioni galliche, che si fece 
particolarmente ‘sentire’ nelle valli appenniniche e anche lungo alcuni percorsi 
interni dell'Etruria. Questo ‘tsunami’ faceva seguito all’indebolimento dei traffi- 
ci marittimi tirrenici, pesantemente avvertito dopo la disfatta subita dalla flotta 
etrusca nel 474 a.C. nelle acque antistanti Cuma per mano di Ierone I di Siracu- 
sa, acerrimo nemico dei Tirreni. (Fig. 5) 

Quella clamorosa vittoria siceliota è ricordata dallo storico Diodoro Siculo 
e celebrata con grande enfasi dal poeta Pindaro. Con le pentacontere etrusche 
messe fuori gioco, i Siracusani, a 20 anni di distanza da quella battaglia, fecero 
ripetute incursioni piratesche in Etruria, mettendo a ferro e fuoco gli scali elbani 


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La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 





e le fortezze interne, occupando per qualche tempo anche i porti e le officine 
metallurgiche della costa, in primis quelle di Populonia. 

A dimostrare il declino delle difese a mare {dk pòlis etrusche, nel 384 a.C., 
il tiranno siracusano Dionisio I, saccheggiò impunemente il santuario di Pyrgi, 
infliggendo un colpo moralmente ancor più duro di una sconfitta militare. Gli 
Etruschi che, grazie anche al potenziamento della rete stradale interna, avevano 
da tempo io le principali rotte commerciali dal Tirreno all’Adriatico, su- 
birono di lì a poco la pressione delle invasioni celtiche che sfociò nel saccheggio 
delle terre madri dell'Etruria settentrionale e centrale. Il culmine si ebbe però 
in quel fatidico «Arzo 390 4.C.» con la discesa dei Galli Senoni di Brenno (in 
celtico Brennos è eponimo di condottiero) che si spinse ben oltre gli appennini 
fino al famoso sacco di Roma del 387. Il paradosso di quella penetrazione si ebbe 
con la semidistruzione di Chamars (Chiusi), accompagnata negli insediamenti 
vallivi padani da una massiccia immissione demografica che interruppe di colpo 
tutti i pregressi processi di integrazione e determinò nel giro di pochi decenni 
un radicale mutamento culturale. E pensare che quelli stessi popoli sarebbero 
tornati ad essere, non più tardi di due secoli dopo, alleati degli stessi Etruschi per 
fronteggiare, insieme a Umbri e Sanniti, l’inesorabile romanizzazione di tutte le 
regioni poste al disotto delle Alpi. 

La caduta dell’etrusca Veio (396 -390 a.C.), abbandonata al proprio destino 
in anni difficili per la Lega etrusca, anticipò quella che sarebbe stata nei secoli a 
venire la progressiva conquista romana. Paradossi o coincidenze della storia? Le 
vicende di Gonfienti in Val di Marina e della Strada del Ferro, prima arteria euro- 
pea che congiungeva il Mar Tirreno con l'Adriatico, sono la chiave di questa ine- 
splicabile matassa che ancora l’etruscologia tarda a dipanare. Una storia davvero 
emblematica che racchiude tutta la grandezza dell’epopea di una nazione etrusca 
in evoluzione, ma mai nata, e le ragioni di un perdurante oblio, un misunder- 
standing di matrice ideologica. Una storia che oggi ha il sapore, nella riscoperta 
dei territori appenninici, di una riconquistata conoscenza per la valorizzazione di 
terre di ande appeal. 


Il progetto di ricerca “Ilva Matrix” 
an etrusco di Gonfienti, ce lo dicono i ritrovamenti archeologici 
e gli studi recenti (Centauro e alii, 2018, in “Cultura Commestibile.com” (da ora 
“CuCo”), fu un emporio metropolitano di primaria importanza, così come di là 
dall’Appennino lo fu l’etrusca Kainua (Misa), l'odierna Marzabotto. Al riguardo 
occorre sottolineare una volta di più, alla luce di quanto sta emergendo dalle 
ultime ricerche, che i due centri, tra loro congiunti dalla via transappenninica, 
contrassegnavano il primato e l'eccellenza dal potenza politica ed economica 
degli Etruschi pienamente acquisita in quei territori nel periodo arcaico. 

Per Gonfienti si trattò del consolidarsi di un ruolo ‘aggregante’ che la città bisen- 
tina svolgeva fin dal VII-VII sac (Pofferi 2007) specie in ordine alle grandi bonifiche 
idrauliche in atto nella Piana, all'incremento della produzione agraria e alla funzione 
mercantile svolta, per le merci provenienti dal Volterrano, dall’Arno (via fiume) e 
dalla Val di Chiana. Un ruolo, quest'ultimo, accresciuto a dismisura dopo il comple- 
tamento della “strada dei due mari”, la ‘direttissima’ da Pisa a Spina. (Fig. 6) 

A quel primo emporio si sovrappose un progetto territoriale all'avanguardia e 
senza precedenti che, per certo, era stato a sotto la regia non di un'unica 


185 


Giuseppe A. Centauro 





pòlis (non poteva essere altrimenti!). Resta la suggestione che la nascente ‘metropoli’ 
realizzasse nel VI sac il disegno di un carismatico artefice (al momento incognito) 
che aveva trasmutato i dettami dell’Etrusca Disciplina in scienza del territorio e 
le risorse minerarie elbane in motore di ricchezza (Ilva matrix). Qui confluiranno 
i preziosi carichi grazie all’interscambio modale ‘mare-terra-fiume’ che utilizzava 
attracchi sicuri, come dimostra il ‘porto urbano’ ritrovato nel 1998 nell’area della 
Stazione di «Pisa-San Rossore» e, oltre il fiume, la grande strada glareata. 

L'Elba, olim Ilva, già da oltre un millennio riserva di fruttifere miniere di rame 
e di altri preziosi minerali, alimentava tutti gli empori tirrenici da Caere a Pupluna. 
Intorno al VII-VI sac, l’isola, ribattezzata dai naviganti greci - così riferisce lo Pseu- 
do Aristotele - con l'appellativo di Aitha/éia allo stesso modo dell’isola di Lemno 
che fu anch'essa dominio dei Tirreni, era divenuta con l’evolversi della metallurgia 
il più importante polo estrattivo per il ciclo del ferro grazie ai giacimenti di ematite 
micacea ed altri ossidi. Alla luce di questo ruolo il significato di “fumosa” dato a 

uel toponimo (De Palma 2004) assume un’accezione particolare, tanti erano i 
sii fusori attivi sulla costa per lo sfruttamento dei giacimenti minerari che gli 
abili metallurgi etruschi avevano imparato a ridurre per forgiare il prezioso A 

Sul promontorio di Piombino, a N/E dell’Elba, la pelasgica Pupluna, alias 
Flufuns in onore della divinità etrusca, unica roccaforte marittima nel territo- 
rio vetuloniese, accrebbe anch'essa d'importanza perché l’ampia insenatura di 
Baratti, da Punta delle Tonnarelle al Poggio del Molino, costituiva un approdo 
ideale, riparo naturale sulla terraferma sia per le navi di tipo mercantile sia per le 
imbarcazioni ibride munite del caratteristico sperone di prua che ne facilitava lo 
spiaggiamento. Infatti, tutto l’arenile, nelle zone maggiormente esposte ai venti, 
sì prestava magnificamente per allestire fornaci per un primo trattamento dei 
minerali appena sbarcati. 

L'osservazione remota dal mare dei fumi di questi rappresentava a ragione una 
pericolosa quanto indesiderata spia. E c'è da dire che le rotte commerciali marit- 
time nel Mar di Sardegna e nell’Arcipelago toscano non erano così tanto sicure, 
specie dopo la conversione alla pirateria dei Focesi, un tempo alleati, divenuti 
assai bellicosi nella contesa delle ricchezze elbane. (Fig.7) 

La grande battaglia navale di A/z/îa, combattuta nel 540 a.C. sulle coste orien- 
tali della Corsica, Lu per alcuni decenni la supremazia della flotta Cartaginese 
e Etrusca. Tuttavia, le ostilità non erano state del tutto debellate nel Mar Tirreno, 
per i blocchi navali di Cumani e Italioti. Inoltre, tutte le rotte da Populonia verso 
sud risultavano ancora contrastate tanto era stato forte il legame della città con la 
colonia corsa. Fu allora che, mutando i regimi politici, fu perseguito il progetto 
di una grande arteria terrestre che dalle sicure darsene pisane avrebbe portato il 
prezioso metallo a ridosso delle creste appenniniche in prossimità dei preesistenti 
empori fluviali sull'Arno, bypassando le rotte meridionali. La piana di Gonfienti 
offriva abbondanza di acque e la presenza di estese coperture arboree sui poggi ad 
uso di nuove officine metallurgiche. I minerali ... stati trasportati ancora 
grezzi con robusti carri a quattro ruote i (Fig. 8) 

Inoltre, con quella nuova via si andavano anche a ‘rinsaldare’ le catene dei 
flussi delle antiche sentieristiche usate per il trasporto delle merci verso il Po: 
dalle valli del Serchio e della Lima a N/W, dalle colline metallifere a S/W e dalla 
stessa Valtiberina a S/E. Fin dal villanoviano (XI/IX sac) esisteva un transito tran- 
sappenninico dalle terre dei Tirreni, garantito da numerosi tratturi pastorali (“vie 


186 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 





sacre”) che servivano il commercio al di là dell'Appennino. (Fig. 9) 

Tra PVIII e il VII sac questi percorsi saranno potenziati fino a raggiungere 
l’akmé tra il VI e il V sac. proprio con la nuova ‘via direttissima’. Gonfienti e la 
Val di Bisenzio si trovarono così ad essere nel mezzo dei territori prima occupati 
da Ligures e Umbros, relegati dagli Etruschi sulle alture oltre i valichi. 


I molteplici primati dell’insediamento etrusco di Gonfienti 

A Gonfienti di Prato, la presenza di un insediamento etrusco urbanisticamente 
evoluto con impianto ‘a scacchiera’, come quello da tempo noto di Kainua, è oggi 
una realtà inconfutabile che ha cambiato le coordinate delle ricerche condotte fino 
a ieri. Si tratta di un abitato assai articolato, perfettamente ordinato su settori geo- 
metrici di forma rettangolare entro più ampie quadrature territoriali, con empori, 
case ed altre aree strutturate. La presenza di profonde canalizzazioni di drenaggio 
con pozzi e di vie glareate di medie e grandi iui (come ad es. una platèa di 
10,70 mt) danno la misura di una conquistata primazia della città. Solo nel settem- 
bre di quest'anno si è ripreso a scavare nell’area archeologica, rimettendo in luce 
anche strutture che erano state provvisoriamente coperte da teloni di ‘tessuto non 
tessuto’ e interrate per problemi di sicurezza idraulica (Fig. 10). 

C'è da dite che gli scavi hanno finora riguardato solo un'infinitesima parte 
dell’area, che per altro ha riservato (come già presentato nel n. 76 di questo 
Bollettino, cfr. Centauro 2009) la scoperta di una straordinaria dimora regale, di 
oltre 1400 mq (Centauro 2019), degna di un lucumone o piuttosto, seguendo 
gli ordinamenti Serviani, di uno Zilath Meyl Rasnal (“pretore del popolo etru- 
sco”). Tuttavia, saranno gli scavi futuri a dircelo con certezza, magari attraverso il 
ritrovamento di un'iscrizione come quella citata rinvenuta a Tarquinia. Intanto, 
il ricco corredo di vasi attici e di altri sontuosi cimeli ne attestano la grandiosità e 
una precipua caratterizzazione architettonica confermata dalla peculiare icnogra- 
fia del palazzo. Il modello costruttivo riferibile ai tipi introdotti a Roma da Tar- 
quinio Prisco si riscontra nell’impiego di tegoloni e coppi dipinti nei modi corin- 
zi, con eleganti antefisse disposte ai vertici dei discendenti sopra l'ampio cortile. 
La straordinarietà non sta solo nella buona conservazione di questi reperti e dei 
laterizi, scivolati a terra e rimasti sigillati nel limo, bensì nel fatto che la dimora di 
Gonfienti abbia una superficie doppia rispetto alla reggia dei Tarquini a Roma (e 
ciò non può che porci precise domande). L'equidistanza dalle principesche #d6/0i 
di Quinto e di Sesto ad est e di Montefortini ad ovest fornisce ulteriori indizi 
circa il ruolo che stava assumendo la città nel contesto territoriale. 

La localizzazione geografica dell’insediamento era strategica perché, oltre ad 
essere baricentrica nella valle, poteva contare su un collegamento fluviale con il 
vicino porto sull’Arno (a Signa). L'insediamento, già agli esordi del VI sac, non 
poteva dunque considerarsi un semplice crocevia. Tuttavia, sono stati la presenza 
e il potenziamento della tratta transappenninica nella Val di Bisenzio a fornire le 
decisive chiavi di lettura. 

Il futuro Parco Archeologico di Gonfienti, con il Museo Etrusco e il Laboratorio 
di restauro che si allestiranno in base ad un protocollo d’intesa già avviato nel 2012 
tra MiBACT, Regione Toscana e i Comuni di Prato e di Campi Bisenzio, potranno 
altresì mettere in evidenza tutte queste peculiarità rendendo fruibile al pubblico 
l’area all’interno di un primo itinerario di visita che consentirà “a scavi aperti” di 
avere un'idea della straordinarietà del sito, a cominciare dalla sua ragguardevole 


187 


Giuseppe A. Centauro 





estensione all’interno della grande area dell’Interporto della Toscana. (Tav. 1) 

Dopo il ritrovamento della via del Frizzone (Ciampoltrini, Zecchini 2011) 
l’idea che da qui potesse transitare la strada del ferro si è fatta concreta con l’in- 
tercettazione, durante saggi di scavo al difuori dall’abitato, di una via glareata di 
oltre 5,20 mt. (orientata 122° S/E- 302° N/W), compresa tra il Bisenzio e l’antico 
alveo della Marina. Come se non bastasse, quella direttrice viaria ci conduce (4 
km ad est) nel luogo dove fu ritrovato lo splendido e monumentale “Cippo di 
Settimello” (550 a.C.). E questa non sembra essere una casualità. Si tratta di un 
Tular Rasnal (“un confine della terra dei Rasna”), assai simile a quello detto “della 
Figuretta”, rinvenuto a San Giuliano Terme, a nord di Pisa, che, come l’altro, può 
considerarsi un segnacolo territoriale, quasi a sottolineare gli opposti capi della 
grande arteria realizzata a lambire i confini di allora della Dodecapoli. 

Entrambi i cippi hanno in comune quattro leoni rampanti, forse a simboleg- 
giare l’alleanza di altrettante “città federate”. (Fig. 11). 

Questa strada, che nella stratigrafia precede cronologicamente le altre, può 
aver generato l'orientamento del reticolo viario interno all’abitato, segnando una 
sorta di decumano o cardine trasversale. La diacronicità della crescita dell’inse- 
diamento è evidente e rivela anche un passaggio di mano fra gli artefici del pro- 
getto. Nell'ultimo ventennio del VI sac il processo espansionistico del territorio 
confederato oltre l’Arno si rendeva necessario per consolidare un corridoio viario 
sotto il totale controllo etrusco che unisse le valli cispadane a quelle della Tuscia 
interna, abbandonando al contempo i malsicuri tratturi. Inoltre, la costituzione 
di un autonomo enclave rurale per Gonfienti diveniva un obiettivo strategico 
fondamentale per la crescita della città. E in quegli anni il nuovo dominus etru- 
sco non poteva che essere Lars Porsenna, re di Chiusi, grande conquistatore e 
diplomatico sopraffino. Ma nonostante queste evenienze la città fu battezzata 
come quella degli «Etruschi di periferia» (Poggesi, Bocci, 2001). 

Nei recenti adattamenti subiti dall’area archeologica per far posto allo ‘scalo 
merci’ di Gonfienti-Interporto (2007) è purtroppo andata perduta la testimo- 
nianza fisica di quella via glareata, il cui tracciato avrebbe potuto fugare i dubbi 
circa la connessione tra il fiume e la via di terra (Centauro, 2018a, in “CuCo” 
248). L'auspicio è che le ricerche archeologiche possano riprendere nelle aree 
ancora non cementificate per accertare l'esatta ubicazione del porto fluviale e 
ricostruire il percorso viario perduto. 

Questo tracciato contribuirebbe a spiegare la relazione pregressa tra il Bisenzio 
e il torrente Marina che sta all’origine del toponimo, considerando che la giacitu- 
ra del sito archeologico, posto ai piedi del Poggio Castiglioni (estrema propaggine 
meridionale dei Monti della Calvana), riguardi un modesto plateau morfologico, 
oggi non più percepibile per la presenza di sedimenti recenti, posto inter amnes, 
ovvero alla confluenza dei due corsi d’acqua (Gonfienti = var. 


L'area bonificata dagli Etruschi in Val di Marina 

Una geografia eccezionale era quella che, agli esordi del IV sac, l’uomo più che 
la natura stava ancora plasmando nella valle dell'Arno tra Gonfienti e Fiesole per 
ospitare la metropoli etrusca e un’ampia area agricola intorno ad essa (“ager anti- 
quus”). Tutto ciò era possibile avendo reso navigabile il Bisenzio e fertile l’ampia 
area valliva a N/E e a S/E dell’insediamento, a ridosso della collinetta di Calen- 
zano Castello che emergeva come un'isola nella Val di Marina, separata alla sua 


188 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 





sinistra dal torrente Chiosina proveniente dal Monte Morello. 

Questo paesaggio “di sapore arcadico”, disegnato dalle bonifiche iniziate da- 
gli agrimensori etruschi (‘teopianificato’), fu compromesso dall’esondazione che 
seppellì Gonfienti, poi romanizzato indi a lungo impaludato nell’Alto Medioevo, 
infine profondamente rimodellato nei secoli successivi. Eppure ancor’oggi s'in- 
travedono importanti tracce del passato in ispecie laddove la Marina esce dalla 
stretta collinare della Chiusa di Calenzano (da accad. Kalum = argine, riparo). 
Questa è la sella naturale che divenne diga per contenere un bacino lacustre e lo 
scolmatore di un acquedotto sotterraneo. In prossimità delle sponde del torrente 
sono state rinvenute scorie di ferro ricavate in processi di riduzione “a bassofuoco” 
compatibili con le produzioni più antiche e per di più riconducibili ad estrazioni 
elbane per la presenza della caratteristica ematite di Punta Calamita. (Fig. 12). In 
questo luogo, ancora nel III sac, si ergeva in sinistra idrografica su un'altura limi- 
trofa, una fortezza etrusca a difesa del territorio e di altre vie di valico anch'esse 
romanizzate come il resto del territorio (da Settimello al Passo delle Croci e da qui 
fino a Vigesimo e al Passo della Futa). Ad ovest della Chiusa, oltre un poggiolo, 
la nascosta conca di Travalle cela al Castelluccio misteri ancora tutti da decifrare; 
a sud, il colle di San Donato con i suoi terrazzamenti è l’ultimo baluardo verde 
prima della cementificazione urbana. L'autostrada A1, bucando la montagna, ha 
spezzato gli antichi equilibri, separando i ‘campi pensili’ di Sommaia dal contesto 
originario; poco più a valle, le aree industriali e gli accrescimenti urbani hanno 
cancellato quasi del tutto i segni più antichi del territorio. Al limitare della valle, 
verso S/W, il paesaggio conserva scampoli ambientali meno scomposti lasciando 
intravedere il piede del monte per quanto eroso dalle cave. In fondo emerge il 
Rialto con la sagoma inconfondibile del borgo erpicato di Pizzidimonte. 

Da queste parti, nel 1735, si rinvenne il kouros bronzeo detto “L'Offerente”, 
oggi al British Museum di Londra. “I caratteri stilistici di questo permettono di 
proporre una cronologia intorno al 470 a.C. Posizione e concezione figurativa 
sembrano trovare un corrispondente molto stretto nel Fufluns di Modena (stesse 
dimensioni, medesimo piede sinistro incèdente, affinità nella disposizione del 
mantello, similitudine nella fascia con incisioni a denti di lupo a dividere il torace 
in diagonale) e un prototipo nell’offerente populoniese trovato all'isola d'Elba e 
datato al 500 circa a.C.” (Zecchini 2011a). A poche centinaia di metri è l’area 
archeologica di Gonfienti che, ingabbiata nell‘interporto, si estende per 27 ha di 
cui 13 coperti da vincolo (fig. 13). 

Altre reminiscenze letterarie medievali ricordano anche una Bisenzia contesa 
tra gli eserciti di Mario e di Silla e rasa al suolo agli esordi del I sac. Tuttavia, 

uesto insediamento, sorto tra la metà del IV e il III sac, non può essere Gon- 
du per l'evidente anacronismo, più probabilmente corrispondeva al luogo che 
diverrà il Castrum Prati. 

Nell’area di ‘Gonfienti-Interporto’ occorre ricordare anche il ritrovamento di 
una vasta necropoli dell’età del Bronzo Medio 1-3, adesso occupata da un enor- 
me capannone. (Fig. 14) 

Dunque la città etrusca era stata fondata sopra più antichi stazionamenti a dimo- 
strazione di come il luogo fosse stato abitato alcuni secoli prima. Per avere un'idea di 
ciò che ha restituito l’ager antiquus, oltre i cippi miliari e i segnacoli sepolcrali, una se- 
lezione dei reperti sono stati ospitati per oltre un anno nella mostra «Etruschi. Viaggio 
nelle Terre dei Rasna» allestita presso il Museo Archeologico di Bologna. 


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Giuseppe A. Centauro 





Tratte dalla grande domus si vedano: una delle quattro splendide antefisse di 
coronamento, i resti di preziose ky/ikes a figure rosse, coppe su alto piede, kyathoi, 
calici, monili e altro delle centinaia di manufatti e frammenti fittili di un campio- 
nario di pezzi raccolto in oltre 2500 cassette. (Fig. 15) 

Dal vertice nord dell’insediamento etrusco si staccava, ancora tutta da inda- 
gare, la Strada del Ferro che ritroveremo salendo sul poggio. Lassù il paesaggio, 
a differenza del fondovalle, conserva una natura selvaggia che ricrea l'atmosfera 
delle origini. La sentieristica moderna intercetta alcune tracce della viabilità an- 
tica sia seguendo il versante meridionale della collina che offre ampio panorama 
sulla Piana, sia nella dorsale orientale dei Monti della Calvana, costeggiando un 
tratto della Val di Marina fino al Poggio Camerella (fig. 16) e, più oltre, alla sella 
di Valibona (758 mt. s.l.m.); sul versante occidentale (Val di Bisenzio) la via corre 
sotto il crinale fino al valico di Montepiano (700 mt. s.l.m.). 

Attenzione però perché si tratta di un percorso assai diverso da quello romano 
della “Flaminia Militare” (Agostini, Santi 2020) che collegava Fiesole a Bologna 
(per il Passo della Futa), non proprio coincidente con la “Flaminia Minor”, ricor- 
data da Livio, da Arezzo a Bologna, costruita dal console Caio Flaminio nel 187 
a.C. fuori dalle ancora ‘perigliose’ terre etrusco-celtiche delle valli del Bisenzio e 
del Setta/Reno. 


La via etrusca nella Val di Bisenzio 

AI disopra dell'abitato di Gonfienti, sul cacume collinare di Poggio Castiglio- 
ni (401 mt s.l.m.), vi era un’acropoli fortificata (garittum), giustapposta ad arcaici 
recinti in opera poligonale di preesistenti stazionamenti Ha evolutisi in 
età tardoarcaica entro un’area che, per la particolare giacitura che la contraddi- 
stingue, è stata identificata come «Bucaccia» (Centauro 2018b, in “CuCo” 257). 
Si tratta di un sito attraversato per l’intera lunghezza (750 mt.) da un fosso ca- 
nalizzato che si alimenta con acque sotterranee. La singolarità di questo insedia- 
mento, che deve ancora essere valutata da un punto di vista archeologico, è sot- 
tolineata dal notevole sviluppo perimetrale di circa 2,5 km. di muraglie. (Tav. 2) 

Il sito della Bucaccia è anche il maggiore per estensione di una serie di anti- 
chi villaggi pastorali che sinanellano più o meno alla stessa quota (350/400 mt 
s.l.m.) lungo un percorso di 5 km al disopra della fertile conca di Travalle. Questo 
antico pagus, suddiviso in vici completamente terrazzati, gode anche di un favo- 
revole microclima adatto all’habitat umano. 

Il popolamento sui Monti della Calvana e sul Morello (Poggio all’Aia), già do- 
cumentato archeologicamente in tutte le età dei metalli, nell’alternanza di tribù 
di stirpe umbra, come ci indica il toponimo Camars, trova riscontro nei racconti 
che evocano suggestioni legate alle fabula etrusche e alle numerose leggende che, 
fin dal Medioevo, accompagnano le storie di questi territori. Una di queste, frut- 
to di complesse aggregazioni tribali, riguarda la ‘mitica’ città di Camars, ricordata 
da Tito Livio come «Ad Clusium quod Camars olim k (cfr. Ab urbe 
condita, Libro X, 25, v. 11) che per gli Etruschi sarà l’altra Chiusi. Questa città, 
composta da un insieme di villaggi, occupava un’ampia estensione territoriale, 
perimetrata da una lunga sequenza di muraglie che si può stimare all’incirca in 27 
km che vanno a disegnare una sorta di ideale circonferenza corrispondente con 
quello che abbiamo ipotizzato essere l’ager arntiguus di Gonfienti. 

L'area della circoscrizione rurale di Camars era contenuta in uno spazio dila- 


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La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 





tato a semicerchio, delineato dal curvilineo crinale della Calvana fino al Poggio 
Camerella, che andava a chiudersi a tenaglia, oltre la Chiusa sulla Marina, sulle 
coste collinari opposte (pendici occidentali del Monte Morello) fino alla pianura 
nella stretta tra Calenzano e Pizzidimonte (Centauro 2004a). 

Questa descrizione è utile per scoprire in un dedalo di sentieri il tracciato 
principale della transappenninica che staccatosi da Gonfienti risale il poggio per 
lambire ad ovest il versante bisentino. Infatti, i tratti riemersi confinano in pros- 
simità del crinale con l’ager rurale cinto da ciò che resta dei vari muri di pietra 
dei villaggi di altura. 

Allo stesso modo un secondo percorso rimontava da Travalle ai vici dislocati 
sul versante orientale della Calvana, quali Aiacciaia, Sant'Anna Vecchia, Casa al 
Piano, Cavagliano, Sottolano, Torri ecc. fino al crocevia del Rio Buti, posto a 
ridosso della fortezza di Poggio Castellaro poco oltre il valico di Valibona, per 
poi proseguire a ‘girapoggio’ sul Monte Cagnani, seguendo con il primo un'unica 
via parallela al fondovalle (Centauro 2008). C'è da dire che la viabilità nell’area 
di Travalle è stata modificata già in epoca romana fin dall’imbocco della con- 
ca (nell’area di Travalle sono stati rinvenuti anche resti di pavimento musivo in 
bianco e nero di una villa d’epoca imperiale) e, soprattutto, in quella medievale 
con la formazione intorno ad una preesistente curtis di un castellare (Castello di 
Travalle) con proprie vie d’accesso. 

Tracce della sovrapposizione di queste diverse tipologie di pavimentazioni stradali, 
che attengono ad epoche diverse, sono osservabili lungo il rio Camerella. (Fig. 17) 

Il tracciato romano è ben riconoscibile per la presenza di basoli posti al diso- 
pra di una massicciata preesistente. Nei luoghi sopra citati, nessuno escluso, sono 
state rivenute strutture murarie in opus antiquum, doline sigillate e acquidocci, 
necropoli e ciclopici terrazzamenti ‘a scogliera’ per il controllo dall’alto del ter- 
ritorio, accompagnati da frammenti ceramici protostorici e, in qualche caso, da 
manufatti litici preistorici. Riprendendo ora il tracciato in Val di Bisenzio nel 
Comune di Vaiano, si può ipotizzare che il percorso, assecondando la morfologia 
del terreno e variando la tecnica costruttiva, segua ancora la via più breve con 
un percorso rettilineo ad una quota superiore rispetto ai villaggi di mezzacosta 
(Parmigno, Faltugnano, Fabio, Sofignano, ecc.) fino al ii di Montecuc- 
coli (635 mt s.l.m.), dove incontra un preesistente tratturo che da Capo Sieve, 
seguendo il corso del fiume, penetrava nei territori etruschi del Mugello (Clusen- 
tinus). (Figg. 18 e 19) 

La transappenninica diversamente dal tratturo sopra descritto, continuando 
in modesta pendenza, doveva passare al disotto del valico della Crocetta (mt 817 
s.l.m.) per poi discendere al Passo di Montepiano (700 mt s.l.m.) entrando in Val 
di Setta fino al confine regionale posto alla Storaia. 

Lo stato di avanzamento delle ricerche induce peraltro alla massima prudenza 
perché le tracce di questa strada sono assai sporadiche per antichi dissesti e pro- 
gressivo abbandono, per di più sono coperte da massiccia coltre di sedimenti, pur 
tuttavia i pochi segni sono sufficienti ad orientare nuove ricerche da condursi con 
rilievi in situ e saggi mirati. 


Tipologia costruttiva del percorso montano 


La struttura della via etrusca nel percorso montano, a differenza del tratto 
in pianura largo oltre 5 mt. ed idoneo al transito contemporaneo di due carri a 


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Giuseppe A. Centauro 





quattro ruote (pilentum) consentiva il passaggio di un sol carro alla volta (larghez- 
za strada 2,30/2,60 mt.). Il modello della strada etrusca, poi imitato per molti 
secoli dai genieri romani per consentire il transito di carri più leggeri, magari a 
due ruote (carpentum), conservava preferibilmente un tracciato rettilineo e una 
permanenza di quota, realizzando all'occorrenza una percorso rilevato. Il sedime 
stradale riscontrato in Val di Bisenzio mantiene queste specifiche; in molti tratti 
pensile, si sviluppa per segmenti rettilinei sfruttando la giacitura di minor pen- 
denza. La pavimentazione è composta da tre strati di ciottoli e graniglia preva- 
lentemente in calcare incassati su sterrato costipato (che i romani dia 
come “via glarea stratae”). Nei tratti più acclivi le pietre sono disposte coltello, 
infisse nel terreno e ben tensionate tra di loro. Per assicurare una transitabilità 
durevole la strada, onde evitare affossamenti, quand’anche fosse in terra battuta, 
è drenata con canalini ipogei in prossimità di fossi. 

La tenuta del fondo così inghiaiato è assicurata a valle da cortine murarie ‘a 
retta’, talvolta di notevole altezza concluse con grandi blocchi sbozzati avambecco 
disposti senza soluzione di continuità in modo da evitare lo scivolamento. All’oc- 
correnza per livellare il piano di campagna si trovano in opera lastroni di pietra 
incastrati nelle lacune di banchi rocciosi eventualmente toi usati come la- 
strici. Tutte le opere in pietra sono condotte rigorosamente a secco, evitando 
inclusioni di materiali di altra natura, accorgimenti che i romani non sempre 
rispettavano, impiegando anche malta sigillante. Infine, per gli accertamenti in 
situ, occorre sottolineare il fatto che solo sporadicamente la sentieristica attuale o 
le mulattiere esistenti intercettano o si sovrappongano per tratti più o meno con- 
sistenti al tracciato antico a causa delle esiziali modifiche che hanno interessato 
il percorso dismesso da più tempo a causa di frane o progressivo seppellimento, 
ecc.) oppure perché le redole di campagna ad uso di pastori e taglialegna avevano 
altri tragitti più funzionali al trasposto locale da e per il fondovalle. 


Le vie di valico, dagli Etruschi ai Celti 

Tornando a Gonfienti in Val di Marina abbiamo riscontato un altro singolare 
parallelismo con Kainua, non solo nell’assetto urbano, ma anche nella compre- 
senza di stessi toponimi: ad es. con le due “Confienti’ che si trovano in Val di Setta, 
una alla confluenza del torrente Brasimone, l’altra dove il Setta incontra la Valle 
del Reno. (Fig. 20) 

In comune questi siti recano la viva testimonianza del passaggio e dell’insedia- 
mento dei Galli Boi prima e dei Galli Senoni poi (IV sac) con l’accertata e diffusa 
presenza in quei luoghi di necropoli e di altri villaggi di stampo celtico di ben più 
antica data. 

Ulteriore conferma si è avuta durante la costruzione della Variante di Valico, 
con il ritrovamento dell’insediamento etrusco sul torrente Setta, in località “La 
Quercia“, non lontano da Marzabotto, che fa il paio con il vicino sepolcreto di 
Lagaro scoperto nell'Ottocento. 

Luoghi come Medelana (dal celtico Medalhon = ‘luogo sacro di mezzo’) sulle 
colline i. o come Medelana nel Ferrarese, sono testimoni di questo avvi- 
cendamento. L'insediamento celtico si sovrappose a quello etrusco di Marzabotto 
che resistette fino al 350 a.C. D'altronde questa circostanza non deve meraviglia- 
re più di tanto se pensiamo che prima degli eventi caratterizzanti l'occupazione 
dei territori etruschi da parte delle nuove genti galliche si era registrata una buona 


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La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 





convivenza tra le tribù celtiche e gli Etruschi testimoniata da ritrovamenti anche 
a sud di Bologna, ad es. a Monterenzio nella valle dell’Idice. 

La stessa sacralità dei luoghi, condivisa da entrambe le culture, è evidente 
nel rispetto dei boschi e delle radure intorno alle vie d’acqua e alle sorgive, nei 
santuari di crinale, non distanti dai tracciati transappenninici. Si tratta semmai 
di capire quale fosse stato il percorso inverso tenuto da est verso ovest a partire 
dal IV-III sac: da Confienti in Val di Setta a Gonfienti in Val di Marina, ovvero 
quanta parte di quei tracciati fosse stata riutilizzata dai Celti. In età gallo-celtica, 
la via era già solcata dai carri Etruschi, poteva ancora rispettare lo stes- 
so percorso, in parte fluviale ed in parte stradale. Del resto, lo dimostra in modo 
analogo il tratto (via per Spineta) che univa le capitali dei Boi (l’etrusca Kainua) 
e dei Lingoni (l’etrusca Spina). (Tav.3) 

Da notare, come ulteriore suggestione, come il toponimo Gonfienti, che pare 
derivare dal latino Conffuentes=confluenza, trova un'analoga radice nella lingua 
celtica nella glossa Con(flu)data, con medesimo significato ‘di luogo alla con- 
fluenza di fiumi’ (appunto inter amnes), quasi che la derivazione Tua derivi 
piuttosto dalla ‘glossa’ celtica, più tarda di quella etrusca, cioè dopo l'occupazione 
avvenuta tra il IV e il III sac, e non già dall’originario toponimo etrusco (che non 
conosciamo). Quindi i Confienti e i Gonfienti altro non sarebbero che denomi- 
nazioni di origine gallo-celtica di luoghi prima insediati dagli etruschi poi scom- 
parsi, posti i di due o più corsi d’acqua in ambiti nevralgici di quei 
territori considerati dai sacerdoti di quei popoli come “aree sacre” (per i Druidi 
‘Nemeton’, per gli Arùspici o gli Aùguri ‘Luk Eri, successivamente per i Romani 
il ‘Lucus ovvero il bosco sacro di cipressi, querce ed elci), veri e propri santua- 
ri della natura. Se questa ipotesi trovasse conferme archeologiche troveremmo 
anche la spiegazione di resti di villaggi celtici nell’Etruria centrale come, ad es., 
presso l'ennesima Gonfienti posta tra i fiumi Merse e Farma che, per l'appunto, 
si trova anch'essa lungo i tratturi delle colline metallifere. Tutto quel che si è detto 

otrebbe consentire di ricostruire la storia delle popolazioni avvicendatesi nella 
Da Infatti, il riconoscimento dello strato etnico a cui un certo nome potrebbe 
appartenere può farsi attraverso l'esame della radice del toponimo, sia della parte 
suffissale come pure nel morfema. Può accadere, tuttavia, che non tutte le parole 
siano dh ad un significato noto. 

A rendere ancor più suggestiva la lettura geografica di questi siti di fondo- 
valle, come Kainua, nei passaggi di altura, in prossimità di valichi o di vallecole 
trasversali rispetto alla strada maestra, corrono le cosiddette ‘vie degli dei’ che 
accompagnano il percorso principale contrassegnando luoghi sacri comuni, qua- 
si fossero ‘stazioni di sosta’, zone franche protette in una sorta di ritualità senza 
tempo che, non a caso, sarà fatta propria in un immortale divenire nei luoghi di 
culto cristiani coi santuari mariani. 

A ben riflettere questa peculiarità conferisce alla Strada del Ferro, un valore 
semantico del tutto particolare che, nella ‘geografia sacra’ del mondo etrusco, si 
associa a luoghi di grande pregnanza sini ma anche strategici per il controllo 
di vie e territori (da considerare come una sorta di “punti geodetici” segnati in an- 
tico come “omphalos”). Del resto bronzetti devozionali e offerte rituali in monete 
testimoniano di lasciti votivi da parte di coloro che da quei transiti traevano ric- 
chezza e prosperità. In ogni caso si ebbe un progressivo rilascio della Via etrusca 
del Ferro. Occorre i: che, dopo la scomparsa di Gonfienti, gli eserciti 


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Giuseppe A. Centauro 





dei Celti, ancora bellicosi ed ostili, per irrompere in Etruria e semmai saccheg- 
giarla, scegliessero, non già la “direttissima”, bensì, come farà anche Annibale, î. 
via della Futa (Agostini C., Santi F. 2020). 

Nel 225 a.C. ci fu, passando da Fiesole e Chiusi in Val di Chiana una loro 
funesta calata che, come ricorda Polibio, raggiunta la costa tirrenica costò 50.000 
morti. I Celti furono annientati a Talamone dalla forze italiche alleate. Ma questa 
sarà un’altra storia! 


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Giuseppe A. Centauro 





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Referenze grafiche e fotografiche 


Le foto se non diversamente indicato sono dell’autore; le foto delle figg. 1/4 
sono pubblicate per gentile concessione di M. Zecchini; le foto delle figg. 17 e 
18 sono di Franco Focosi; la cartografia di cui alle Tav. 1 è di D. Fastelli e i gra- 
fici di cui alle figg. 6 e 7 e alla tav. 3 sono del prof. arch. Mario Preti (per gentile 
concessione degli autori). L'autore ringrazia la SABAP per la città metropolitana 
di Firenze e le provincie di Pistoia e Prato. 


Abbreviazioni: 


mac = millennio a.C. 
sac = secolo a.C. 


196 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 








Fig. 1: La via etrusca glareata del Frizzone (Capannori) 


197 


Giuseppe A. Centauro 








Fig. 2: Particolare di chiodo di carro rinvenuto nello scavo 





Fig. 3: Ricostruzione dell’assetto della strada in prossimità del corso del fiume Serchio. 


198 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 








Fig. 4: Solchi di carro lasciati sull’acciottolato 





Fig. 5: Dinos di Exekias, raffigurazione di una pentacontera etrusca 


199 


Giuseppe A. Centauro 








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Fig. 6: Ricostruzione del percorso della “via del ferro”, marittimo e terrestre: Elba/Populonia, Pisa- 
Gonfienti/Marzabotto, Spina 


200 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 





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Fig. 7: Rotte tirreniche da Cartagine a Populonia collegate alla “via dei due mari” 


201 


Giuseppe A. Centauro 















. Insediamenti etruschi 
» Valichi appenninici 


9° 
Felsina 


Monterenzio Vecchia 
. 


Monte Bibele 


° 
Passo della 
Raticosa 


Passo 





Passo della 
Prunetta 





Pisa 


Fig. 9: Reticoli viari degli antichi percorsi di transumanza nelle valli appenniniche a nord di Gonfienti 


202 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 








Fig.10: Gonfienti-Interporto, fase di lavoro degli scavi archeologici nel Lotto 15A (settembre 2020) 


203 


Giuseppe A. Centauro 








Fig.11: Il cippo di Settimello e quello di Pisa, detto della” Figuretta”, a confronto 


204 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 








Fig.12: Veduta “a volo d’uccello” sul torrente Marina in prossimità della Chiusa di Calenzano, con 
indicato il luogo di ritrovamento di scoria di fusione del ferro elbano. 


205 


Giuseppe A. Centauro 











ICT 


Fig.13: Foto aerea dell’area dello Scalo Merci durante gli scavi della necropoli del Bronzo Medio 1-3 
(da: Google Earth, agg. 7 set. 2007) 


206 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 








Fig.14: Inquadramento territoriale dell’area archeologica di Gonfienti-Interporto e del Poggio Casti- 
glioni - sito della Bucaccia 


Reperti dell’area archeologica di Gonfienti 


L'Offerente di Pizzidimonte 





Fig.15: Vetrina allestita al Museo Archeologico di Bologna (2019-2020) con reperti provenienti dagli 
scavi di Gonfienti e l’Offerente di Pizzidimonte (da: Londra, British Museum) 


207 


Giuseppe A. Centauro 








Fig.16: Sentieristica a Travalle con tracciati sovrapposti di varie epoche 


208 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 








Fig.17: Intersezioni di pavimentazioni di varie tipologie in prossimità del Rio Camerelle, la parte con 
basoli sopra strati glareati etruschi è d’origine imperiale romana 


209 


Giuseppe A. Centauro 








Figg.18 e 19: Parmigno in Val di Bisenzio, ritrovamento di antico tracciato pensile 


210 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 





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Fig.20: Alveo del torrente Setta 


211 


Giuseppe A. Centauro 










Strutture antropiche rilevate. 
Poggio Castiglio: Bucaccia (PO) 
AcquidoceliGanalizzazioni 
i Sitttue terazzale 
Filettole 







Strade 


Mura perimetrali 



















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‘Sources: Esri NERE Deorme, Inermap, Increment P Com; GEL ‘0Bast, IGN, nl NL ranionee Survey, Esi Japan, 
METI, Est China VOS AR store. eo 
Gorgo a la 5 


Tav.1: Le aree archeologiche bisentine: Gonfienti e l’acropoli nel sito di Poggio Castiglioni-La Bucaccia 
con lo sviluppo lineare delle mura perimetrali (su base cartografica della Regione Toscana) 


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LOTTO 158 do 3 


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TZ] MABILITA ANTICA 


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TILT] PERCORSO DARFALIZZARE 





Tav.2: Progetto dei percorsi di visita del Parco Archeologico di Gonfienti (da: SABAP per la città me- 
tropolitana di Firenze e le provincie di Pistoia e Prato) 


212 


La Strada etrusca del Ferro, la ‘via direttissima’ da Pisa a Spina 








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Tav. 3: Antico assetto del delta del Po, con ricostruzione della “Via per Spineta” (elab. M. Preti) 


213 


Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





MARIO BRUSCHI 


A Carlo Pedretti 
con l'affetto riconoscente 
di sempre 


La carta che qui si considera è rimasta conservata in un cartulario intitolato 
Atti Ecclesiastici dal 1436 al 1460. Fa parte dell’ Archivio Vescovile di Pistoia!. 
Si tratta di vari fascicoli legati insieme (già con precedenti numerazioni) e poi 
rinumerati in maniera progressiva. Bisogna subito avvertire che, come è dato 
riscontrare in molti casi, gli estremi cronologici non furono del tutto rispettati. 
Infatti fra questi documenti vennero aggiunte anche carte posteriori. Al riguardo, 
si nota pure un altro fatto alquanto inconsueto: il numero della carta non serve 
da recto e verso ma il 379 (questo il numero) è scritto in maniera chiara e ripetuta 
su ambedue le facciate. La grafia di queste evidenzia palesemente due mani di- 
verse. Se ne deduce, in maniera abbastanza indeciibii, che la seconda facciata, 
rimasta bianca, fu utilizzata in epoca successiva (forse addirittura qualche decen- 
nio dopo), quasi a voler ribadire però che si trattava dello stesso “argomento” o 
provenienza. 


La carta d’archivio è priva sia della data topica che di quella cronica, ma redat- 
ta “alla morte di Ser Piero”, dicitura tanto misteriosa quanto per noi affascinante. 

Proviene da Vinci; la parrocchia di S. Croce alla metà del Quattrocento rien- 
trava, come esattamente ancora ai nostri tempi, nella diocesi di Pistoia. 


Prima di questo documento vi furono conservati, attaccati ed incollati, una 
serie di piccoli ritagli e strisce di carte, in maniera davvero singolare, con annota- 
zioni riguardanti il territorio del Montalbano. 

Ad esempio un biglietto firmato da un frate Marco di Porciano in presenza di 
Simone Pasquetti “da Lampolechio”; si ricorda anche l'abbazia di San Baronto?. 





! Cfr. Archivio Vescovile di Pistoia, III, C.14 (31 rosso), 2, Atti Ecclesiastici dal 1436 al 1460, 
c.379 (22 facciata). L'autorizzazione alla riproduzione del documento è stata concessa dall'Ufficio per i 
Beni Culturali della Diocesi di Pistoia, che qui si ringrazia. 

2 La famiglia Pasquetti si trova ricordata negli Statuti del Comune di Vinci del 1418. Commi- 
nando le pene per chi commetteva “malefitio” nel castello o sull’antica piazza detta “del merchatale”: 
“...intendasi il merchatale dalla chasa di Johanni pasquetti in sino alla via la quale va presso alla chasa 
fu di Bernardo Lapi allato al fosso del castello”. “All’Estimo del 1412, Giovanni Pasquetti figurava pos- 


215 


Mario Bruschi 





Nella prima facciata della c. 379, in particolare, è menzionato un “Ser Pieri 
Guiduc(c)i” e un “(Ser?) Johannes (di) Salvi. 1432-33”. Il primo è preceduto da 
un'abbreviazione che sembrerebbe di poter sciogliere con Cc. 7) ma potrebbe 
anche stare per Johanne. Piero Guiducci (di Guiduccio) fu un prete (presbitero) 
e anche notaio (Ser). Come prete non poteva avere prole. 

Costui era rimasto figura pressoché sconosciuta. Solo Renzo Cianchi aveva 
dato qualche cenno informando che “nella metà del ‘400, era rettore della chiesa 
[di S. Pantaleo] Ser Piero Guiducci da Vinci” e che, in luogo detto “Zollaio”, un 
confinante risultava “Ser Piero Guiducci da Vinci prete di Sancto pantaleo”, 
Nella parrocchia di S. Pantaleo era stanziata la famiglia detta dei Buti, con casa 
di abitazione e poderi, in luogo detto “Campo Zeppi”. Fu questa “la località dove 
lAccattabriga dimorava con la sua famiglia e dove condusse la Caterina. E al di là 
del Vincio, a due chilometri circa dalla Chiesa; un gran poggio coltivato a viti ed 
ulivi sul quale si alzano alcuni fabbricati di antica origine. In uno di essi dimorò 
la madre di Leonardo”. “Tra le mura dell’umile rustica chiesetta di S. Pantaleone 
a San Pantaleo in Comune di Vinci -senza ombra di dubbio- si genuflesse e pregò 
chissà mai quante volte la Caterina durante oltre un trentennio di vita trascorso 
in quella parrocchia a fianco dell ‘Accattabriga”*. 

Accattabriga [Attaccabriga] fu, in verità, il soprannome affibbiato a Antonio 
di Piero di Andrea di Giovanni della famiglia Buti. Anche suo padre Piero ebbe 
un soprannome: “del vacha” o “del vaccha” da Vinci. Lo stesso Piero di Andrea, 
padre dell’Accattabriga, insieme alla famiglia Buti fu identificato pure con altro 
soprannome: “del cischia”° 

Su Piero Guiducci, “presbitero” e notaio (Ser) ho reperito maggiore docu- 
mentazione. 

Due carte d'archivio, scritte intorno al 1448, riportano le “Chiese di Vincio”°, 
con i loro rettori. I primi due sono “prete Piero Pagnecha” e “prete Piero di Gui- 
duccio”. La prima è vergata in volgare, la seconda in latino, ambedue di difficilis- 
sima lettura e interpretazione. Di prete Piero di Guiduccio si specificò: “rectore 
della cappella di S. Michele”. Si ricorda un altro esponente della famiglia Gui- 
ducci: Matteo. Come spesso accadeva, aveva un soprannome: ciabatta (Matheus 
Guiducci ciabatta). 





sedere «una chasa in borgho a 1° via a 3° Matteo chambini»: un antenato di quel “domenicho chambini 
di Santa Croce Comune di Vinci, dal quale Ser Piero da Vinci ed il fratello Francesco dichiararono, al 
Catasto del 1469, di aver acquistato una casa “quasi disfatta et sanza palchi et chonun pocho d’orto ... 
chomunicata nella chasa dell’abitazione de detti figliuoli et heredi”: comunicata cioè con la casa in cui 
Leonardo visse la sua prima giovinezza” (Cfr. R. CIANCHI, Giovanni da Vinci fratello di Leonardo oste 
e beccaio sulla piazza del mercatale e festaiolo della Compagnia dello Spirito Santo, Vinci 1977, p. 8-9. 

3. Cfr. R. CIANCHI, Ricerche e documenti sulla madre di Leonardo, Firenze, Giunti-Barbèra 
1975, p. 5. “La chiesa di S. Pantaleo è di data antichissima. Faceva parte delle proprietà feudali dei conti 
Guidi, ed è menzionata nei contratti da loro stipulati il 6 maggio ed il 28 luglio del 1255, e nel 1273 
per la cessione del feudo di Vinci e degli altri contermini al Comune di Firenze. Apparteneva origina- 
riamente alla Diocesi di Lucca; nel 1622 ne fu staccata e trasferita alla Diocesi di S. Miniato al Tedesco, 
alla quale appartiene tuttora” (Ibidem, pp. 3-4) 

4 Ibidem, p. 3, 5. 

°. Ibidem, pp. 17-29. 

6. Cfr. M. BRUSCHI, Gente di Leonardo, Pistoia 2018, pp. 38-43, e fig. 15 


216 


Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





Della cappella di S. Michele in S. Croce di Vinci ho trovato i beni posseduti 
negli anni 1564-1568”. 


In altra carta, del 1447, quindi pressoché coeva, si fece menzione ancora dei 
due sacerdoti di Vinci, ricordando l’Ecclesia Sanctae Andree de Vincio8, insieme 
a quelle di Lamporecchio, S. Amato, S. Lucia a Paterno, Faltognano. Per primo 
don Guiducci e poi il presbitero Piero Pagnecha. Stavolta Piero Guiducci fu qua- 
lificato come rettore della Cappella di S. Biagio di Vinci (“Fuit (facit?) preceptum 
presbitero Piero Guiducci rectori cappellae Sancti Blaxij ...”). A Vinci esisteva 
anche uno “Spedale” intitolato a S. Biagio; la cappella di S. Biagio in S. Croce 
doveva essere la sua “rappresentanza” in chiesa?. 

Della Cappella di S. Biagio e dell'ospedale omonimo conosciamo le “sustan- 
ze” alla metà del Quattrocento, nel 1467, nel 1483 e nel 1587. Ho trovato la 
carta che riporta l’elezione dello “spidalieri” proprio nel 1452, anno della nascita 
di Leonardo!°. Anche Ser Piero, padre di Leonardo, ebbe rapporti stretti con l’o- 
spedale: “Francesco di Roberto da Vinci, zio di Giovambattista [Cecchi], ebbe il 
benefizio della Cappella di S. Giovanni e Biagio in S. Croce a Vinci, come dall’e- 
lezione rogata Ser Piero d’Antonio di Ser Piero da Vinci, sotto dì 20 dicembre 
1460”!!. 

Il prete Piero Guiducci, pertanto, essendo ancora giovane, attorno alla metà 
del sec. XV fu rettore di varie cappelle per poi divenire titolare, come detto sopra, 
della parrocchia di S. Pantaleo. 

Tornando alla c. 379, e a “Johannes (di) Salvi”, è da dire che il nome proprio 





7. Ibidem, pp. 132-134. Nel 1447, a S. Donato in Greti (piviere di S. Giovanni in Greti, oggi 
S. Ansano), fra i popolani compare un “Meus Guiducci”. Fu certamente un fratello di Piero e Matteo. 
L'ipotesi è perfettamente confermata dal fatto che, sempre a S. Donato, un decennio dopo (1456) viene 
documentata la presenza di un figliolo di Matteo detto ‘ciabatta’: Loctus Mathei ciabacte (BRUSCHI, 
Gente di Leonardo, pp. 529-530) 

* Ibidem, p. 41 (fig. 16). Intorno al 1440, poiché la carta non porta datazione precisa, si traman- 
da un'ulteriore memoria del “presbitero Petro Guiducci de Vincio”. È contenuto in un elenco di “terreni 
e beni della chiesa di Vincio”; fra di essi un orta/e, con confinante ‘Antonio di Ser Piero’, padre di Ser 
Piero e nonno di Leonardo (Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, pp. 72-74 e fig. 27). 

?. Ibidem, pp. 193-205. Mezzo secolo più tardi, un altro Guiducci compare fra i reperti documen- 
tari. Nel 1503 il fiorentino Francesco Guiducci, uno dei commissari militari in campo nella guerra contro 
Pisa, nella quale fu impegnato Leonardo per il progetto di deviazione dell’Arno, fu l’estensore di una lettera 
alla Signoria (Cfr. Leonardo da Vinci. La vera immagine, a cura di V. Arrighi, A. Bellinazzi, E. Villata, Firen- 
ze, Giunti ed. 2005, p. 189). Non saprei dire se costui era della medesima famiglia dei Guiducci di Vinci. 
In quello stesso tempo vi furono vari esempi di consorterie presenti nei due luoghi, una fra tutte quella dei 
Cecchi, che si firmavano sia “de vincio” che “de florentia”. Sempre nel 1503, Leonardo, quando acquistò 
un podere a Fiesole, nell’atto di vendita fu definito: “Leonardo ser Petri de Vincio de Florentia” (Ibidem, p. 
190). L’anno seguente (1504) Francesco d’Antonio da Vinci, fratello di Ser Piero e zio di Leonardo, dettò 
il suo testamento a Ser Girolamo di Ser Piero Cecchi, notaio fiorentino. Ma il testamento “fu presumibil- 
mente rogato a Vinci” (Ibidem, p. 198). Molti dei Cecchi fiorentini esercitavano la professione notarile, e 
già all’epoca trecentesca. Negli ultimissimi tempi, una canzone dal titolo Morte, perchio non trovo a cui mi 
doglia, ritenuta finora composta nientemeno che da Dante Alighieri, è stata riconosciuta come una delle 
Rime del fiorentino Ser Jacopo Cecchi (attivo dal 1315 al 1369). 

!° Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, pp. 198-199 (figg. 51-52). 

!! Ibidem, p.194. 


217 


Mario Bruschi 





di persona Salvius dette origine, col genitivo nominale, a Salvi (di Salvo). Nella 
seconda forma rimase usato talvolta ancora come nome proprio, altre volte come 
cognome familiare. Per Vinci e zone limitrofe, nel sec. XV, rimangono innume- 
revoli esempi. Cianchi ha documentato nel 1473 un Giovan Battista di Salvi di 
Vinci!?, che potrebbe essere anche la stessa persona. 

Nello stesso anno (1473), in altra fonte archivistica, Salvi risulta già morto 
(olim)!. 

Un Andrea Salvi risulta cappellano di Paterno nel 1477!*. Nel 1447-1448 trovo 





Cfr. CIANCHI, Ricerche, p. 35. 

13. Ibidem, p. 68. 

4 Cfr. La Chiesa pistoiese e la sua cattedrale nel tempo, Indice generale, vol. XII, a cura di A. Paci- 
ni, Pistoia 2004, p. 137. Le generalità complete erano: Andrea di Michele di Antonio Salvi da Vinci. 
Costui si trovò coinvolto, il 4 luglio del 1477, in un fatto di cronaca gravissimo: un furto sacrilego alla 
chiesa e alla canonica di S. Lucia a Paterno (Cfr. La Chiesa pistoiese ..., cit. in questa nota, vol. II, 1994, 
pp. 148-150; M BRUSCHI, La fede battesimale di Leonardo. Ricerche in corso e altri documenti: Vinci 
e Anchiano, in “Achademia Leonardi Vinci”, vol. X (1997), Giunti ed. (suppl.), p. 23. Il complesso 
architettonico della piccola parrocchia fu letteralmente “svaligiato” e subì anche ingenti danni mate- 
riali. AI tempo, come detto, era cappellano proprio Ser Andrea di Michele d’Antonio Salvi. Rettore di 
Paterno era prete Francesco d'Angelo di Ser Mainardo, cioè Francesco Cecchi (Cfr. La Chiesa pistoiese, 
II, p. 149). Lo studioso Cianchi ricorda un prete Francesco di Roberto [Cecchi] di Ser Mainardo, come 
sopra riportato (Cfr. nota 11). Pertanto, se le fonti d’archivio sono corrette, Ser Mainardo, oltre che di 
Altino più volte menzionato, fu padre anche di Roberto e di Angelo. Quest’ultimi ebbero ciascuno un 
figlio chiamato Francesco ed entrambi sacerdoti (nipoti di Ser Mainardo). Dalla famiglia Cecchi pro- 
venivano sacerdoti rettori sia di Vinci che di Paterno, anche dopo il Quattro-cento. L'inventario degli 
oggetti rubati fu stilato dal notaio Ser Donato di Nanni da San Miniato, rettore di S. Pantaleo “diocesi 
di Luc[c]ha”, rintracciato anche da Cianchi negli anni 1474 e 1480 (Cfr. R. CIANCHI, Ricerche, cit. 
in nota 3, p. 36, 68, 70). In chiesa vennero rubati arredi sacri preziosi come “un salterio da chiesa, cioè 
uno salmista”, “uno breviario in carta pecora, con crosta di panno”, “uno libro da cantare, tagliato la 
magior parte delle carte dove erano i minij, di danno di fiorini 3 o più”. Per poter penetrare in chiesa i 
ladri sfondarono con violenza il tetto, rompendo circa 1500 tegoli e “spezzarono” anche gli usci. Tra le 
“masseritie” trafugate: bigoncie, “tallaviuole” [tagliole] da pigliare lepri”, scodelle e piattelli da cucina, 
coppo da olio e bugno per la farina, botti per il vino, pennato, staia di cereali (grano, orzo) e legumi 
(ceci, piselli), chiavi e “tanaglie”. In particolare “una spada et uno coltello pistolese”. Nei secoli seguenti 
Pistoia divenne famosa per le fabbriche di ferriere, di armerie e di coltelli di precisione (come il “bisturi” 
per la chirurgia). I ladri entrarono “armata mano”. L’'inventario fu fatto da un messo della Signoria di 
Firenze che stette a S. Lucia una settimana. Il testo completo del “fattaccio” è il seguente: 

“Anno 1477. Richordo delle masseritie et beni cavati della Chiesa di S.cta Lucia a Paterno, per ser 
Andrea di Michele d’Antonio di Salvi, quando fu cappellano di detta chiesa, e’ quali beni gli furono 
consegnati per decto inventario scripto per mano di ser Donato di Nanni da S.cto Miniato, rectore di 
S.cto Pantaleo, diocesi di Lucha. E cioè: 

-Uno salterio da chiesa, cioè uno salmista; 2 cerotti di legno da tené in sullo altare, e lume; 2 
bigoncie et uno bigonciuolo da vendemmiare; Una cassetta dentrovi libre dodici di farina; 11 pezzi 
di tallaviuole da pigliare lepri; 2 scodelle di maiuolica; 6 scodelle domaschine cogli scodellini, et dua 
piattelli domaschini; uno coppo da olio et una bugnola da tenere la farina; 2 botti di tenuta di barili 
18; Uno pennato da boscho, et una zucha da olio, grande, et altre masserizie da cucina. Queste sono le 
masseritie e beni tolti e rubati; adì 4 di luglio 1477, per Giovambaptista di Salvi, et ser Andrea di Mi- 
chele d’Antonio di Salvi da Vinci, a me prete Francesco d'Angelo di ser Mainardo, della casa et chiesa di 
S.cta Lucia a Paterno: Uno breviario in carta pecora, con crosta di panno; una camicia sottile da huomo 
quasi nuova; uno carnaviuolo dentrovi uno fazoletto sottile dentrovi certa moneta, non sapente quanta; 
el fructo di staia 2 e mezzo di grano, che stimo sia staia 24; el fructo di staia 4 e mezo d’orzo, che stimo 


218 


Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





un Salvius Antonij Salvi (di Vinci)!. Lo stesso (Salvi Antonij Salvi de Vincio), nel 1453, 
compare in una vendita di beni della chiesa di Vinci (“una casa con orto nel castello 
di Vinci”), come confinante!’ E ancora un Nardus Salvi a Faltognano nel 1452! e 
un Meus Salvi a Bacchereto nel 14388; in altro elenco citato come Meus Salvi Baldi. 


* 


Nella seconda facciata di c. 379 si scrisse una sorta di inventario costituito da 
un elenco di capi di vestiario piuttosto preziosi, per ricordo o per loro valore non 
sappiamo, probabilmente mai usati, e qualche utensile. 

Nello specifico: un pettine d’avorio, una berretta di velluto con rifiniture ar- 
gentate, un sacchetto con zafferano (merce molto rara e costosa), un asciugatoio, 
2 tovaglie non molto grandi e un’altra tovaglia (tutte ornate con verghe di bamba- 
gia), varie camicie, un “gamurrino”, un orciolo (piccolo orcio — coppo o boccale) 
di rame. Lucia di Ser Piero di Zoso, madre di Ser Piero e quindi nonna paterna di 

i : de PES 
Leonardo, a Toia di Bacchereto aveva una “fornace da orcioli”, per la lavorazione 
della ceramica. Sembra quasi un piccolo corredo, per lo più femminile. 

È preceduto da una piccola intestazione (Fig. 1). 

Il testo è il seguente: 


“Cose tolte di casa Mon[n]a Chaterina daltino [di Altino] alla morte di Ser Piero della 
quale se ne fara scri[p]ca 

- Uno pettine di vavorio [avorio] 

- Una Li; di vel(I)uto azur(r) o fornita dariento [d’argento] 

- Uno sac(c)hetto di vallessio verde che vera [vi era] dent.o [dentro] oncie sette di zaffe- 
rano 


sia 24 d’orzo; Una spada et uno coltello pistolese, et una chiaverina; Uno paio di capponi grassi vechi, 
che allora valeano lire 2, soldi 15; Uno migliaio et mezzo di tegoli ruppeno per entrare in chiesa quando 
sfondarono il tecto, et racconciatura di decti tecti ed uscia spezate lire 50 e più costeranno; Uno paio 
di tanaglie da cavar aguti [acuti=chiodi]; Uno paio di chiavi, una dell’uscio della camera, e l’uscio della 
via; Un libro da cantare, tagliato la magior parte delle carte dove erano i mini}, di danno di fiorini 3 o 
più; el fructo di uno quarto et mezzo di ceci, che stimo siano staia 3 o più, et altre oncie, cioè piselli et 
lenti; Una lettera della Signoria di Firenze, porto et Tavolaccino, a quegli che erano entrati nella chiesa, 
armata mano [...] Una lettera della Signoria al Tavolaccino che, veduta la presente, tornassi, et a me 
prete Francesco dirubato consegnassi tutte le masserizie et beni di decta chiesa; costò lire 1, soldi 6”. 
Come detto, l'inventario della “ruberia” venne redatto dal notaio Ser Donato di Nanni da S. Miniato, 
rettore della chiesa di S. Pantaleo. Intorno a Vinci, in precedenza, rimane notizia di altri notai di S. 
Miniato. Nel 1438, ad esempio, il confinante di un bene a S. Lucia a Paterno (“Una casa con palco e 
in ruina posta nel popolo di Sancta Lucia a Paterno nel Comune di Vincio...”) era Ser Niccolao di Ser 
Lodovico da S. Miniato (Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, p. 70). 

5 Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, p. 35 e p. 148 

!6 Ibidem, pp. 43-44 

! Ibidem, pp. 339-342. Nel 1455 un atto pubblico simile a questo firmato dal notaio Ser Bal- 
dassarre di Ser Piero Zosi da Bacchereto, fratello di Lucia, nonna paterna di Leonardo (Ibidem, pp. 
340-341 (figg. 65-66). 

!8 Ibidem, p. 353-358. La famiglia viene data come presente ancora a Vinci. Renzo Cianchi, nel 
1977, parlando della “porticciuola” del castello nel 1635, vicino alla quale abitava la famiglia Baldassini, 
scrisse che il palazzo dei Baldassini, in via Roma, è posseduto in parte da Zingoni e in parte da Salvi” 


(CIANCHI, Giovanni da Vinci, p. 4). 


219 


Mario Bruschi 





- Uno asciugatoio nuovo con verghe bianche 

- Una coppia di tovagliuole apichate insieme con verghe di bambaxa [bambagia] cherano 
[che erano] di Mon(n)a Lisa don(n)a di Pagolo Pensa alias Ma[n]zetti (?) 

- Una tovagliola bella di verghe di bambaxa era dorso [di Orso] di Giusto 

- Uno suchio (?) bello era di M.a Maxa di Salvi 

- Uno palletto di ferro 

- Alcune camiscie di quelle di Ser Piero e di M.a Catterina 

- Uno orciolo di rame 

- Uno Gamur(r)ino rosato che fu di Ser Piero Et Generalmente ognaltra cosa che fusse 
stata levata di casa di M.a Catterina da dieci soldi in su che furturamente fussino state tolte 
di detta casa che in fra termine di dieci dì debbano esse rassegnate et passato detto termine 
se ne fara scomunicha. 

Racomandare Pascuino di Pagolo cioe la sua fanciulla”. 


Come si legge, si faceva esplicito divieto di asportare con furto (furturamente) 
tutti questi oggetti dalla casa di Monna Caterina. Nel caso fosse accaduto, si in- 
timava di riconsegnare il maltolto nel giro di dieci giorni, pena la scomunica in 
caso contrario. 

Era la pena che veniva comminata ai ladri pubblici, spesso anonimi, che non 
si potevano colpire personalmente. 

Restò valida anche nei secoli seguenti. Ad esempio, all’ingresso delle bibliote- 
che pubbliche, per evitare il furto dei libri, si apponeva un cartiglio con la dicitu- 
ra: “Excommunicatio contra extrahentes”. 

A questo punto, oltre notizie su pochi personaggi menzionati nel documen- 
to, analizzati uno per uno, appare di straordinaria importanza poter identificare, 
per quanto possibile, i due “protagonisti”: Monna Caterina di Altino e Ser Piero. 
Altino, un nome alquanto raro e singolare, e soprattutto suo padre Ser Mainardo 
sono figure non sconosciute nel piccolo borgo di Vinci prima e dopo la metà del 
Quattrocento. A prima vista ‘di Altino’, come di norma, è da credere un patroni- 
mico: Caterina figlia di Altino. Altrimenti, se fosse da intendere come moglie, si 
troverebbe riportata la dicitura donna di ..., come abbiamo reperito infinite volte e 
come si dà esempio in questo stesso documento (Monna Lisa donna di Pagolo ...). 

Invece, una carta d’archivio da me scoperta, e pubblicata, riporta chiaramen- 
te, nel 1469 quando subentrò a Vinci il nuovo rettore al posto di prete Piero 
di Bartolomeo Pagneca, “...dominam Altini Ser Mainardi de Vincio predictam 
et dominam Cathel[ri]nam uxore[m] dicti Altini et filios et heredes Francisci et 
Simoni fratres [...] Roberti Ser Mainardi de Vincio ...”!. Dunque Caterina era 
moglie di Altino di Ser Mainardo. 

Fra 1468 e 1469 “il beneficio di S. Matteo nella chiesa di Vinci era stato 
confermato a Giovanni di Benedetto di Goro Bellucci. Con questo beneficio 
abbiamo trovato coinvolto anche prete Piero di Pagneca, intorno al 1437. A que- 
sta conferma furono presenti Ser Mainardo, un altro di Vinci e Ser Andrea di 
Giuliano”?°, In questa occasione il notaio fu qualificato come “Ser Mainardi de 
Florentia ca/zaiuolo”?; altre volte “Ser Mainardi di Vincio”?. Non deve stupire 





! BRUSCHI, Gente di Leonardo, p. 55, fig. 23. 
20 Ibidem, p. 51, p. 54 (nota 93). 

2! Ibidem, p. 53. 

2 Ibidem, p. 54. 


220 


Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





tale modesta professione per un notaio. Abbiamo documentato in altra sede, ad 
esempio, che il notaio dell la Curia episcopale pistoiese di quello stesso momento 
storico, Ser Lodovico di Luca, che ebbe anche corrispondenza epistolare con Ser 
Piero padre di Leonardo, era anche bdeccaio (macellaio)?. 

Per qualche tempo, anche Francesco di Antonio da Vinci, fratello minore di 
Ser Piero e famoso zio di Leonardo, esercitò a Firenze il mestiere di calzaiolo. 
“Francischus chal/zaiuolus” è detto nel 1467, poco dopo la morte di Antonio, suo 

padre. Non avendo un lavoro preciso e fisso (a 22 anni “Stassi in villa et non fa 
nulla °) si adattò a tale occupazione artigianale con Giovanni Amadori, suocero di 
suo fratello Ser Piero?4. 

Ser Mainardo, come dimostrato, è citato come “de Vincio” e come “de Floren- 
tia”. “Ciò è spiegabile col fatto che gli appartenenti alla famiglia dei Cecchi [come 
lo era Ser Mainardo] si firmavano con ambedue le diciture, a testimonianza delle 
loro antiche origini (“de Vincio”) e della loro attuale residenza (“de Florentia”). 
Ser Mainardo de Vincio è noto per aver rogato, il 18 dic. 1444, l’approvazione 
degli statuti dell'Arte dei Medici e Speziali di Firenze, che contengono anche 
quelli dell’Arte dei Pittori. 

Cianchi informa, inoltre, che “un altro sacerdote, Francesco di Roberto da 
Vinci, zio di Giovambattista, ebbe il beneficio della Cappella di S. Giovanni e 
Biagio in S. Croce di Vinci, come dall’elezione rogata Ser Piero d'Antonio di 
Vinci, sotto dì 20 di dicembre 1460. Simone (da cui discende Giovambattista), 
Domenico e Francesco di Roberto di Ser Mainardo Cecchi denunziarono alla 
Decima del 1480 il possesso di una “meza casa posta nel Comune di Vinci per 
nostro habitare conf. a 1° piazza a 2° Bernardo di messer Lorenzo Ridolfi a 3° 
Altino di Ser Mainardo [...] et l’altra metà è d'Altino di Ser Mainardo per suo 
habitare”. Questa casa corrisponde, in linea di massima, per i confini (piazza e 
Ridolfi) a quella che Giovambattista Cecchi, figlio di Simone, vendette allo stesso 
Bernardo Ridolfi, senza contratto pubblico, _ in essa poteva benissimo trovarsi 
l’osteria affittata a Giovanni da Vinci, ultimo fratellastro di Leonardo”? 

“Per il 1470 sono tramandate vicende riguardanti prete Piero di Bartolomeo, 
ex — rettore di Vinci, e problemi legati alla sua eredità. Curò questi suoi interessi 
Altino di Ser Mainardo; la cosa si spiega col fatto che entrambi erano della fami- 
glia Cecchi, e quindi parenti. 

Dietro precisa richiesta di Altino, il nuovo rettore di Vinci, prete Andrea di 
Antonio, fu riconosciuto debitore di alcune masserizie”?°. “I discendenti di Ser 
Mainardo avevano possessi a S. Amato ed Anchiano, ed una casa nel borgo di 
Vinci, sulla “piazza del mercatale”, andata in parte ai Ridolfi e in parte a Ser Pie- 
ro di Pagneca. Avevano anche una casa nel castello, a confine con le mura e in 
parte con il Convento di S. Pier Martire di Firenze, i cui beni andarono poi allo 
Spedale di S. Bonifazio. 

Quest'ultima casa, definita “un casolare”, fu venduta a Ser Piero da Vinci che 


2. Cfr. M. BRUSCHI, Il Paesaggio di Leonardo datato 1473, il disegno RL 12395 e alcune “artifi- 
ziose invenzioni”, Pistoia 2019, p. 34 (nota 56). 

2 Cfr. E. ULIVI, Per la genealogia di Leonardo, Firenze 2008, p. 30. 

2. Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, pp. 54-56. 

26. Ibidem, p. 58. 


221 


Mario Bruschi 





l’acquistò da Altino di Ser Mainardo e dai suoi figli con contratto del 1 marzo 
1479. Ser Piero ne denunciò il possesso al Catasto del 1480 e ripetè la denuncia 
alla Decima del 1498. 

I Cecchi fiorentini, oltre che essere imparentati con quelli di S. Amato, ave- 
vano con loro interessi a comune. Bartolomeo, il padre di Ser Piero rettore di 
Vinci che battezzò Leonardo, era stato anche tutore di Ser Mainardo. Lo dichiara 


quest’ultimo nella portata al Catasto del 1427”?7. 


* 


Dopo “Monna Chaterina” di Altino, interessa sommamente tentare di indivi- 
duare il personaggio definito “Ser Piero”. Proprio a Vinci, singolarmente, in quel 
lasso di tempo vivevano addirittura tre uomini chiamati Ser Piero. Questi tre, 
oltre che omonimi e contemporanei, erano anche tutti notai: Ser Piero Guiduc- 
ci, Ser Piero di Bartolomeo Pagneca, Ser Piero d’Antonio da Vinci. I primi due 
sacerdoti. Escludendo, naturalmente, il prete Piero Guiducci, che ebbe la rettoria 
di varie cappelle in S. Croce e poi titolare della chiesa di S. Pantaleo, prossima a 
Vinci, il maggiore indiziato, a nostro avviso, risulta Ser Piero padre di Leonardo. 

Del figliolo di Pagneca, battezzatore di Leonardo, ho potuto documentare che 
nel 1469 non era più rettore di Vinci°8. Dopo tale data, di lui non abbiamo più 
riscontri biografici. 

Ser Piero d’Antonio da Vinci morì il 9 luglio 1504. Lo stesso Leonardo lasciò 
traccia, fra i suoi appunti, dell’avvenimento: “Addì 9 di luglio in mercoledì a 
ore 7 morì Ser Piero da Vinci notaio al palagio del podestà. Mio padre, a ore 7. 
Era d’età d’anni 80. Lasciò 10 figlioli masci e 2 femmine”. Un mese dopo, il 12 
agosto 1504, forse scosso e impressionato dalla scomparsa del fratello maggiore 
ottuagenario, si affrettò a fare testamento suo fratello Francesco, zio di Leonardo. 

Dei personaggi minori presenti nell'elenco come possessori di biancheria, 
sempre ricordati al passato (erz, erano) per indicare che gli oggetti si trovavano 
in quella casa da tempo, “Monna Lisa donna di Pagolo Pensa” è figura del tutto 
ignota. “Monna Maxa [Masa — Tommasa] di Salvi” ugualmente. Nella prima 
metà del sec. XV, Cianchi ha reperito vari “Maxo” della famiglia Buti di Vinci, 
residenti con casa e terra a S. Pantaleo, in Campo Zeppi?”?. Il personaggio ricorda- 


”. CIANCHI, Giovanni da Vinci, p. 6. 

28. Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, pp. 53-54. Ultimamente crediamo di aver scoperto, rela- 
tivo all'anno 1389, il possibile nonno del rettore di Vinci che amministrò il sacramento del battesimo 
a Leonardo: Piero di Bartolomeo da Lamporecchio (Cfr. BRUSCHI, Il paesaggio, cit. in nota 23, pp. 
31-33). Piero di Bartolomeo si trova citato anche, per il 1419, nello Statuto di Lamporecchio del 1406 
(Cfr. Lo Statuto ..., a cura di Giampaolo Francesconi, Pistoia 2011, p. 149, Presentazione di Carlo Pe- 
dretti). Ser Piero di Pagneca è sicuro che era già rettore di S. Croce a Vinci almeno dal 1444: “S. Croce 
di Vinci ... durante vita et vivente domino Piero Bartolomey pangnieca. Rector dicte ecclesie ...” (AVP, 
IIXG:17::3); 

2 Cfr. CIANCHI, Ricerche, pp. 18-19, 32. Circa Pagolo Pensa/o, gli Statuti di Lam-porecchio 
(cfr. nota 28) ricordano, fra gli uomini di quel Comune, per il 1416, un Ser Luperello di Penso (p. 
145). Dunque, anche costui un notaio (il particolare non è irrilevante). A Collececeri (Lamporecchio), 
intorno alla metà del Quattrocento, è attestata la presenza di un tal “Luparello” (ASP, 531, c.81). La fa- 
miglia Luparelli/Luperelli fu legata da vincoli stretti di parentela con i ‘da Vinci’. Nanna Luperelli sposò 


222 


Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





to al termine della carta, del quale si chiede la raccomandazione per la sua figlio- 
la, vale a dire “Pascuino [Pasquino] di Pagolo”, è anch'esso avvolto nel mistero. 
Cianchi ha trovato qualcuno con questo nome, sempre della famiglia Buti®°. Io 
ho reperito, nel 1444, un “Pasquino Paulini Pasquini” in un atto stipulato in casa 
di Ser Piero di Pagneca, rettore di Vinci, per parrocchiani di S. Lorenzo Arniani, 
vicinissimo al castello di Vinci?!. Di più non saprei dire. 

Assai diverso è il caso di Orso di Giusto, che aveva lasciato in questa casa 
“una tovagliola bella di verghe di bambagia”. Egli è uomo di cui i documenti 
serbano traccia e memoria. Cianchi, nel 1478, trovò menzionato in un atto come 
testimone il figlio Antonio: “Antonio orsi olim Justi nannis lippi”. Nel 1478 
Giusto risulta morto (olim=già). Anche costui era del “populo Sanctae Crucis de 
Vincio”?, 

Oltre Antonio, Orso aveva altro figliolo, di nome Giovanni. Ma Antonio e 
Giovanni non erano gli unici discendenti di Orso: “Giovanni d’Orso e frategli”*. 

Una carta relativa a un trentennio prima, al 1447, firmata dal notaio fiorenti- 
no Luca di Antonio da Vinci, che documenta la nuova elezione del rettore della 
cappella di S. Maria in S. Croce, ricorda il padre di Orso: “Justus Nannis lippi”34. 

Per il 1452, l’anno in cui nacque Leonardo, ho scoperto un documento che 
riguarda la chiesa di S. Maria a Faltognano. Scritto su pergamena, in lingua latina, 
riporta, fra i popolani presenti e testimoni anche “Giustus Nannis del Volpe”?. 
Vi sono anche esponenti delle famiglie Venzi, Cambiuzzi, Salvi, Vannucci. 

Tre anni dopo, nel 1455, un atto pubblico sulla falsariga di quello del 1452 
ricorda ancora molti popolani di Faltognano. Fra questi, “i fratelli “Sander Simo- 
nis” et “Antonius Simonis”, ma, stavolta, invece di riportare il nome del nonno di 
costoro (“Antonij”), come nel 1452, si identificano col soprannome di famiglia: del 
Volpe. Parimenti, i fratelli “Meus Nannis” e “Justus Nannis”, anch'essi qualificati 
come “del Volpe”. “Justus Nannis del Volpe” figurava anche nel 1452 (“Giustus”)?°. 
Questo soprannome dette origine a una famiglia che per lunghi secoli rimase stan- 
ziata nel territorio di Paterno, Faltognano, Vinci. In epoca tardo-ottocentesca i Vol- 
pi abitavano la casa di Anchiano. L'atto fu rogato dal notaio Ser Baldassarre di Piero 
Zosi da Bacchereto, fratello di Lucia, nonna paterna di Leonardo. 

Ancora un documento, rimasto finora inedito e reso noto da pochissimo tem- 





Antonio, primo figliolo legittimo di Ser Piero e fratellastro di Leonardo. Prete Alessio Luperelli (anche 
notaio, Ser Alexo) rivestì la carica di rettore di S. Croce a Vinci nella prima metà del Cinquecento. Pa- 
golo Penso, come quasi una consuetudine, aveva un soprannome (alias: detto ...). Nel documento, il 
nome risulta però quasi indecifrabile. Il notaio Luparello di Serso da Lamporecchio risulta aver rogato 
dal 1378 al 1414 (Cfr. E SZNURA, Le imbreviature dei notai pistoiesi nell'Archivio di Stato di Firenze: 
tipologia e censimento, in Pistoia e la Toscana nel Medioevo, Studi per Natale Rauty, Pistoia 1997, p. 223). 
È definito “Luparellus filius Sensi olim Baronis de Lamporecchio” (Ibidem, p. 201). 

30 Cfr. CIANCHI, Ricerche, p. 7, 8, 19, 20. 

3! Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, pp. 33-34. 

3. Cfr. CIANCHI, Ricerche, p. 69. Per Orso di Giusto, cfr. anche E. ULIVI, Sull’identità della 
madre di Leonardo, in B.S.P., CXI (2009), pp. 36-39. 

33. Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, 196. 

3 Ibidem, pp. 34-37. 

Ibidem, p. 339. 

36. Ibidem, pp. 339-343 e figg. 65-66. 


223 


Mario Bruschi 





po, stilato a Vinci il 3 maggio del 1478, conserva memoria di “Orsus Iusti Nannis 
Lippi”, insieme a “Sander Simonis Antonij” e a famiglie Vannucci, Parentini, 
Cecchi Salvetti, Cambuzzi**. Risulta di estremo interesse poiché si trova coinvol- 
to in prima persona Leonardo stesso. Il famoso figliolo di Ser Piero fu definito 
varie volte “figlio spurio” (Leonardi spurii filii dicti ser Petri). Si tratta di una 
clausola contrattuale riguardante Francesco d’Antonio da Vinci, zio di Leonardo. 

“Con questo contratto, rogato da ser Angiolo Dinuzzi, cancelliere del Comu- 
ne di Vinci [...] si concede a livello a Francesco di Antonio da Vinci, che agisce 
anche per conto del fratello ser Piero, il mulino comunale situato presso il castello 
di Vinci, con tutte le sue pertinenze. Questo tipo di concessione, detto anche 
enfiteusi o avellare, molto diffuso nell’Alto Medioevo, dal sec. XIV era stato in 
gran parte soppiantato da altri tipi di contratti più redditizi per il proprietario e 
il livello era rimasto in uso quasi soltanto per i beni di proprietà di enti pubblici, 
religiosi o laici, come in questo caso. 

Era un tipo di concessione molto vantaggiosa per il conduttore, sia per la 
lunga durata (era virtualmente eterno), sia per il tenue canone dovuto. La con- 
cessione prevedeva quasi sempre interventi per migliorare la produttività. Anche 
nel caso dei da Vinci è presente questa clausola: Francesco di Antonio da Vinci e 
il fratello si impegnano a costruire sull’area del mulino, che forse era in rovina o 
comunque non funzionava più, un altro mulino o frantoio che poteva essere su- 
baffittato ad altri per brevi periodi [...] I contraenti fanno inserire appositamente 
una clausola speciale: nel caso di morte dei due concessionari senza eredi legittimi 
e naturali, la validità del contratto si doveva estendere a Leonardo, ma solo per 
la durata della sua vita [...] Come si sa, la clausola non ebbe alcun effetto, in 
quanto la discendenza legittima di ser Piero ci fu e in abbondanza. In ogni caso il 
mulino figurava ancora ci i cespiti di entrata di Francesco da Vinci in occasione 
della denuncia fiscale del 1497, ma non sappiamo a chi sia passato dopo la sua 
morte. Leonardo figura, a detta del notaio, presente all’atto e consenziente alle 
varie enunciazioni; si può presumere pertanto che tale clausola a suo favore fosse 
voluta più dallo zio Francesco che dal padre Piero, che a quell'epoca aveva già 
avuto almeno un figlio maschio legittimo”?. 

Come si vede, e come si evince chiaramente dai reperti documentari, Orso di 
Giusto e i suoi figlioli ebbero grande familiarità e strettissimi legami e interessi 
con Ser Piero, il fratello Francesco e tutta la stirpe dei ‘da Vinci’. Analoga situa- 
zione la possiamo riscontrare con Ser Mainardo, il figlio Altino, e la famiglia dei 
Cecchi da stessa di Ser Piero di Bartolomeo Pagneca). 

Considerato, dunque, che il Ser Piero qui in oggetto sia, con grande probabi- 
lità, il padre di Leonardo, resterebbe da poter individuare la “casa” nella quale si 
trovavano “le cose” alla morte del notaio. Varie erano le abitazioni dei ‘da Vinci” 
e dei Cecchi nel castello di Vinci e negli immediati dintorni. A tal proposito, il 
pensiero corre a quella definita “un casolare”, ricordata in precedenza, venduta a 





37 


Cfr. Leonardo da Vinci. La vera immagine, a cura di V. Arrighi, A. Bellinazzi, E. Villata, Firenze, 
Giunti 2005, p. 129, scheda a cura di Vanna Arrighi. 

38. Per queste famiglie, anche BRUSCHI, Gente di Leonardo, passim. Qualcuno dei Parentini era 
detto ‘Pannocchia. 

3° Cfr. La vera immagine, p. 130. 


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Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





Ser Piero che l’acquistò da Altino di ser Mainardo nel 1479. Ser Piero la denunciò 
al catasto fino al 1498, cioè fino a pochi anni dalla sua morte (1504). “Casolare”, 
quindi, non più dei Cecchi e forse già da loro poco utilizzato (tanto che Altino 
provvide alla vendita); Ser Piero notaio dimorava quasi stabilmente a Firenze e 
veniva raramente a Vinci. Nella casa vi erano, pertanto, oggetti di famiglia del 
nuovo proprietario ma anche, è pensabile, ricordi (di corredi) del uu a 
testimonianza dei vari passaggi da Ser Piero a Altino e poi alla moglie Monna 
Caterina. Le due famiglie erano assai numerose e, si può ritenere, che la casa, per 
quanto venduta e comprata, fosse un immobile quasi sostanzialmente indiviso. 
Come è spesso accaduto, soprattutto per biancheria e corredi matrimoniali nelle 
nostre campagne toscane, tali “cose” venivano gelosamente conservate e quasi 
mai usate. Che la casa non fosse stabilmente Li. lo lascia supporre anche 
l'espresso divieto di portare via abusivamente oggetti da essa. “Alla morte di Ser 
Piero” si fece “pulizia”. 

La carta d’archivio conservata nell’Archivio Vescovile di Pistoia non deve stu- 
pire per l’attuale collocazione. Il rettore di Vinci (parrocchia della Diocesi pisto- 
iese), come tutti i sacerdoti al cambio della guida pastorale, si trovò coinvolto an- 
che nella successione di beni personali e di dh Di ciò era tenuto a rendere 
conto alla Curia episcopale di Pistoia da cui dipendeva la chiesa di Vinci. 

Inoltre, lo stesso Ser Piero era stato in passato in contatto con il suo omologo 
notaio della Curia episcopale pistoiese, al tempo Ser Ludovico di Luca, come È 
mostrano le due lettere rimaste conservate nell’AVP, a tutti sconosciute, scoperte 
da me, e pubblicate, dopo più di cinque secoli. Furono scritte da Ser Piero nel 
1453 e ni 146849, 

Il notaio Ludovico di Luca, della Cancelleria vescovile di Pistoia, oltre il 1453 
e il 1468, è stato reperito anche nel 1459, come firmatario ufficiale garante circa 
la nomina di un pievano di Bacchereto*!. Ser Ludovico di Luca a essere 
certamente figlio del notaio Ser Luca di Antonio di Vinci. Questo spiega perché 
era conosciuto bene da Ser Piero da Vinci. Sappiamo di “un atto stilato nel 1453 
da Ser Luca di Antonio dei Ticci nel popolo di S. Croce a Vinci, con il quale 
Antonio, il padre di Ser Piero, nominò due procuratori, Altino di Ser Mainardo 
e Marco di Ser Tommè”*. Già Antonio da Vinci, padre di Ser Piero, era dun- 





40 Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, pp. 176-190. 

4! Ibidem, p. 356. Sempre a Bacchereto, nel 1455, Ser Ludovico di Luca firmò un atto per la 
chiesa di S. Biagio a Fusciano (BRUSCHI, Gente di Leonardo, p. 31 (fig. 67)). Questo notaio ho trovato 
ricordato anche nei Libri dell'Opera di S. Giovanni della Pieve di Valdibure, luogo di campagna a nord 
della città di Pistoia. Una volta è definito “Ser Lodovicho del veschovado”. Le memorie per il notaio 
sono riferite agli anni 1447, 1449 e 1465 (due volte) (Cfr. M. BRUSCHI, Nuovi documenti per Valdi- 
bure dagli archivi pistoiesi, in La Pieve di S. Giovanni a Montecuccoli e il territorio della valle della Bure, 
Pistoia 1997, p. 45). 

#2. Cfr. ULIVI, Per la genealogia, p. 46. Marco di Ser Tomme era della famiglia dei Bracci. Risulta- 
no una nobile stirpe di Firenze ma che anche a Vinci possedevano una “villa” e molti beni dislocati nel 
circondario (Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, pp. 586-587, ad indicem). Circa i notai della famiglia 
Ticci, Sznura ha trovato un Bartolomeo Ticci, che rogò dal 1533 al 1565 (Cfr. SZNURA, Le imbre- 
viature ..., cit. in nota 29). In altra fonte documentaria è attestato un notaio Ziîci di Tinga (1352) e un 
notaio Berto Tici (1542) (Cfr. La Chiesa pistoiese e la sua cattedrale nel tempo, vol. XII, Indice generale, 
a cura di Alfredo Pacini, Pistoia 2004, p. 147). Io ho reperito esponenti della famiglia Tocci di Vinci, 
famiglia che ebbe relazioni strettissime con Leonardo stesso, in quanto implicata nell’eredità di France- 


225 


Mario Bruschi 





que da tempo precedente in stretta relazione con il notaio Ser Luca di Antonio. 
Ambedue le famiglie: quasi tutti notai e di Vinci. Ritorna il ricordo, guarda caso, 
anche di Altino di Ser Mainardo (della famiglia Cecchi di Vinci) in qualità di 
procuratore. 

Di Ser Luca di Antonio “de Vincio civis et notarius publicus florentinus” sono 
stati reperiti e resi noti importanti documenti per gli anni 1447, 1448 e 14503. 


* 


Certo, suscita davvero notevole impressione la memoria di “alcune camiscie di 

uelle di Ser Piero e di Monna Catterina”. L'espressione, riferita ai due personaggi 

abbinati, denota indubbiamente particolare intimità, non sappiamo se per stretta 
‘parentela’ o per altri motivi a noi ignoti o soltanto ipotizzabili. 

Infine, l’ultimo capo di vestiario suscita ancor più un'emozione indescrivibile: 
“Uno Gamur(r)ino rosato che fu di Ser Piero”. E difficile capire se “fu” debba 
intendersi nel senso che era indossato dal notaio oppure che era di proprietà e 
apparteneva a lui. Il gamurrino è “quel vestire che portano le donne su la camicia. 
Differente un tempo dalla gamurra e non un suo diminutivo. Camiciuola da 
affibbiarsi con un nastro; sempre stofta di colori accesi” La gamurra è “una veste 
femminile ampia e lunga, aperta davanti sopra la tunica, generalmente senza ma- 
niche; nei secc. XV e XVI era la veste più comunemente usata, divisa in sottana 
e corpetto o in forma di sopravveste intera, chiusa al collo o ampiamente scol- 
lata. Indumento a forma di sopravveste usato nell’abbigliamento maschile; veste 
vellutata, spesso di colori vivaci e allegri. Per lo più, veste da donna che si porta 
per casa. Molto in uso fra i contadini (come il gamurrino)” (S. Battaglia, Grande 
dizionario della lingua italiana, VII, UTET 1970, p. 577). Un ricordo, per Ser 
Piero, della “Chaterina?”. 

Ma, in particolarissimo modo, attira l’attenzione il suo colore: rosato. La spe- 
cificità visiva della stoffa rimanda subito il pensiero, senza dubbio suggestivo (ma 
non poi tanto), a un capo indossato proprio dal figliolo “illegittimo” Ti Ser Piero, 
Leonardo in persona, così come risulta da una celebre descrizione del suo aspetto 
fisico e dell’eleganza del suo abbigliamento tramandatici dall’Anonimo Gaddiano: 


“Era di bella persona, proportionata, gratiata et bello aspetto. Portava uno pitocco rosato 
corto sino al ginocchio che allora s'usavano i vestiri lunghi, haveva sino al mezo in petto una 
bella capellaia et anellata et ben composta”. 


Il gamurrino rosato rimasto custodito in questa casa di Vinci sarà stato senz’al- 
tro visto, se non addirittura usato, da Leonardo, il quale, eccentrico com'era in 
tutto, portava un pitocco corto al posto dei “vestiri lunghi”, come la gamurra, 
ma rosato. 

Sempre Leonardo ci ha lasciato inventari di sue cose (vestiti e libri) come quel- 


sco da Vinci, zio di Leonardo. Nel luogo detto “a Gello”, popolo di Vinci, alcuni Tocci confinavano, in 
un uliveto, con “Ser Domenicho di Ser Piero da Vinci”, fratellastro di Leonardo (BRUSCHI, Gente di 
Leonardo, pp. 87-91). 

4. Cfr. BRUSCHI, Gente di Leonardo, pp. 34-35 e figg. 13-14; pp. 148-150 e fig. 32; pp. 292- 
294. 


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Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





lo famoso dove elenca quanto contenuto “in cassa al munistero”, cioè nel cassone 
che aveva fatto trasportare nel convento di S. Maria Novella dall'altro convento 
fiorentino dei Serviti della Santissima Annunziata. 

Siamo nell’ottobre del 1503, a Firenze. Nel grosso baule, insieme ai suoi libri 
più preziosi, l'artista di Vinci figliolo di Ser Piero aveva accomodato abiti di stoffa 
pregiata tra i quali “berrette e camicie”. Molti capi di colore “rosa” e “di velluto” 
come una gabbanella (“una gabanella di rosa secha”), una veste catalana (“un 
catelano rosato”), calze (“un pa di calze in rosa secha”), berrette (“due berrette 
rosate”) (Fig. 2). 

E, come “il gamurrino rosato che fu di Ser Piero”, anche nella lista di Leo- 
nardo compaiono descritti e ricordati abiti che non erano suoi come una “cappa 
di foggia francese già appartenuta a Cesare Borgia, e forse donata proprio da lui, 

uando Leonardo era al suo servizio, tra 1502 e 1503” (“una cappa alla franzese 
del duca Valentino”)? 

Come si vede, scandagliando attentamente il documento da me scoperto e 
l'inventario di Leonardo testé richiamato, le affinità risultano notevoli e non po- 
che le somiglianze. In fondo, le usanze e le costumanze del tempo erano quelle 
e gli abitanti di Vinci e Leonardo, da buoni toscani del Quattrocento, vi si atte- 
nevano. 

In più, come sottolinea acutamente Carlo Vecce, “per nostra fortuna, Leonar- 
do aveva la mania degli elenchi. Annotava di tutto, dii titoli dei capitoli di libri 
solo progettati alle liste della spesa e dei soldi che prestava, dagli utensili della 
bottega ai capi d’abbigliamento”. 

Ultima singolare coincidenza tra i due inventari: Leonardo appuntò quanto si 
trovava “in cassa al munistero” nell’ottobre del 1503, a Firenze; l'elenco della casa 
di Vinci fu scritto “alla morte di Ser Piero”, avvenuta nel luglio del 1504. Pochi 
mesi di distanza e poca lontananza fra i due luoghi. 


* 


Relativamente a queste ultime riflessioni, sia consentita una digressione, che 
poi più che tale è una integrazione o piuttosto sviluppo delle vicende sopra espo- 
ste. In questo preciso tempo (anni 1503-1504), Leonardo è completamente as- 
sorbito dall’impegno dei preparativi per la Battaglia di Anghiari da dipingere per 
la Signoria fiorentina in Palazzo Vecchio. Deve seguire costantemente i lavori 
delle maestranze (muratori, legnaioli,) che approntano ponti e ponteggi di legno 
nella grande sala. Ma non si nega qualche distrazione, come quella della visita a 
Fiesole, poco sopra Firenze, per studiare o, forse meglio, per continuare a indaga- 
re e approfondire passati interessi scientifici e naturali; in particolare il volo degli 
uccelli e, segnatamente, della specie dei rapaci (“cortone uccello di rapina... addì 
14 di marzo”). E, proprio a Fiesole, nel 1503 l'artista aveva comperato anche 
due appezzamenti di terreno. L’anno seguente, il 1504 è un anno cruciale per la 





44 Cfr. C. VECCE, La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice 2017, pp. 
77-79. 
5. Ibidem, p. 62. Fra l’altro, pochi mesi prima (nell'estate del 1503) Leonardo aveva acquistato 


due pezzi di terra a Fiesole. 


227 


Mario Bruschi 





biografia vinciana. Avvennero fatti salienti nella vita del maestro, ormai attempa- 
to: nel luglio morì Ser Piero da Vinci, suo padre, come già ricordato, e, il mese 
seguente, lo zio Francesco, senza figli e che era stato quasi il suo vero padre, fece 
testamento e lasciò in eredità i beni al nipote prediletto Leonardo (per quanto 
“illegiptimo”), scatenando, come sappiamo, la reazione violenta dei nipoti natu- 
rali che dettero vita a una causa legale, infine vinta da Leonardo, erede designato. 

Trovandosi a Firenze, per questi pressanti motivi familiari, risulta quasi im- 
possibile, a mio avviso, non ipotizzare, anche soltanto con il semplice buon senso 
comune, che l’anziano maestro non abbia pensata e fatta “una scappata” a Vinci, 
non lontana. Era il luogo della sua nascita e dei suoi anni e sogni giovanili; avreb- 
be rivisto l’affezionatissimo zio Francesco e, grazie all'eredità, avrebbe inoltre 
sentito ancor più il senso delle sue radici come proprietario dei beni del vecchio 
parente, nel suo paese. 

Dopo aver girovagato per vari luoghi d’Italia, le vicende della vita e della fa- 
miglia lo portavano ancora verso Vinci; il pensiero e il cuore “volavano” sempre, 
come il vento, verso le terre del “suo” Montalbano. 

Ha scritto Carlo Pedretti: “Leonardo resta un toscano del Quattrocento e 
i paesaggi da lui “invenzionati”, vissuti come sono attraverso l’analisi della sua 
prospettiva aerea, che è poi prospettiva della memoria, sono quelli della sua terra, 
del Montalbano con i suoi declivi e le sue forre, i suoi uliveti e vigneti e i suoi 
boschi, che il sole illumina con mutevoli effetti di luce al continuo avvicendarsi 
delle nuvole”. 

Venendo quindi alla digressione, io credo che si rendano necessarie ulteriori 
considerazioni circa proprio l’ultima delle “profezie” di Leonardo, quella relativa 
al possibile volo umano, imitando il volo degli uccelli. Aveva appuntato su un 

uaderno la celebre frase: “Piglierà il primo 1h il grande uccello sopra del dosso 
del suo magno Cecero, e empiendo l'universo di stupore, empiendo di sua fama 
tutte le scritture, e groria eterna al nido dove nacque”. E ancora: “Quando l’uc- 
cello ha gran larghezza d’ali e poca coda, e che esso si voglia innalzare, allora esso 
alzerà forte le ali e girando riceverà il vento sotto le ali, ti qual vento facendosegli 
intorno lo spingerà molto con prestezza ...” (V. U., £. 18v). 

AI riguardo, Carlo Vecce ha osservato: “Forte delle sue nuove conoscenze di 
meccanica e di anatomia comparata, Leonardo ora comprende i delicati mec- 
canismi di equilibrio fra le parti del corpo dell’uccello, l'assetto delle sue ali, la 
posizione del baricentro, il volo planato. Il sogno inseguito dagli anni milanesi 
era quello di permettere all’uomo di librarsi in aria, e di scorrere, come gli uccelli, 
sulle pianure e sulle montagne. Allora, con ottimismo, Leonardo riteneva che alla 
soluzione del problema (nient'altro che un problema matematico) bastasse solo 
dare alla du l’anima dell’uomo. 

Ora, non è più possibile pensare a complicati meccanismi in grado di vincere 
artificialmente la gravità: la forza muscolare dell’uomo è insufficiente. Resta al- 
lora il volo planato, per mezzo di grandi ali leggere, montate sulle braccia, che 





4 Cfr. C. PEDRETTI, Le macchie di Leonardo, XLIV Lettura Vinciana (17 aprile 2004), Giunti 
ed., Vinci 2004, p. 33. 

47 Leonardo, Codice sul volo degli uccelli, (V.U., II cop.v). Il codice, dopo vicende turbinose, è ora 
conservato alla Biblioteca Reale di Torino. 


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Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





possano sostenere il corpo umano sulle correnti d’aria. Il possibile si fa reale: forse 
viene condotto un esperimento con un rudimentale aliante, le cui deboli struttu- 
re però si frangono i molo... 

È possibile, ancora ai nostri giorni, sulle colline toscane e sulle montagne di 
non elevata altezza, osservare il volo di falchi o poiane che si alzano lentamente 
nel cielo, a cerchi concentrici, e guadagnare progressivamente quote più alte. Tali 
rapaci sono capaci anche, sfruttando le correnti ascensionali più o meno favore- 
voli, di restare immobili in aria, “allo stallo”, per scrutare meglio qualche possibile 
preda sulla terra. 

L'uccello di rapina si affida al vento; vince la resistenza della gravità terrestre 
utilizzando “il vento sotto le ali”, forza motrice di tutto. 

Orbene. Circa il luogo esatto dove Leonardo può aver tentato l'esperimento 
pratico del volo con un “trabiccolo” o “aggeggio” da lui escogitato, per secoli si 
è sempre ritenuto, interpretando la celebre frase, al monte Ceceri presso Fiesole, 
sopra Firenze. 

Ma bisogna rapportarsi, per capire bene, al tempo di Leonardo, vale a dire alla 
seconda metà del Quattrocento. In questo senso, a mio parere, appaiono fonda- 
mentali alcune conoscenze. Innanzitutto le risultanze toponomastiche. Il monte 
Ceceri di Fiesole, più conosciuto da tutti, è rimasto come oronimo nel tempo e 
può aver certamente favorito tale ipotesi. Tuttavia, nel territorio vicino a Vinci, 
per l'esattezza a Lamporecchio, nel sec. XV esisteva (ed esiste) ‘Colli Ceceri’ (stor- 
piato in seguito in Colliceciori, Collececioli e Collicelli). Si tratta di colline del 
Montalbano piuttosto scoscese e precipitevoli, inframezzate da continue forre. 
Proprio a Colle Ceceri sorgeva il castello vescovile, con tanto di mura e torre’. 
Dirimpetto si ergeva (bia del potere avverso: il castello comunale sul pog- 
getto poi detto Castel Vecchio o Castellaccio. Ma, nel piccolo fazzoletto di terra, 
coesistevano anche il castello di Porciano e il castelletto di Giugnano, anch'essi 
con mura castellane e torre?®. Colliceceri, dunque, oltre a essere toponimo conti- 


48. Cfr. C. VECCE, Leonardo, Roma, Salerno ed. 2006, 2° ed., pp. 254-255. Colpisce, sulla coper- 
tina del codice sul Volo degli Uccelli, la nota di spesa: “in paglia” (Ibidem, p. 413, nota 135). La paglia, 
fra i vari scopi, si usava anche per attutire le cadute e i colpi violenti. Avevo partecipato all’amico Carlo 
Vecce le considerazioni sulla rilettura della questione del monte “Cecero”, in forma strettamente privata 
tramite corrispondenza epistolare. Lo studioso ha definito le mie riflessioni “assolutamente fondate”. È 
quindi con tale conforto più che autorevole che mi sono azzardato a divulgare le ipotesi qui avanzate. 

4° La situazione toponomastica e del territorio fra Vinci e Lamporecchio, al tempo di Leonardo, 
è stata delineata, attraverso circostanziate indagini archivistiche, in BRUSCHI, Il Paesaggio ... , cit. in 
nota 23, pp. 24-54. In precedenza, dal punto di vista strettamente storico, la zona è stata oggetto di 
uno studio approfondito da parte di G. FRANCESCONI, Episcopus amasciat homines, sed civitas punit 
maleficia, in Bullettino Storico Pistoiese, CVIII, 2006, pp. 13-50. A Collececeri possedeva beni anche la 
famiglia Cecchi (fra i quali figura Ser Piero di Bartolomeo Pagneca, rettore di Vinci, che battezzò Le- 
onardo) e pure il padre dell’ Accattabriga, il fornaciaio che sposò Caterina, la madre di Leonardo (Cfr. 
BRUSCHI, // Paesaggio ... , cit., pp. 31-33). E ancora. Dagli Estimi di Lamporecchio, nel cui territorio 
rientrava Collececeri (Colli Ceceri), risulta che detenevano proprietà esponenti della famiglia dei ‘da 
Vinci’: Eredi di Ser Domenico di Ser Piero (1566), Bartolomeo di Piero Vinci (1667), Pier Lorenzo 
Vinci (1725) (Ibidem, pp. 39-48). Per il “magno Cecero” fino ai nostri tempi si è sempre pensato sola- 
mente a Fiesole e a Firenze (il “nostro” Monte Ceceri): cfr. A. PAOLUCCI, La mente di Leonardo, a cura 
di Carlo Pedretti, Giunti 2006, p. 10. 

9° Per questi “castelli”, cfr. anche BRUSCHI, Gente di Leonardo, passim (ad indi- 


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Mario Bruschi 





nuamente modificato nella parlata e nei documenti è rimasto anche poco cono- 
sciuto, se non dagli abitanti del luogo. Dagli studiosi e dagli storici non toscani, 
e tantomeno non pistoiesi, risulta Lil ignorato. Nel linguaggio popolare 
toscano (anche fiorentino e pistoiese) ‘ceceri’ sta per cigni; quindi ‘Colle Ceceri” 
sono i colli dei cigni”. Proprio in tale medesimo luogo aveva fissato la sua ultima 
residenza, una volta rientrato definitivamente da Los Angeles (California), Carlo 
Pedretti, chiamandola ‘Castel Vitoni”. Con quello che stiamo tentando di argo- 
mentare, sembra davvero tutta una predestinazione. 

Lo stesso Pedretti ha identificato il disegno RL 12395 di Windsor come “corso 
d’acqua che scorre attraverso un baratro, probabile veduta delle Forre di Lampo- 
recchio” (dove nell'acqua sguazza un cigno). Il disegno di Leonardo è stato datato 
dallo studioso al 1473, stesso anno del famoso Paesaggio, con tutte le conseguenze 
che ne derivano??. “L'uomo dalle “forre” al volo con le ali, da animale terrestre a 
‘macchina volante’, dalla terra al cielo (come i cigni: ancorchè uccelli acquatici 
ma, all’occorrenza, in grado di spiccare il volo”)?. 

E “gloria [groria] eterna al nido dove nacque”. Se l’esperimento pratico del 
volo umano fosse riuscito ne sarebbe derivata fama eterna al suo autore e inven- 
tore ma, di conseguenza, anche al luogo dove l’avvenimento era accaduto. E cer- 
tamente la speranza, il sogno, la “profezia” di Leonardo era quella di magnificare e 
rendere celebre e eterna nel tempo la memoria di Vinci, il suo paese, e non Fieso- 
le. L'espressione sembra quasi nata e scritta ex abrupto (un'intuizione fulminante!) 
al fine di ricordare ancora e sempre il paese di origine (Fig.3). 

Colle Ceceri e tutto quanto sopra evidenziato mi sembrano particolari alta- 


cem). 

3! Peril sogno “del nibbio” (cortone), del cigno (con la Leda), studiati anche da S. Freud, cfr. brevi 
cenni anche in BRUSCHI, // Paesaggio, pp. 66-70. 

9. Cfr. BRUSCHI, I/ Paesaggio, pp. 58-70. 

5. Ibidem, p. 66. L'aria, e quindi il vento, come elemento naturale indispensabile e di forza spro- 
positata, permise a Leonardo di fantasticare e gli fece sognare il volo umano, a imitazione dei volatili. 
Parimenti, lo stesso Leonardo aveva pensato che l’uomo potesse anche andare sott'acqua (e disegnò 
scafandri), a imitazione dei pesci che nuotano. Un altro suo geniale coetaneo, Cristoforo Colombo, 
utilizzando anch'egli in maniera straordinaria le profonde conoscenze dei vari tipi di venti, poté tentare 
nuove ed impensabili rotte oceaniche. Ammiraglio del Mare Oceano, il più grande marinaio di tutti 
i tempi, con l’acqua del mare e con la padronanza, unica e inarrivabile, dei venti compì imprese pro- 
digiose. E come Leonardo con l’aria e il vento tentò, per l’uomo , le vie del cielo, librandosi da terra, 
così Colombo con l’aria e il vento rivelò all'umanità un “otro mundo y nueva tierra”, con orizzonti 
sconfinati, solcando le onde del mare. Cristoforo aveva una “fondamentale ragione per scegliere quella 
fascia atlantica. Qui soffiano gli alisei, i venti costanti che gli sono indispensabili per varcare l’occano 
[...] Lui li conosce, questi venti, ne ha intuito la portata, sa come usarli. L'equipaggio, invece, rimane 
frastornato dalla loro forza, che alza le vele e li spinge sempre più lontano [...] Eccolo, il mistero di 
Colombo, cercato per secoli chissà dove, in ipotesi spesso assurde e lambiccate. Il suo segreto è fatto 
d’aria, dell'energia che lo avvicina alla meta, con la sicura forza della natura. È il segreto che, a lui, toglie 
ogni dubbio, mentre attanaglia la ciurma” (Cfr. G. BUSI, Cristoforo Colombo, Mondadori 2020, p. 72). 
“Studia i venti, simpratichisce del gioco degli alisei, che spirano costanti anche al largo, e rendono pos- 
sibile la navigazione atlantica da nord-est a sud-ovest. Comprende che, all'altezza delle Azzorre, i venti 
soffiano invece in senso opposto, da ovest a est. Sono considerazioni fondamentali, che lo ispireranno 
durante i viaggi di scoperta, nella scelta della rotta di andata e di quella di ritorno” (Ibidem, pp. 37-38). 
Col vento nell’aria (per volare), col vento nell'acqua (per navigare). La vista della “tierra” fu annunciata 
alla prima spedizione di Colombo da fuochi accesi sulla costa (aria — acqua — terra — fuoco). 


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Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





mente significativi. Avendo i Colli Ceceri davanti agli occhi (a Lamporecchio) 
e altri punti elevati (ma non troppo) per tentare l'esperimento del volo come i 
castelli ricordati di quel piccolo lembo di terra del Montalbano (la “sua” terra, 
casa “sua”) quale bisogno aveva Leonardo di scegliere Fiesole? Anzi, Colle Ceceri 
si prestava maggiormente come disposizione fisica. “Dosso” non è una grande 
montagna ma un modesto rialzamento del terreno, con una parete a spiovente 
o a leggero strapiombo. L'esperimento, già pericoloso di per sé, non poteva che 
essere limitato ad una altezza ragionevole. Pertanto, almeno la prima “idea” del 
volo sarebbe sorta nella mente di Leonardo molto prima della visita a Fiesole. 

Di più. Si deve notare un vocabolo usato da Leonardo stesso denso di signi- 
ficato e, a mio avviso, quasi decisivo, come una parola-chiave: NIDO, che dice 
molto di più di tante congetture. Il ‘nido’ è la culla, la famiglia, il luogo della 
nascita, il paese di origine. Il ‘nido’ di Leonardo fu, e rimase per tutta la vita in 
maniera affettuosa, il borgo di Vinci, non Fiesole? Per questo sogno, l’ultima 
“profezia”, il figliolo di Ser Piero da Vinci usò un verbo al tempo futuro: “Piglierà 
il primo volo ...”. Semmai vi fosse stata una realizzazione pratica positiva di que- 
sto ardimentoso pensiero, sarebbe avvenuta nel suo “nido”, dalle parti di Vinci 
(Colle Ceceri). L'idea era portentosa ed avrebbe “empito l'universo di stupore” 
ma Leonardo, da buon toscano, con la saggezza millenaria che gliene derivava, 
era anche ben conscio dei limiti umani. 

Scrisse, infatti, in altro momento, sempre da anziano, con una scrittura quasi 
microscopica: “Non si debbe disiderare lo inpossibile”. 


* 


Anche lontano dalla sua terra, ad esempio nei due lunghi soggiorni a Milano, 
Vinci fu una costante indelebile della sua memoria: il motto della sua Achademia 
(Leonardi VZIVCI); il paesaggio sullo sfondo dell'Ultima Cena nel refettorio di 
S. Maria delle Grazie, con TS. Giovanni che si sposta per lasciar intravedere ... 
la catena del Montalbano”. Quasi una firma per dire: l’autore del dipinto sono 
io, Leonardo, e sono di Vinci (anche a Milano). A Milano si circondò sempre 
di amici toscani, e in specie pistoiesi e fiorentini (Vinci è territorio fiorentino e 
diocesi di Pistoia): Antonio Cammelli detto ‘il Pistoia, Bernardo Bellincioni (fa- 
miglia stanziata sia a Firenze che a Pistoia), Atalante Migliorotti (famiglia che ho 
trovato ancora per secoli dopo Leonardo nei dintorni di Vinci), Tommaso Masini 
da Peretola detto Zoroastro. 

Ma, sempre a Milano, ritengo sia possibile reperire un'ulteriore “firma” di Le- 
onardo e precisamente in uno dei frammenti di una parete della Sala delle Asse, 
nel Castello Sforzesco. Sotto l'intonaco, dopo i recenti restauri, è riapparso, fra al- 
tri, un abbozzo di disegno, con pochi cenni, quasi stilizzato, indicante un piccolo 





% A tal proposito, non si può non riandare col pensiero a un caso simile: a Giovannino Pascoli. 


Anche il Poeta, a distanza di secoli dopo Leonardo, subìto il trauma della famiglia rovinata dall’ucci- 
sione del padre Ruggero (il “nido infranto”), tentò in ogni modo, nei vari spostamenti, di ricostruire la 
situazione familiare primordiale. Anche per Pascoli un'ossessione fissa, quasi morbosa. 

s È un'ipotesi mia ma della quale sono profondamente convinto. È l’unico caso degli apostoli e 
proprio quello dell'apostolo prediletto di Gesù. 


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Mario Bruschi 





paese fra due costoni di roccia che si aprono nel centro. Immediatamente, circa 
l’ambiente fisico il pensiero corre (“vola”) al Paesaggio del 1473 e al Battesimo di 
Cristo degli Uffizi. Si intravede anche, sulla sinistra, un accenno di fusto di albero 
(come la palma nel Battesimo) (Fig.4). 

Orbene, io ritengo che nel minuscolo abitato appena accennato sia da ravvisa- 
re, anche in questo caso, proprio il borgo di Vinci, con le mura castellane, la torre 
dei Conti Guidi e la chiesa di S Croce”. 


* Da non molto tempo si è avuta notizia di un altro inventario inedito dell’a- 
bitazione di Ser Piero, stilato nel 1504, alla morte del notaio. L'importantissimo 
documento è stato reso noto, e commentato, nella XLIX Lettura Vinciana del 18 
aprile 2009 (Louis A. Waldman, Leonardo ed i suoi due “padri”: l'artista attraverso 
la lente delle sue opere perdute). Purtroppo, la Lettura, di sommo interesse, è rima- 
sta finora non stampata. 





5 Crediamo oltremodo eloquenti alcune precise osservazioni di Carlo Pedretti: “In una limpida 


giornata primaverile del 1812, Henry Beyle, il celebre Stendhal (1783-1842), parte da Firenze e si reca a 
Vinci. Sta raccogliendo materiali per la sua Histoire de la peinture en Italie che sarà pubblicata a Parigi nel 
1817 e nella quale intende dedicare ampio spazio a Leonardo con un capitolo che assume le proporzioni di 
un libro. Quel capitolo o libro inizia proprio col ricordo della visita a Vinci come a suggerire che per capire 
Leonardo e la sua arte occorre conoscere il luogo ove nacque” (Cfr. Vinci di Leonardo. Storia e memorie, a 
cura di R. Nanni e E. Testaferrata, Pisa, Pacini ed. 2004, Presentazione di Carlo Pedretti, p. 8). 


232 


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Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





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Fig. 1: Elenco delle “cose” di Ser Piero e “Monna Chaterina” (AVP. III, C. 14, 2, c. 379). 


233 


Mario Bruschi 





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Fig. 2: Leonardo da Vinci, Lista di libri “In cassa al munistero” (Madrid, Biblioteca Nazionale di 
Spagna, II c. 3r). 


234 


Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese 





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Fig.3: Leonardo. Progetto per la deviazione dell'Arno, Windsor, RL 12685, c. 1503, particolare con il 
castello di Vinci. 


235 


Mario Bruschi 








Fig.4: Leonardo. Disegno nella Sala delle Asse, 1498, Milano, Castello Sforzesco (dopo i recenti restauri). 


236 


Per Pasquale Ciofto, quadraturista 
e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 





STEFANO RENZONI 


Se nel censimento della popolazione pisana fatto dal governo francese del 
1813 Pasquale Cioffo, pittore abitante nella parrocchia di San Sepolcro, venne 
indicato come poverissimo (era incapace di pagare le tasse) e di anni 68, se ne può 
ricavare che fosse nato intorno al 1745), con quel poco di approssimazione che 
si deve alla lettura di dati di frequente non precisissimi, perché fondati su quanto 
gli ufficiali della Mairie si sentivano rispondere dagli bind. non sempre veri- 
dici per civetteria o per smemoratezza. Del resto già qualche anno prima Carlo 
Lasinio, in un suo breve repertorio dei protagonisti artistici pisani a lui contem- 
poranei, non aveva potuto un a meno di notare come il Ciofto fosse uno dei più 
noti pittori operanti in città, sebbene avesse “avuto un tempo un certo nome che 
attualmente ha perduto”. Il fatto che l’artista declinasse in una vecchiaia piutto- 
sto malconcia era da interpretare come la spia di una sua sostanziale inattualità, 
che per uno che, come vedremo, ben poco si era negato alle modeste libagioni del 
vino, fu forse il contrappasso di un'esistenza condotta sul filo. Dal 1796 frequen- 
tava l'importante casa dei Bracci Cambini, dove dava lezioni di pittura al giovane 
Antonio (nipote di quel Lussorio che pure fu pittore dilettante’), e fu episodio 
importante, che gli aprì la strada alla decorazione della facciata della villa che la 
nobile famiglia pisana teneva a Castel di Nocco, presso Buti (lavoro saldato nel 
1810). E pure l’altra impresa di questo lungo tramonto ottocentesco di Cioffo si 
era realizzata nel 1806 lontano da Pisa, nella nelle decorazioni pittoriche dell’in- 
terno del Palazzo Vecchio di Piombino, dove ebbe l’incarico di metter mano agli 
ornati della camera di Elisa Baciocchi?. Lavori insomma di una certa importanza 
ma ormai periferici, che furono probabilmente la spia, come vedremo, di una 
ricerca di occasioni professionali or dal centro. 

L'attività pisana del Cioffo era cominciata molti anni prima. Formatosi a Na- 
poli in una probabilissima attività di scenografo teatrale (ma della quale non 
sappiamo assolutamente nulla), venne a Pisa ancor giovane, poco più che venten- 
ne. In una lettera indirizzata all'Accademia di Firenze, non datata ma esaminata 
nell’agosto del 1786, Ciofto dichiarava infatti di essersi trasferito in Toscana da 





! Archivio di Stato di Pisa (ASP), Comune E 10, anno 1813. 
2 Archivio Opera del Duomo, Pisa (AOP), Fondo Lasinio 1, 10. 8. 1808. 
3 Ipagamenti sono documentati dal 1796 al 1803: CIAMPI 1998, p. 204 e n. 
I lavori, non più decifrabili, vennero eseguiti sostanzialmente nel 1808: ASP, Bracci Cambini 
78, 15.7.1808; 13.8.1808; 15.7.1810. 

°. LAZZARINI 1984, p. 670. Niente più resta di questa decorazione. Niente sembrerebbe restare 
neppure di un’altra precedente importante decorazione, quella relativa agli interni di palazzo Mecherini, 
eseguita dal Cioffo con figure di Giovanni Battista Tempesti: DA MORRONA 1798, p. 190; FROSINI 
1981, p. 161: sono stati distrutti. 


4 


237 


Stefano Renzoni 





ormai 18 anni, che ne farebbe cadere l’arrivo in una data circoscrivibile al 1767- 
1768° che, pur con la cautela con cui occorre valutare i riferimenti cronologici 
fondati sulla memoria, combacia perfettamente con le sue prime attestazioni do- 
cumentarie in terra pisana. 

A partire dal 1767 Cioffo risulta infatti impiegato nelle ricche decorazioni 
parietali che i Roncioni, una delle più abbienti famiglie pisane, stavano predi- 
sponendo allo scopo di abbellire la bellissima villa che tenevano a Pugnano, nel 
lungomonte verso Lucca. Qui Cioffo lavorò a lungo e a più riprese la sua attività 
venne documentata almeno fino al 1781. Prima due stanze, poi un salotto, un 
camino, un'anticamera e i bellissimi giochi prospettici del vano scale, da ritenersi 
il sigillo finale nella villa”. Se infatti è evidente che le quadrature del salone cen- 
trale, dove domina un affresco di Tempesti, non sono di Cioffo (come tradizio- 
nalmente si sostiene) ma di Vincenzo Piattelli (i documenti non parlano mai di 
un intervento in questa stanza del Napoletano, e lo stile sembra troppo freddo 
e calligrafico per appartenere al Cioffo)®, è pur vero che le cose a lui oggi sicu- 
ramente attribuibili, per l'appunto le quadrature del vano scale, tradiscono una 
mano molto pittorica, che sarà una cifra costante in lui (le decorazioni nelle altre 
stanze sono state ridipinte in antico). Oltre beninteso ad una forte propensione 
illusionistica, al talento per lo sfondamento prospettico degli spazi, tipico di chi 
era abituato a lavorare con le scene teatrali, e che lo ponevano comunque sulla 
scia di una tradizione quadraturistica toscana che rimontava a Jacopo Chiavistelli 
(Fig. 1). 

I lavori dell’esordio pisano per i Roncioni servirono al Ciofto da antiporta per 
una buona introduzione negli ambienti pisani che contavano, segno ita 
sione suscitata nella committenza e negli ospiti gli procurarono altre occasioni. 
E così, nel corso dei suoi impegni per i Roncioni, nel 1772 lavorò anche nel 
capoluogo, e precisamente per la famiglia Alliata, che era tra quelle che a Pisa 
poteva dire di contare ben più di qualcosa. In quell’anno, quando in occasione 
del matrimonio di Tommaso Alliata fu necessario ristrutturare il palazzo genti- 
lizio, Cioffo venne pagato “per tutte le pitture fatte nella camera buia”, e anche 
per quella detta del caminetto e dell’alcova, dove lavorò assieme allo stuccatore 
Ferri”. Fu questa un'impresa cui l'artista dovette attribuire una certa importanza 
anche per la centralità della famiglia Alliata nelle vicende politiche pisane, e che 
ebbe un esito interessante anche da un punto di vista umano, o altrimenti 
non si spiegherebbe come l’artista fosse riuscito a diventare il maestro di disegno 
dei figli di Tommaso Alliata, fino a preoccuparsi, in un moto umanissimo di 
autoconservazione economica, di farsi rimborsare quanto speso per “astuccio, 
matita, righe, temperino”!°, 





© Archivio Accademia Belle Arti di Firenze (A.A.B.A.F), B 62: s. d. (ma esaminata il 
18.8.1786). 

7. ASP Roncioni113, c. 10, 28.4.1779; ASP, Roncioni (62) 83, c. 34, 14.12.1780; c. 38, 14.1.1781; 
c. 46, 31.3.1781; c. 48, 11.4.1781. V. anche GIUSTI 1990, pp. 61-62; RASARIO 1990, pp. 47, 57 
n., 181 n.; // Settecento 2011, p. 163, scheda di A. Mercurio. 

8. RENZONI 2018. 

° ASP, Alliata 354, c. 2. Il palazzo è andato completamente distrutto per lasciar posto all'attuale 
Palazzo di Giustizia. 


10 ASP, Alliata 284, c. 9, 25.11.1790; c. 19, 23.6.1791. 


238 


Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 





Durante questa prima permanenza pisana, subito consolidata in lavori d’im- 
ortanza, Ciofto ebbe il giusto riflesso per ben sfruttare al meglio il credito così 
di conquistato, rimettendo le mani anche su quella che, come accennato, 
probabilmente era stata parte consistente della sua formazione giovanile: l’attività 
nel campo delle scenografie teatrali. 

Al 1774 risalgono infatti l'invenzione e la realizzazione di diverse scenografie, 
tutte concepite per spettacoli messi in scena nel teatro pisano di proprietà dei 
Prini (poi dell’Accademia dei Costanti): quelle per La Contessina, su libretto di 
Carlo Goldoni e musiche di Filippo Maria Gherardeschi, per la quale realizzò un 
“giardino inglese illuminato in tempo di notte”, con una “superba scena traspa- 
rente”. Eppoi le scene ne / Visionari, di Gennaro Astarita; L'innocente fortunata 
(con musiche di Giovanni Paisiello); La vera Costanza, dramma giocoso in tre 
atti con musica di Anfossi, rappresentato a Pisa nel 1777, e infine L’Olimpiade, 
di Metastasio, messo in scena nel 1782, e per la quale Cioffo disegnò i vestiti!!. 

Fu probabilmente qualcosa di più di un amore rinnovato ma passeggero, dal 
momento che in quel giro di anni, nel 1776 per la precisione, l’artista venne 
ricompensato per una sua non meglio specificata “recognizione” al bellissimo 
teatro privato dei Ceuli, in via San Martino, in occasione delle feste organizzate 
dalla parte di Mezzogiorno per il Gioco del Ponte. 

Furono anni assai intensi per l’artista, che lo fecero conoscere anche ben oltre 
i confini toscani, se è vero che egli stesso, in una lettera all’Accademia di Firenze, 
dichiarò di aver declinato l’offerta di andare ad insegnare all'Accademia di Belle 
Arti di Siviglia, avendo fatto la scelta di rimanere a Pisa, dove si era “accasato” or- 
mai da 12 anni (dunque dal 1774 circa, forse non a caso l’anno della sua intensa 
partecipazione alle vicende del teatro locale)". 

Gli episodi pisani, sempre più fitti e ricchi di occasioni significative, non man- 
carono di costituire buoni accrediti per la carriera del pittore, quanto bastava per 
ambire al blasone della pergamena: quando il 4 maggio 1777 il “pittore napole- 
tano d’architettura” venne squittinato per essere ammesso tra gli accademici fio- 
rentini, il susseguente rifiuto!* non poté che deludere il Nostro, costringendolo a 
rincorrere il titolo anche negli anni successivi, fino a quando, il 12 gennaio 1783, 
non riuscì finalmente ad ottenerlo". 

Nel frattempo il pittore era stato chiamato dall’abbiente e colto Giovanni 
Battista Lanfranchi Lanfreducci, che volle fargli dipingere la notevole villa di 
famiglia a Crespignano, presso Calci, nella campagna appena fuori Pisa. Al 25 
gennaio 1777 risale il primo pagamento “per aver dipinta la galleria”, e il 6 di- 
cembre un secondo per aver dipinto la sala!°. Si tratta di opere in gran parte 





!! Siv. rispettivamente: BARANDONI 2001, p. 258; Enciclopedia 1956, p. 874; Pisa 1774. V. 
inoltre MARINO” 2016, pp. 179-81, 193, 204. Sulle vicende costruttive ed i passaggi di proprietà del 
teatro oggi identificabile nel teatro Rossi, v. SAINATI 1997. 

°° ZAMPIERI 1999, p. 376. Il palazzo esiste ancora, ma il teatro, eseguito dai fratelli Melani, non più. 

15 A.A.B.A.F, B 62: s. d. (ma 18.8.1786). La notizia sulla proposta di trasferirsi in Spagna non ha 
riscontri, ed è pertanto difficile da precisare. Possibile che nell’occasione l’artista beneficiasse di rapporti 
che approfittavano della sua provenienza napoletana. 

4 ZANGHERI 2000, p. 83. 

!6 Archivio famiglia Del Rosso (AFDR), Fabbrica della Villa di Crespignano, c. 54, 25.1.1777; c. 
83, 6.12.1777. 


239 


Stefano Renzoni 





ancora esistenti, e quelle del salone sono caratterizzate da arditi scorci di palazzi 
cadenzati da fitti filari di colonne, che accompagnano i lavori di figura di Gio- 
vanni Battista Tempesti, il più importante pittore pisano del secondo Settecento 
(Figg. 2-3). Furono prove segnate dall’insistito soffermarsi su composizioni che 
risentivano in maniera palese degli scorci delle scenografie teatrali, quasi quinte 
sceniche fermate su parete. Vi si scorgeva ancora la suggestione del Chiavistelli, 
ma orientata anche verso gli scorci di Lorenzo del Moro, a testimoniare come 
Cioffo dovesse essere bene aggiornato sulle vicende fiorentine. 

Nel 1778 Cioffo dipinse “la facciata delle scuderie” della villa, con ampia 
collaborazione di non meglio indicati suoi “giovani” collaboratori, uno dei quali 
fu probabilmente Cassio Natili, destinato ad una modesta ma intensa attività 
pittorica nel territorio pisano! 

Poi, nel 1780, venne impiegato di nuovo nella ricca residenza e pagato per 
“aver dipinto d’architettura il sud.o salotto”, che sarà da identificare in quello 
dove Tempesti dipinse alcune finte statue!*. Lavori che dovettero soddisfare pie- 
namente la raffinata famiglia, se è vero che ben 7 anni dopo, nel 1787, Cioffo 
venne riconvocato in villa per dipingere “alla Raffaella” quattro stanze”. 

Tra questi lavori si colloca però il più importante intervento del Cioffo fuori 
dalla Toscana di cui si ha notizia certa e testimonianza documentata: la deco- 
razione dalla volta del salone di palazzo Pellegrini a Verona, dove si firmò, non 
risparmiando di segnalare la data di esecuzione: 1779. Il palazzo era stato appena 
ristrutturato dall’architetto veronese Ignazio Pellegrini, che a lungo e a più ripre- 
se aveva lavorato in Toscana, almeno a partire dal 1753 (dove è documentato a 
Firenze), per poi fare definitivamente ritorno nella sua Patria nel 1776. In questo 
lungo arco di tempo Pellegrini ripetutamente lavorò a Pisa, intrecciando le pro- 
prie vicende biografiche con quelle del Cioffo, destinati come furono i due artisti 
a lavorare spesso negli stessi luoghi e per gli stessi committenti, seppure in mo- 
menti diversi, ma non così distanti da non presupporre una conoscenza diretta, 
che in effetti vi fu, altrimenti non si spiegherebbe l'arruolamento del Cioffo nel 
cantiere pellegriniano in Veneto?°, 

Nel vasto salone veronese Cioffo dispiegò una ricca fantasia di quadrature 
intercalate dalle figure monocrome del veronese Antonio Pachera, un soffitto a 





I AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, c. 83, 20.5.1778; ASB, Upezzinghi-Rasponi 289, c. 
2, 20.5.1778. Sul Natili v. una timida ricostruzione biografica in RENZONI 2014 a. 

8. AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, c. 85, 16.7.1780; ASP, Upezzinghi-Rasponi 289, c. 
31, 16.7.1780. Sugli interventi tempestiani: RENZONI 2012. 

!°AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, c. 89, s. d. ma aprile 1787, Si paga il Cioffo L. 528 
per “aver dipinto alla Raffaella” le seguenti stanze: Camera dell’Autunno sulla galleria; Camera gialla dei 
mezzanini; Camera celeste dei mezzanini (v. anche ASP, Upezzinghi-Rasponi 289, c. 31, 29.4.1787: le 
stanze vengono indicate nel n. di quattro). 

20. Nel 1755 Pellegrini ristrutturò la villa Agostini a Corliano (PANAJA 2007, p. 17), in una zona 
cioè poi assiduamente frequentata da Cioffo. Nel 1759 è documentato un rapporto diretto di cono- 
scenza, e di fiducia, tra Pellegrini e Francesco Roncioni, la cui famiglia beneficiò dei lavori del Nostro 
(ASP, Roncioni (135), 16, 15.10.1759). Nel 1762 è accertato che la villa Lanfreducci di Crespignano, 
dove lavorerà Cioffo, venne eseguita a partire dall’aprile del 1762 “col disegno, e direzione del sig. conte 
Ignazio Pellegrini di Verona” (AFDR, Fabbrica della Villa di Crespignano, “Resarcimento della villa 
di Crespignano fatta da G. B. Lanfranchi Lanfreducci”). Sul Pellegrini e il suo soggiorno toscano cfr. 


almeno: CECCON 2015; CHIARELLI 1966. 


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Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 





volta con una grande macchina illusionistica articolata in una “maestosa galleria”, 
“sormontata da aerei passaggi praticabili che danno luogo al centro ad un balla- 
toio quadrangolare”. Si trattò nel complesso di una voce discorde dal panorama 
locale, “con quel suo bibienismo alla Francesco Natali, mutuato forse dal figlio 
Giovanbattista ...”, che per il suo rigore prospettico fecero pensare ad una sua 
disciplina prospettica studiate su fonti bolognesi”! (Fig. 4). 

L'esperienza veronese fu dunque positiva e venne ripresa poco dopo, nel 1780, 
quando, approfittando ancora del consolidato sodalizio con Ignazio Pellegrini, il 
Nostro realizzò una seconda serie di quadrature in palazzo Emilei Forti??, edificio 
ristrutturato secondo forme classicheggianti dall'architetto veronese. Anche in 

uesto caso Cioffo (coadiuvato da un ignoto figurista) concepì una decorazione 
dalla forte impronta illusionistica, anche se in dimensioni assai più modeste ri- 
spetto al precedente capodopera, ma dove la successione nelle volte di colonne 
fortemente scorciate, aperte su oculi e vani, documentano di nuovo l’estraneità 
sua dalle vicende veronesi, e come tutto sommato il suo magistero più che a for- 
mule emiliane si orientasse verso una rielaborazione di formule toscane e finan- 
co pisane, come ad esempio quelle, non ancora sufficientemente indagate dalla 
storiografia, del pisano Bartolomeo Busoni e, per mezzo di questi, dei Melani?3. 

Tornato da Verona, Cioffo riprese i lavori di cui abbiamo fatto cenno a Crespi- 
gnano, ed intensificò la sua attività nel campo della scenografia teatrale, soprat- 
tutto per conto della famiglia Prini, che, come abbiamo accennato, aveva fatto a 
proprie spese il nuovo teatro pubblico della città, in sostituzione dell'ormai angu- 
sto Stanzone delle Commedie, da lungo tempo posto in palazzo Gambacorti, ma 
ormai inadatto a soddisfare la socialità settecentesca. Nel mese di aprile del 1780 
Cioffo venne pagato per il “nuovo scenario del tempio” per il teatro di città, “due 
laterali grandi fatti di nuovo, e nuova pittura di due scene vecchie”, e per altre sei 
scene e altri ancora”“. Il rapporto con i Prini s’intensificò a tal punto da offrire al 
pittore la possibilità di lavorare nella villa di famiglia a Pontasserchio, dove aveva 
già dipinto due stanze nel 1776°. E così nel 1781, assieme agli aiutanti Cassio 
Natili e Santi Bertacchi, dipinse con sobrie quadrature e finte colonne la cappella 
annessa alla villa, sul cui altare lasciò un affresco di figura Giovanni Battista Tem- 
pesti°° (Fig. 5). 

L’anno successivo dipinse nella villa “un gabinetto da tuelette (sic)”?7, eppoi 
altri lavori più minuti, che lo tennero impegnato anche assai dopo, dal 1791 al 
1793?*. Di tutto questo, ad eccezione della cappella, restano tre disegni, condotti 
con effetti molto pittorici, dal segno arricciolato e ghiribizzoso, che incontrava 


2 MATTEUCCI 1993, p. 69 e tav. 73; MARINI 1988, pp. 80-3. 

2. MARINI 1997, pp. 155, 157. 

2 È ben possibile che tra l’una impresa veronese e l’altra, sebbene contigue, ci sia stato un inter- 
vallo toscano, in quanto lo stesso Cioffo dichiarerà di essere stato due volte a Verona (A.A.B.A.F, B 62: 
s. d. (ma 18.8.1786). 

2 AFP 162 R, c. 83, 8.4.1780.24 

5. AFP 162 R, c. 94, 28.6.1780. 

26. AFP 162 R, c. 136, 5.4.1781. Sui lavori alla villa (distrutta nell’ultima Guerra ad eccezione 
della cappella): RENZONI 2014. 

27 AFP162R,c.n.n., 24.12.1782. 

28. AFP 204 R, c. 2, 8.1.1791; 3.8.1793. 


241 


Stefano Renzoni 





la sensibilità rococò e che ritroveremo altrove, in almeno un disegno sicuro del 
Napoletano (quello, come vedremo, per l’altare di San Vito), che potrebbero 
giustificare l’ipotesi di identificare in essi alcuni preliminari grafici per le pareti 
affrescate dal Cioffo nel palazzo di Matteo Prini in via Santa Maria, con soluzioni 
diverse e sorprendenti, fino all’apertura su giardini e verzure ricchissime??. 

In anni non perfettamente decifrabili, ma probabilmente intorno al 1783, dun- 
que durante i lavori per i Prini, Cioffo lavorò anche in città, nel centralissimo palaz- 
zo Schippisi, tuttora esistente in via San Frediano e sede del Liceo Artistico, ma che 
quasi più niente conserva del proprio assetto settecentesco. Il pittore partecipò ai 
lavori di ristrutturazione che verso la fine del secolo furono promossi da Giovanni 
Sebastiano Schippisi, che si concretizzarono in affreschi eseguiti da Cammillo Gui- 
detti, lo stesso Ciofto (“dipinto a boscareccio e balaustri”3°) ed altri. 

Gli anni Ottanta furono quelli della consacrazione del Cioffo in ambito to- 
scano, perché tutto questo fitto gremire d’interventi, forse anche minuti ma co- 
munque intensamente ripetuti, lo condussero ad una fama almeno sufficiente 
per sollevarlo da un livello sostanzialmente ancora artigianale, e a fargli acquisire 
autoconsapevolezza della qualità del proprio mestiere. Del resto il Gi per 
famiglie cospicue nelle loro ville lungomonte, tra Pisa e Lucca, fu circostanza 
importante, perché quel territorio era assai frequentato anche dall’aristocrazia 
fiorentina, che volentieri andava a passare le acque ai Bagni di San Giuliano, e dal 
personale del governo granducale, che sicuramente ebbe la possibilità di conosce- 
re nelle singole ville i risultati della mano, tra le altre, del Nostro. 

Nel 1786 il Cioffo, fattosi ardito dai risultati del proprio lavoro, chiese di 
occupare stabilmente il posto di maestro di Prospettiva all'Accademia fiorentina, 
dove forse, la sua lettera che lo documenta non è chiarissima, insegnava già in 
alcuni corsi serali?!. La richiesta non venne esaudita, ma rende ugualmente l’idea 
di una spregiudicatezza intellettuale che evidentemente era il calco di un successo 
ormai indubitabile. Nella lettera inviata alle magistrature accademiche, Cioffo di- 
chiarava infatti di essere gratificato da una rete aa di committenze (a Pisa 
ad esempio era in rapporti di lavoro col marchese Bertolini oltre che, come sap- 
piamo, con Giovanni Battista Lanfreducci), e soprattutto in due palazzi fiorentini 
(quello del Duca di Lusciano e quello dei Gherardesca), che parve un ottimo 
accredito per ottenere dalla Capitale i segni tangibili di quella stima cui ambiva, 
per onore, certo, ma non è difficile immaginare anche per poter alzare i prezzi??. 

Nel 1787 fu poi ingaggiato da Giuseppe Alfonso Maggi, potente Priore della 
Certosa di Calci dal 1764 al 1797, allo scopo di dipingere le pareti della cappella 
di Sant’ Antonio ancora oggi esistente nella fitta trama dell’ampio edificio con- 
ventuale. Fu compito che portò a termine con grande efficacia, come è possibile 
constatare dallo slancio prospettico e dall’efficace dilatazione spaziale con cui tra- 


2 RENZONI 2014. 

30. PANAJIA 2004, p. 67. 

3 A.A.B.A.E, B 62: s. d. (ma 18.8.1786), supplica indirizzata al Presidente dell’Accademia. Nella 
missiva dichiarava tra l’altro di avere la famiglia ancora a Firenze, segno che vi si era provvisoriamente 
installato, probabilmente per lavorare per le due famiglie citate nel testo. 

3 Ibid. Niente sappiamo dei lavori eseguiti a Firenze. Quanto al palazzo Bertolini, ancora esisten- 
te a Pisa nei pressi della chiesa di San Sepolcro, reca all’interno numerosi ambienti tuttora decorati, ma 
il frazionamento delle proprietà ne rende assai difficile l'ispezione. 


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Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 





sformò illusionisticamente una piccola cappella in un ampio ricetto, le cui pareti 
laterali, con espediente caro alla scenotecnica teatrale, amplificano in modo cre- 
dibile i volumi? (Fig. 6). 

Nel biennio successivo l'artista fu invece impegnato di nuovo a Pisa, ancora a 
fianco di Giovanni Battista Tempesti, che dopo la morte nel 1780 del suo qua- 
draturista, Mattia Tarocchi, si 4. al Ciollo negli affreschi dove era necessario 
alternare figure a finte architetture, fino a costituire una sorta di bottega comune. 

Nel 1788-89 Cioffo realizzò così l'impianto decorativo della chiesa dei Santi 
Vito e Ranieri a Pisa, consistente nella pitturazione di un altare a finti marmi, 
come ornamento dell'affresco del Tempesti raffigurante il Transito di San Ranieri, 
così come era già accaduto, lo abbiamo visto, nella cappella di Pontasserchio. Fu 
un'opera oggi I gibile solo attraverso dei disegni (la chiesa è andata gravemente 
danneggiata aellilima guerra, e dei dipinti sopravvive solo una modestissima 
porzione), che riconfermano l'intonazione scenografica del Nostro, e che suscitò 
scandalo in un purista d’intonazione classica come Alessandro Da Morrona, per 
il quale “Non credo di far oltraggio al merito di questo Pittore se di nuovo ripeto 
essere cosa bassa, disgustosa, ed impropria il dipinger sul muro l’architettura degli 
Altari nelle Chiese di Città ragguardevoli”? (Figg. 7-8). Qui a Pisa gli effetti ba- 
rocchi venivano perfino moltiplicati rispetto alla campagna, con un virtuosismo 
che rintracciava quasi le corde, seppure amplificate, del lessico manieristico, che 
risultava essere troppo per le educate propensioni classicistiche del principale sto- 
riografo d’arte pisano settecentesco. Ma a sua volta l’altare consente di accostare 
alla mano del Cioffo la decorazione di una porta situata in una stanza a piano 
terra dell’attuale palazzo Blu (alias palazzo Giuli), databile ai primi del XIX se- 
colo, ed eseguita per i Bracci Cambini, all’epoca proprietari del palazzo, come 
documentato dallo stemma dipinto sull’architrave (Fig. 9). 

In mancanza di riferimenti archivistici relativi al cospicuo edificio è difficile 
stilare un repertorio delle paternità degli interventi, ma certo quella decorazione 
così sviluppata, sormontata dall’ampio stemma di famiglia, ne fanno un esem- 
plare assai vicino ai due altari che conosciamo dipinti da Cioffo. Il Napoletano 
nel palazzo sul lungarno lavorava però assieme all’allievo Antonio Niccolini, ed è 
allora possibile che l'impresa fosse stata condotta con l'ampio ausilio del giovane 
pittore, cui spetteranno probabilmente, almeno in parte, le cortine e i tendaggi 
dipinti nell'ampio salone della musica”. 

La commissione della decorazione della chiesa dei Santi Vito e Ranieri era 
piuttosto prestigiosa perché essa, per quanto di modeste dimensioni, era assai 
importante per il culto cittadino perché legata alla biografia di San Ranieri, il 

atrono di Pisa, che qui, secondo la tradizione, trovò la morte. Questo giustificò 
ii del Ciofto e del Tempesti, ma pure la partecipazione dla 
menzionato Antonio Niccolini, un giovane pittore poi destinato ad una brillante 





8. GIUSTI - LAZZARINI 1993, p. 102. 

3. DA MORRONA 1793, vol. III, p. 255. Su tutta la vicenda, e le polemiche assai fitte, v. REN- 
ZONI 1999. 

5. RENZONI 2009, pp. 151-3. Nel nostro intervento di allora, le attribuzioni apparivano come 
invertite (la porta al Niccolini, i tendaggi al Cioffo), ma l'ambito di riferimento, la bottega vogliamo 
dire, era comunque la stessa. 


243 


Stefano Renzoni 





carriera napoletana come architetto, che per l’occasione presentò il disegno per 
la decorazione delle pareti laterali dello stesso tempio di San Vito?. Niccolini 
infatti, nato a San Miniato al Tedesco nel 1776, era giunto a Pisa a soli 14 
anni, restendovi fino al 1806, impegnandosi soprattutto in campo pittorico (ma 
non disdegnando di frequentare quello architettonico) proprio come allievo del 
Ciofto e del Tempesti, sì che possiamo ritenere il suo disegno per la piccola chie- 
sa come il suo primo lavoro pisano conosciuto, affrontato proprio grazie all’a- 
iuto dei suoi due mentori. Comunque sia, toccò proprio al Niccolini, nella sua 
autobiografia, lasciare un vivido ritratto del Cioffo intorno al 1790, come di un 
uomo da cui il giovane artista molto imparò, coniugando la pratica di bottega 
a qualche risata per il buon carattere del maestro, che durante il lavoro cantava, 
beveva, e recitava le strofe di Torquato Tasso. Ma Niccolini ci disse anche qual- 
cosa di più: che il Napoletano aveva molto lavoro e che dunque necessitava di 
aiuti, e che per questo pose il giovane allievo “a disegnare in grande i bozzetti che 
egli faceva in piccolo per tagliare poi i miei cartoni in pezzi adattati all’intonaco 
ia giorno per giorno intendeva dipingere a fresco”. 

Tra anni Ottanta e Novanta il Nostro realizzò una delle sue imprese pisane 
forse più significative: la decorazione ad affresco del convento delle suore dome- 
nicane di San Silvestro (Figg. 10-12). Nella distinta dei lavori firmata dall’archi- 
tetto Giovanni Andreini, si annotava come Cioffo nel dicembre del 1791 avesse 
portato a termine, con l’ausilio di una folta bottega, una serrata serie di dipinti 
parietali (iniziati nel dicembre del 1788), oggi purtroppo in gran parte non più 
esistente, nonostante avesse costituito un'impresa assai ambiziosa e di vastissima 
portata?*. 





36. RENZONI 1999. 

87 NICCOLINI 1980, pp. 377-78. 

38. Nello scrittoio: “Due parapetti, mostre, e sguanci di tre finestre”, sovraporte “e ornati”. Nel 
corridoio e ingresso: quadrature, archi, lambrì, “pittura fatta fra gli ultimi due archi, che mettono 
nell’orto”. Nel corridoio che va in chiesa: porte e finestre; una porta accanto a quella di chiesa. Nella sa- 
crestia interna: finestre e porte. Nel ricetto del refettorio: “Rosone in mezzo con lavoro d’intaglio fine”. 
Nel refettorio: “Le pareti, con lambrì, cornice, escludendo la facciata della pittura antica. La volta del 
medesimo, con terrazzini. Figure, bassi rilievi, fiori, e volta dipinta a aria e figure rappresentante l’arme 
di S. Silvestro”. Nel Caffeaus: “le volte del medesimo dipinte a quadratura sono l’impalaustrato dipinto 
a Bersò con fiori e il tutto colorito al vero”. Ricetto in cima alla scala dalla parte delle monache: “La volta 
del sud.o con architettura d’ordine composito, con prospettiva, e sfondo di figure nella med.a di diversi 
chiaroscuro, con figure di storia sacra, coloriti al vero, architettura e ornati”. Quartiere della Priora: 
“Pareti della prima stanza dipinte all’uso detto la raffaella, con paesi e figure rappresentanti la Vita di S. 
Ranieri”; “Volta della camera ad uso d’arcova dipinta a figure esprimenti S. Caterina sulla Rota”. Stanza 
della signora Grassi contigua alla sala: pareti con quadrature e fiori. Quartiere della signora Borghi 
sul cortile della fonte: “Volta di detta stanza ov'è dipinta la Gloria di S. Ranieri, ornato, quadratura e 
fiori”. Stanzino del quartiere della Granduchessa: lambrì, sovraporte, “fiori al vero, e tinta nei fondi di 
colore sopraffine”. Stanza della signora Marracci presso la ringhiera della stanza segreta: “Pareti di detta 
stanza istoriate, con figure, pacsi, e fiori, ed il resto alla Raffaella”; “Volta di detta stanza istoriata, con 
figure come sopra”. Stanza di suor Berenice Rosselmini, sul cortile scaricatoio: “Pareti di detta stanza 
dipinte alla Raffaella istoriate con santi Remmagi”; “Volta della stanza dipinta alla raffaella e nel mezzo 
della medesima. Istoriataci l’arme della casa Rosselmini”. Stanza del bagno: “finestre finte nella facciata 
sud.a ornato e quadratura”. Facciata sul cortile dei lavatoi: mostre, zoccolo, fregio, ovati, undici finte 
finestre, “una prospettiva grande nel giardino ad architettura; Una detta più piccola nel sud.o giardino, 


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Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 





A causa di una scorretta interpretazione delle fonti, si era però tradizional- 
mente ritenuto che quello che restava della vasta decorazione pittorica, vale a 
dire gli ornamenti Lie pareti laterali dello scalone del convento, fosse attribui- 
bile al quadraturista pisano Bartolomeo Busoni, operante nei primi decenni del 
Settecento”. In realtà a questi, coadiuvato dal fiorentino Luca Bocci, nel 1706- 
1707 spettò l'esecuzione degli affreschi che con quadrature e fiorami arricchiva- 
no la Lu di San Silvestro, da cui il convento prende il nome, ma non quelli 
del convento stesso; affreschi poi malamente nascosti in epoca imprecisata sotto 
uno strato d’intonaco, da dove però emergono in piccole ma significative por- 
zioni, che consiglierebbero un radicale intervento di restauro e di ripristino”. 

Sulla base di un riesame delle fonti documentarie nel loro complesso è invece 
possibile assegnare con sicurezza le decorazioni delle pareti laterali dello scalone 
proprio al Cioffo, che intervenne “con architettura d’ordine composito, con 

rospettiva, e sfondo di figure nella med.a [scala] di diversi chiaroscuro, con 
i: di storia sacra, coloriti al vero, architettura e ornati”. 

Lo scalone principale del convento (ora di proprietà della Scuola Normale 
Superiore), è decorato dalle allegorie delle Virtù Teologali, simulate come statue 
dipinte a grisaglia e a figura intera, inserite lungo le pareti laterali e all’interno di 
un finto colonnato, parte integrante di un ricco apparato di quadrature illusio- 
nisticamente disposte a suggerire stanze, recessi, corridoi. Cioffo dipinse anche 
altro, come dicevamo, ovvero la quasi totalità del convento: stanze, refettori, 
pareti interne ed esterne, “caffeaus”, corridoi e volte, compreso il detto scalone, 
lavoro questo descritto come fatto “con architettura d’ordine composito, con 
prospettiva, e sfondo di figure nella med.a di diversi chiaroscuro, con figure di 
storia sacra, coloriti al vero, architettura e ornati”?, 

Come è noto il Ciofto era però un quadraturista e uno scenografo teatrale, 
non un pittore di figura. Pertanto l'esecuzione delle decorazioni dello scalone 
andrà interpretata come relativa alla sola parte quadraturistica, nella quale tra 
l’altro emerge una impostazione molto architettonica e assai lontana dalle for- 
mule barocchette del Napoletano (ma semmai memori delle testimonianze di 
Rinaldo Botti) che fanno legittimamente pensare ad un intervento realizzato 
sulla traccia di un progetto giovanile di Antonio Niccolini, che, come detto, nel 





figurata una nicchia a rottami d'architettura”: ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 1804, aff. 1 (v, anche 
ASD, Corporazioni Religiose Soppresse 1763: le spese per la nuova fabbrica di San Silvestro partono dal 
6.12.1788). 

5. Così ad esempio: FABBRINI 1968. Lo scalone adesso fa parte di quella vasta porzione del 
convento occupato dalla Scuola Normale Superiore. 

40. Archivio Capitolare di Pisa (ACP), Misc. Zucchelli C87, c. 37, 14.11.1707p. Quaderno di spese 
delle monache di S. Silvestro. Si paga Luca Bocci e Bartolomeo Busoni pittori “per braccia settecento 
quaranta otto di pittura fatta a frescho nella nostra chiesa di fuori. Altre spese per lumeggiare la sud. 
tta pittura ...”. Si paga il maestro Frediani “per aver scalcinato, arricciato, intonacato la chiesa di fuori 
per dipingere a fresco, fatto, e sfatto i palchi dei pittori”. V. anche TITI 1751, p. 173: in S. Silvestro 
Luca Bocci fece degli affreschi nel fregio sotto la soffitta e sopra l’altar maggiore, e li fece col suo allievo 
Bartolomeo Busoni. Cfr, anche FANUCCI LOVITCH 1995, pp. 275-76. Per l'errata attribuzione al 
Busoni degli affreschi dello scalone: FABBRINI 1970. 

i! ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 1804, aff. 1: “Il nobil ritiro di San Silvestro di Pisa, a Pasquale 
Cioffo, architetto”, per lavori “ultimati la 1791”. Datato in calce 9.6.1793 da Giovanni Andreini. 

42 ASD, Corporazioni Religiose Soppresse 1804, aff. 1; v. anche ivi, la filza segnata 1763. 


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Stefano Renzoni 





suo esordio pisano divise la propria formazione tra le botteghe del Tempesti e 
del Cioffo. 

Recenti interventi di restauro allo scalone, che hanno liberato il ciclo dalla 
polvere e da ridipinture che ne avevano rese opache e piatte le superfici, hanno 
del resto evidenziato l'intonazione assolutamente tempestiana delle Virtà Teolo- 
gali, dello stesso tenore di quelle altrove realizzate da Giovan Battista a Crespina, 
a palazzo Silvatici e altrove. 

I registri di pagamento delle monache del convento, assai scrupolosi, non re- 
gistrano però i pagamento al Tempesti per questi lavori (neppure negli anni 
successivi il 1791), mentre si annotano di frequente dei compensi — con saldo 
nell’aprile del 1791 - ad uno dei suoi allievi più promettenti: Giovanni Coruc- 
ci*. Dal momento però che gli affreschi di questi sono qualitativamente meno 
evoluti, e con differenze stilistiche spesso sostanziali (un disegno più disseccato 
e meno pastoso, una eccessiva legnosità delle figure), non è ardito ipotizzare una 
esecuzione dei lavori affidata al Corucci ma su cartoni forniti da Giovan Batti- 
sta. Questo farebbe pensare ad un lavoro sviluppato in gran parte in bottega, a 
fianco di quella del Cioffo. 

Mentre lavorava a questa importante impresa pisana, Ciofto trovò il tempo 
necessario per affrontare uno di quei lavori in provincia ai quali non si poteva 
dire di no, perché la committenza era illustre, e i soldi, evidentemente, quanto 
bastavano. Quando nel 1791 nel borgo di Montecastello, presso Pontedera, ven- 
ne inaugurata la cappella annessa all’importante villa Galletti (ora Malaspina), le 
pareti interne del piccolo ambiente furono decorate dal Cioffo con quadrature 
di livello non -. ma come mandate a memoria, con tentativi di moltiplica- 
zione degli spazi con colonnati avvolgenti di concezione teatrale, come del resto 
la scelta del punto di osservazione individuato nella porta d’ingresso, come se 
fossimo nel punto fermo di una poltrona in una cavea (Fig. 13). 

La cappella era stata del resto commissionata da Antonia Franceschi Galletti, 
personaggio assai influente e con buone entrature a Pisa (era cognata dell’Ar- 
civescovo di Pisa, Angelo Franceschi) e con spiccati interessi artistici, ed è ben 
possibile che si fosse rivolta in prima battuta non al Napoletano, ma al Tempesti, 
già da lei impiegato nella chiesa di San Pietro a Ischia, che infatti a Monteca- 
stello pose sull’altare una tela con i Santi Francesco, Sebastiano, e Ranieri ed i 
simboli della Passione**. Questa divagazione, giusto durante la collaborazione 
nel periodo dell’impresa di San Silvestro, bene ribadisce la stretta collaborazione 
tra i due, la sovrapposizione, delle loro botteghe, che ormai agivano secondo le 
buone regole della cooperazione. Una nota di uno dei più eccentrici personaggi 
pisani a. Ottocento, la cui biografia intercetterà volentieri le arti figura- 
tive, ci dice però qualcosa di più di quella collaborazione. Bartolomeo Polloni, 
è di lui che si parla, fu infatti uno storico locale, incisore e bibliotecario, e nel 
suo dilettantismo integrale non disprezzò neppure delle incursioni nel campo 
architettonico, interessandosi perfino delle ragioni della pendenza della Torre. 
In un saggio pubblicato per l’occasione, Polloni giustificò il proprio interven- 





4. ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 1763, 16.6.1789; 5.7.1790; 8.7.1790; 9.7.1790; 
18.4.1791. 
4 ROSSI-RENZONI 2016, pp. 331-55. 


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Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 





to adducendo come motivazione il fatto che aveva appreso “quei Vetruviani 
precetti” che gli davano il diritto d’intervenire in una disciplina tanto ostica, 
perché quelle nozioni le erano state dettate “per non breve tempo” da “l’ar- 
chitetto e pittore insieme Pasquale Cioffo mio maestro nelle belle arti, il quale 
nelle più ardue imprese veniva prescelto a compagno dall’esimio nostro pittore 
figurista Giovanni Tempesti; ciò attestare potendo diversi concittadini anch'essi 
disegnator con compasso e con squadra, allora miei colleghi di studio”. Dal- 
la nota autobiografica apprendiamo dunque che Polloni fu allievo del Cioffo, 
compagno a sua volta Li Tempesti in numerose avventure pittoriche, ipotesi 
che rende assolutamente plausibile una circostanza: che Ciofto insegnasse dise- 
gno architettonico e scenografia in quella accademia domestica di Belle Arti che 
Tempesti, assieme ad alcuni maggiorenti pisani, aveva inaugurato nella propria 
abitazione, e che come sappiamo doveva essere, nel voto dei Pisani, la prima 
tessera di una strategia che doveva portare la città ad avere, finalmente, una vera 
e propria Accademia di Belle Arti, in opposizione a quella fiorentina. Come è 
noto Pietro Leopoldo non soddisfece mai le ambizioni del Tempesti e dei suoi 
sponsor (l'Accademia a Pisa sarà fondata solo nel XIX secolo), tuttavia la nota 
del Polloni apre uno spiraglio su un’avventura che di certo raccolse intorno ad 
un ambizioso progetto didattico il meglio delle personalità artistiche locali; e 
getta una luce più chiara su una collaborazione, quella tra il figurista pisano e il 
quadraturista napoletano, che dovette essere assai articolata e strutturata‘9. 

La carriera del Cioffo era dunque assai bene indirizzata, segno di una ver- 
satilità e di una prestezza nello svolgere l’ufficio suo che di certo dovette essere 
ammirevole, se è vero che nel 1793, dichiarandosi da ben 27 anni in Toscana e 
“pittore d’architettura e grottesco”, avendo domandato di diventare maestro di 
disegno nella Carovana fe Cavalieri di Santo Stefano, decise poi di rifiutare il 
pur prestigioso ruolo, “avendo fatte alcune riflessioni sopra i suoi interessi e con- 
siderando che il posto al quale aveva concorso di Maestro d’Architettura Civile 
e Militare per la Caravana [sic] di Pisa, l’obbligava a stare otto mesi dell'Anno in 
detta Città, e che per conseguenza non poteva attendere a quei lavori di Pittura 
in Campagna, o in altro luogo, per i quali potesse esser ricercato”. 

Questa intensa attività professionale, divisa tra scenografie teatrali e pitture 
su parete, certo fece del Cioffo un pittore, se non ricco, almeno benestante, 
che altrimenti risulterebbe difficile immaginare come avrebbe potuto acquistar 
quadri altrui, e che fossero per propria soddisfazione o per incentivare un pur 
modesto mercato antiquario (di cui comunque nulla sappiamo) in definitiva 
poco importa. Interessante è invece sapere che nel 1797 alla morte di Guglielmo 
Raù si aggiudicò quattro quadri della sua collezione che andò subito dispersa, e 
: quel quadro grande esprimente Cupido, e figure” ci sarebbe piaciuto saperne 

i più”. 





4 POLLONI 1838, p. 7. 

4 Sul tentativo del Tempesti di creare una vera e propria Accademia di Belle Arti a Pisa: RENZO- 
NI 2019. 

47 “Gazzetta Toscana” n. 31, 1793, p. 124: Pisa, 31 luglio. V. anche ASP, Ordine di S. Stefano 345, 
aff. 118. Autografo Cioffo (s. d., ma 1793). Sulla Carovana: RENZONI 1990. 

18. ASP, Raù-Dell’Oste, 12, ins. 6; v. anche CAROFANO-PALIAGA 2001, p. 139. 


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Stefano Renzoni 





Per qualche anno i documenti pisani tacciono, ma la sua presenza nei teatri 
livornesi fu intensa‘, e dunque è ben possibile che si fosse trasferito nel princi- 
pale porto toscano per lungo tempo, se è ben vero che poi, nel nuovo secolo, vi 
prese la residenza. Il bel disegno conservato agli Uffizi raffigurante un Sepolcreto 
(firmato e datato 1794)?® fu ad evidenza concepito per uno sfondo teatrale or- 
mai sensibile alla vena funeraria e cimiteriale settecentesca, e non è affatto detto 
che sia ardito pensarlo realizzato per un teatro livornese. 

Del resto fu proprio dalla sua casa livornese che nel 1810 l’artista - “Pittore, 
architetto, e geometra” — proclamò al mondo, per mezzo del “Corriere milane- 
se”, che era disposto a dimostrare a chiunque ne avesse fatto richiesta che aveva 
trovato nientemeno che il modo per operare la quadratura del cerchio”. Fu 
probabilmente un domicilio provvisorio (nel 1813 come abbiamo visto era di 
nuovo a Pisa), ma sufficiente per delinearne un profilo indaffarato e inquieto. 

Tuttavia il Cioffo dovette muoversi con una certa agilità tra due città così 
vicine. Egli infatti non cessò mai di concludere importanti imprese anche a Pisa, 
forte, lo abbiamo detto, della collaborazione col Tempesti, che dei pittori pisani 
fu il più importante. Nel 1802 il Napoletano affiancò di nuovo Giovanni Bat- 
tista Tempesti nella decorazione degli interni di un importante edificio pisano, 
situato a pochi metri da piazza dei Cavalieri: il palazzo dei Malaspina di Fosdi- 
novo. Su commissione di Carlo Malaspina il Cioffo arricchì “la volta del salotto 
da conversazione di architettura ed ornati, essendo stato a mio carico i busti e 
puttini a chiaroscuro, da me inventati per ornare la mia architettura, figurando 
le quattro Arti liberali, fatti eseguire dall’egregio sig.re Giovanni Tempesti...”?. 
Le decorazioni della volta furono a dire il vero piuttosto compassate, quasi cal- 
ligrafiche, nel senso che non indugiavano sugli effetti illusionistici e gli scorci 
vertiginosi, ma si limitavano a rilegare in cornici dipinte (e arricchite dai peri 
dipinti però dal Tempesti), la scena centrale figurata, redatta dalla mano felice 
del suo socio. Il vero motivo d’interesse dell’allestimento decorativo della stanza 
fu allora un altro aspetto, individuabile nelle sei sovraporte arricchite “con paesi 
e ornati”, che costituiscono l’unica testimonianza nota nel genere paesaggistico 
del Cioffo, dunque indizio di una versatilità di buona tenuta qualitativa’? (Figg. 
14-16). Fu quella serie un apax della sua produzione, per quanto ne sappiamo, 
tuttavia la gradevole redazione formale di quelle scene, di vago sapore neoma- 
nieristico, che esclude radicalmente la figura umana, e un certo tono corsivo, 
un registro cromatico misurato alla brava, ne fanno degli esempi in scala ridotta 
dei ben più ampi scenari che il Cioffo doveva concepire per i fondali delle sue 
scene teatrali, come se quelle sei scene agresti fossero state il frutto dell’accorto 
riutilizzo di cartoni e bozzetti messi a punto a suo tempo per qualche messa in 
scena teatrale. 


4°. Nel 1791 eseguì ad esempio la scena finale per Alessandro nelle Indie, nel Teatro degli Avvalorati 


di Livorno, scenografia che consisteva in un tempio: Alessandro 1791, p. 7 (v. anche Enciclopedia 1956). 
Sul più generale panorama della scenografia livornese sette-ottocentesca, con qualche riferimento al 
Cioffo: LAZZARINI 1989. 

50 MARINI 1988, p. 81 n 

5! “Il Corriere milanese” n. 184, 2.8.1810, p. 739. 

> Archivio Malaspina di Fosdinovo, busta 64, fascicolo “Ricevute di pittori 1801”. 26.1.1802. 

53 Id., 8.5.1802. 


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Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 





Ancora a Pisa, nel 1816 l’artista fu coinvolto come membro della commissio- 
ne di periti incaricata di risolvere una questione sorta tra Anna Bertini Casanova 
e il pittore Luigi Venturini, circa la qualità delle pitture da questi eseguite in 

uattro stanze del palazzo della vedova in piazza della Fontina, che erano state 
bri di polemiche”. E questa è l’ultima notizia da noi conosciuta sul pittore 
napoletano, che probabilmente non molto tempo dopo lasciò questa valle e le 
sue lacrime. 


Bibliografia 


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3%. RENZONI 1997, alla voce Luigi Venturini. Gli altri artisti membri della commissione furono 


due pittori assai attivi nei lavori su parete nella Pisa di primo Ottocento: Bernardino Careggi e Giuseppe 
Spampani. Anche Venturini fu artista assai impegnato nei palazzi pisani come quadraturista. 


249 


Stefano Renzoni 





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250 


Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 





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251 


Stefano Renzoni 








Fig. 1: P. Cioffo, Quadrature, Pugnano, villa Roncioni (scalone) 


252 


Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 








Fig. 2 :P. Cioffo, Quadrature, Crespignano (Calci), villa Lanfreducci (salone) 


253 


Stefano Renzoni 








Fig. 3: P. Cioffo, Quadrature, Crespignano (Calci), villa Lanfreducci (salone) 


254 


Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 








Fig. 4: P. Cioffo, Quadrature, Verona, palazzo Pellegrini (salone) 


255 


Stefano Renzoni 








Fig. 5: P. Cioffo, Altare, Pontasserchio, villa Prini (cappella) 


256 


Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 








Fig. 6: P. Cioffo, Quadrature, Calci, Certosa, cappella di Sant'Antonio. 


257 


Stefano Renzoni 





45/0 favD 


Farenala. 








Fig. 7: P. Cioffo, Disegno per l’altare della chiesa dei Santi Vito e Ranieri (Pisa) 


258 


Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 








Fig. 8: P. Cioffo, Frammento dell’altare della chiesa dei Santi Vito e Ranieri (Pisa) 


259 


Stefano Renzoni 


Fig. 9: P. Cioffo, Decorazione di una porta, Pisa, palazzo Blu (ex Giuli). 


260 





Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 








Fig. 10: P. Cioffo, Quadrature, Pisa, convento di San Silvestro (scalone) 





Fig. 11: P. Cioffo, Quadrature, Pisa, convento di San Silvestro (scalone) 


261 


Stefano Renzoni 








Fig. 12: P. Cioffo, Quadrature, Pisa, convento di San Silvestro (scalone) 


262 


Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 





ro 7" 





Fig. 13: P. Cioffo, Quadrature, Montecastello, villa Malaspina (cappella) 


263 


Stefano Renzoni 

















Fig. 14: P. Cioffo, Paesaggio, Pisa, palazzo Malaspina (salone) 


264 


Per Pasquale Cioffo, quadraturista, e scenografo napoletano nella Toscana del Settecento 














Fig. 15: P. Cioffo, Paesaggio, Pisa, palazzo Malaspina (salone) 


265 


Stefano Renzoni 








Fig. 16: P. Cioffo, Paesaggio, Pisa, palazzo Malaspina (salone) 


266 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio 
del povero”: Carlo Michon e la Scuola Michoniana di 
architettura, agrimensura e ornato* 





COSTANTINO CECCANTI - ANNA VENTIMIGLIA 


La Scuola Michoniana 


Introduzione 

Il XIX secolo a Livorno è stato contraddistinto da un grande fermento cultu- 
rale: è stato il secolo della passeggiata sul mare e dell’urbanizzazione dell’Ardenza, 
la splendida zona costiera livornese che si estende nella parte meridionale della 
città, arricchitasi in quel periodo di numerosi stabilimenti balneari; è stato anche 
il secolo dei Casini d’Ardenza, il peculiare complesso alberghiero di proprietà 
della Società dei Casini e dei Bagni di Mare, progettato del celebre architetto 
Giuseppe Cappellini, nell'ottica di un'ulteriore valorizzazione turistica della città. 
Cappellini era solo uno degli architetti e degli ingegneri che gravitavano a Li- 
vorno nell’Ottocento: diverse erano infatti le maestranze che operavano in città, 
dove avevano anche ricevuto una formazione tecnica e professionale. Lo stesso 
Cappellini, oltre ad aver studiato presso l'Accademia delle Belle Arti di Firenze, 
aveva ricevuto le prime nozioni anche nella sua città natale presso la Scuola co- 
siddetta Michoniana, dal nome del suo fondatore, il filantropo Carlo Michon. 
La Scuola Michoniana ha costituito, tra l’Otto e il Novecento, uno dei principali 
strumenti di formazione professionale di architetti e ingegneri, formando, oltre 
al già citato Giuseppe Cappellini, anche Angiolo della Valle! e Luigi del Moro?. 

Carlo Michon viene descritto da diverse fonti come uomo generoso e magna- 
nimo. Nato il 19 settembre 1771 a Livorno, fu educato secondo i precetti cattoli- 
ci dai genitori Pietro Michon e Rosa Prini, entrambi molto religiosi. Si laureò in 
giurisprudenza già a 22 anni ma non esercitò quasi mai la professione. Contrasse 
matrimonio nel 1805 con Vittoria Maffei Bardini Maffei, figlia del generale Ghe- 
rardo Maffei Bardini di Volterra, ma non ebbe figli. Più che di legge preferiva oc- 
cuparsi di studi agricoli, curando meticolosamente i propri possedimenti terrieri 
in modo da trarne profitto economico. Ma “questo generoso patrizio intese alla 
pratica del sublime consiglio: il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio 





*. Anna Ventimiglia ha redatto il paragrafo La Scuola Michoniana mentre a Costantino Ceccanti 


si deve il paragrafo / Disegni del Fondo “SCUOLA MICHONIANA?” dell’Accademia delle Arti del Disegno, 
Firenze. Schedatura scientifica. 

! Assistente di Pasquale Poccianti dal 1850 e autore di importanti monumenti livornesi tra i quali 
il pronao del nuovo cimitero inglese di via Pera. Cfr. Gurrieri & Zangheri 1974, p. 17. 

2. Architetto dell'Opera del Duomo e dell'Opera di Santa Croce di Firenze, completò la facciata 
della basilica di Santa Maria del Fiore dopo la morte del De Fabris. Cfr. Cresti & Zangheri 1978, p. 78. 


267 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 





del povero”, tanto che dalle fonti pare quasi che avesse fatto della filantropia e 
dell'interesse per i meno benestanti la sua occupazione principale: 


Ma soprattutto ebbe animo così felicemente disposto a soccorrere il prossimo, 
che un sol giorno passato senza un’opera buona lo reputava perduto. (...). Orfani, 
vedovelle, malati, poveri vergognosi non picchiavano indarno alla porta di Carlo 
Michon: e quante volte si presentavano mesti, grami, piangenti, tante volte ne 
uscivano consolati e tranquilli. Anzi dove conosceva il bisogno vero, urgente, na- 
scosto, là si recava egli stesso, e senz’aborrire lo squallore, il luridume del tugurio, 
elargiva, confortava, provvedeva con le soavi maniere del benefattore evangelico, 
non ritroso a limosine degne di qualsivoglia magnate*. 


Questa nobiltà d'animo era fortemente collegata all'educazione religiosa, 
come è ampiamente descritto nell’elogio funebre di Michon redatto da Antonio 
Mochi, il quale riporta come fossero Bi insegnamenti evangelici ad ispirare Carlo 
così come avevano ispirato il padre Pietro. 

L'elogio funebre di Mochi dà notizie più dettagliate sulle azioni di beneficenza 
con cui Carlo Michon si adoperò per Livorno; in particolare riguardo le epidemie 
che afflissero la città: 


(...) Maoror lo vedremo non ritrarsi da pubblico officio nel 1817, quando 
il tifo petecchiale afflisse con tutta Italia Livorno. Commiserava i montanari, i 
villici vaganti per carestia, non che i sovrastanti nostri pericoli, e con altri cittadini 
a salvarne accorreva, prendendo parte attivissima alle misure con savio consiglio, 
e fortunato successo adottate. Non è dubbio, che nel suo particolare le azioni 
benefiche moltiplicava con quella riservatezza, che ne ascose i dettagli nelle due 
epoche disgraziate. 

Non è così del 1835, allorché la patria carità del defunto al colmo pervenne 
della grandezza. — Atterrita la Città da malattia indocile alla scienza [colera], sgo- 
mentata al fosco aspetto de’ guai futuri, chiusi i traffici, le miserie sorpassavano 
la mortalità. (...) 

Di soggiorno in una Villa posta nel Subborgo, ove alcun tempo stanziava, 
avreste detto, che fosse insensibile ai mali, e di se soltanto con turpe egoismo cu- 
rasse. Eppure fra le pareti di quella villa in lui solo vedemmo sorgere una seconda 
deputazione vigile e pronta a sollevare l’oppressa umanità. (...) 

Nelle anguste, e malsane abitazioni del Quartiere di S. Giovanni sembrò, 
che il colera furibondo più sviluppasse le forze micidiali. Quel Quartiere, posto 
nella Parrocchia di Carlo, divenne il campo glorioso delle sue liberalità. Dalla 
villa informavasi dei sani necessitosi di sostentamento, dei morti, che lasciavano 
superstiti vedove e figli coll’unico retaggio della disperazione: dalla villa stendeva 
la mano generosa a sollievo degli oppressi, ordinava, disponeva, regolava i prov- 
vedimenti?. 


L'Elogio del Mochi fa riferimento anche alla decisione di Michon di 
fondare la Scuola di Architettura, affinché i giovani potessero dare il 
loro contributo per lo sviluppo e il miglioramento di Livorno: 





3 Pera 1867, p. 345. 
i Pera 1867, pp. 345-346. 
?. Mochi 1839, pp. 10-11. 


268 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





Li bramava istruiti, almeno in relazione all'architettura, nella Geometria af- 
finatrice del raziocinio, e fondamento di tutte le arti relative alla costruzione de- 
gli edifizj: li bramava istruiti nei diversi ordini architettonici, ed esercitati nella 
cognizione delle classiche fabbriche antiche e moderne, non che nei metodi di 
costruire: li bramava istruiti nella prospettiva, la quale portando in superficie 
ogni sorta di oggetti, e fissandone il grado di luce in ragione delle distanze, por- 
ge all'architetto le regole generali, che servono all'invenzione: li bramava istruiti 
nell’ornato, per cui sfoggia, si abbella, e nobilita qualunque arte: bramava in fine 
istruiti i giovani nell’agrimensura, guardiana vigilantissima delle proprietà”. 


Conciliando questi suoi desideri con l’impulso benefico che tanto lo contrad- 
distingueva, Carlo Michon decise di aprire la sua scuola all’interno del Palazzo 
del Refugio, avviando una collaborazione con le Case Pie” allo scopo di rendere 
l'insegnamento gratuito. 


L'apertura della Scuola e il suo funzionamento 

L'autorizzazione granducale per l'apertura della scuola all’interno del Refugio 
fu concessa il 2 wa 18238, ma le lezioni iniziarono effettivamente solo u 
anni dopo a causa della difficoltà nel trovare un maestro di architettura, ruolo che 
fu infine affidato all’architetto Gaetano Gherardi, formatosi presso l’Accademia 
delle Belle Arti di Firenze. Gherardi rimase a capo dell’insegnamento di architet- 
tura presso la Scuola Michoniana per ben 43 anni!°. Dopo di lui, si succedettero 
Dario Giacomelli!! e Luigi Avellino”. 

Alla celebrazione dei Fanerali di Carlo Michon, presso la chiesa delle Case Pie, 
fu esposta all’esterno un'iscrizione: 


Al Cav. Carlo Michon 
Padre dei Poveri 
Benefattore della Patria 
Fondatore illustre 
della Scuola di architettura e ornato 
i rettori riconoscenti 
di questo Pio instituto 


Ivi, p. 15. 
Le Case Pie (poi Fondazione Dal Borro) erano un ente assistenzialistico fondato dal marchese 
Alessandro Dal Borro. Avevano la proprietà di alcuni stabili a Livorno, tra cui il Palazzo del Refugio, 
dove ospitavano giovani, orfani o mendicanti, senza una fissa dimora. 

8. Archivio di Stato di Livorno (d’ora in poi ASL), Governo civile e militare di Livorno, b. 124, £. 20. 

° A Livorno si trovano le maggiori opere del Gherardi: la chiesa votiva del Soccorso con l’annessa 
canonica (iniziate nel 1836) e la chiesa di Sant'Andrea con l’adiacente Seminario Girolamo Gavi (negli 
anni Quaranta), nell’area antistante al Cisternone di Pasquale Poccianti. Prese inoltre parte ad alcuni 
restauri per il Teatro San Marco e realizzò un ampliamento della residenza di Frangois Jacques de Lar- 
derel, successivamente inglobata nell’attuale Palazzo de Larderel. 

10° Cresti & Zangheri 1978, p. 113. 

!l Meozzi 1872, pp. 66-67; 1873, p. 131; 1876, pp. 80-81; 1877, p. 60; 1879, p. 45; 1880, pp. 
41-42; 1881, p. 51; 1896, p. 49. 

1? Meozzi 1903, p. 129; 1904, p. 122. 


7 


269 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 





Solenni esequie statuivano 
perché 
quell’anima ardente di carità 
nell’eterno amore riposi!5. 


Le notizie principali sulla scuola si hanno però tramite il suo regolamento 
originale, del 1825, conservato presso l'Archivio di Stato di Livorno, e i Cenni 
ni scuola Michoniana scritti da Gherardi nel 1888, comprendenti anche il re- 
golamento addizionale redatto dopo la morte di Michon. 

Purtroppo, a causa delle pesanti e improprie modifiche e manomissioni a cui è 
andato incontro il Palazzo del Refugio'*, non è possibile sapere l'ubicazione esatta 
della scuola all’interno dell’edificio. Nel Regolamento del 1823 viene detto che: 


Al secondo piano della Fabbrica del Refugio esiste una stanza, oggi destinata ad 
uso della scuola di Leggere e scrivere. Trasportando questa stanza nella sala, che oggi 
serva di passo per andare alla cappella, e ingrandendo la suddetta stanza mediante 
alcune variazioni e lavori indicati dall’Ingegnere sig. Gaspero Pampaloni, e con- 
cordati dallo stesso sig. cav. Michon, avremo un locale di alla nuova scuola 
di architettura. Il sig. cav. Michon si assume tutte le spese di questi lavori, e per la 
decente educazione della predetta stanza, e si assume egualmente qualunque altra 
spesa relativa alla prima montatura, compresi i mobili, e gli instrumenti necessari”. 

Giovanni Wiquel scrive che all’interno del Refugio esisteva una lapide com- 
memorativa di Michon e la scuola, della quale oggi non sembra esserci traccia ma 
che probabilmente si trova all’interno di uno degli appartamenti privati, verosi- 
milmente murata! All’ingresso della Scuola era inoltre posto un busto raffigu- 
rante Carlo Michon, scolpito da Temistocle Guerrazzi!” 

Proprio come riportano sia il Mochi sia il Regolamento della Scuola'* quest’ul- 
tima era destinata ad istruire i giovani nella geometria (pratica e teorica), nell’or- 
nato, negli ordini greci, nella prospettiva e nell’agrimensura. 

La nomina del maestro spettava soltanto a Carlo Michon finché questi fosse 
stato in vita, dopodiché il compito sarebbe spettato ai Governatori delle Case Pie; 
la formazione dei candidati doveva essere comprovata da certificato proveniente 
dall’Accademia delle Belle Arti di Firenze, di Roma o di istituti equipollenti. 

Il Regolamento prevedeva anche le spese annuali necessarie al mantenimento 
della scuola e al pagamento del maestro, in tutto circa 1725 lire all’anno. I soldi 
venivano recuperati a partire dai tassi di interesse applicati ad alcuni prestiti ef- 
fettuati da Michon negli anni precedenti, e dalla vendita di alcuni piani di uno 
stabile di sua proprietà ubicato in via Fernanda (attuale via Grande). 

Le lezioni cominciavano l' 11 novembre e duravano fino a fine settembre, tutti 
i giorni della settimana esclusi il giovedì e la domenica. Nel caso in cui durante la 





18. Mochi 1839, p. 19. 

!4 La planimetria originale del palazzo, progettata dall’architetto Pietro Bongini nel 1755, è con- 
servata presso l'Archivio di Stato di Firenze, Reggenza, £. 648, n. 25. 

5. ASL, Governo civile e militare di Livorno, b. 124, f. 20. 

6 Wiquel 1976-1985, p. 378. 

1” Lazzarini 1996, p. 37. 

18. ASL, Governo...cit., b. 124, f. 20. 


270 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





settimana ci fosse stato un festivo, la giornata di lezioni sarebbe comunque stata 
recuperata il giovedì. 

La Scuola Michoniana era aperta a tutti i giovani, non soltanto a coloro che 
abitavano al Refugio, e il numero di studenti ammessi era compreso tra i dodici 
e i diciotto; i requisiti necessari per l'ammissione erano la residenza a Livorno 
(anche “subborghi e campagna”, art. 12"), saper leggere e scrivere e avere almeno 
12 anni compiuti. Luaicli 13 del Regolamento specifica che due dei giovani 
del Refugio * avranno diritto di ottenere il posto a preferenza dei concorrenti 
estranei”, sempre a patto di possedere i requisiti sopra riportati. 

Il Maestro aveva il compito, ogni due anni, di presentare a Carlo Michon un 
resoconto degli studenti più meritevoli, gli studi dei quali sarebbero stati esposti 
nella sala (art. 17). 

Infine, una Deputazione di membri della Congregazione decideva a chi attri- 
buire due premi biennali, il primo di 184 lire ed il secondo di 92; a Carlo Michon 
era lasciata assoluta libertà nel decidere di distribuire eventualmente più premi 
minori per incitare ed incoraggiare gli alunni a dare il loro meglio (art. 18). 

Sempre nei suoi Cenni, G nt riporta anche il Regolamento addizionale 
della scuola, entrato in vigore nel 1840 accanto a quello originale, in seguito alla 
morte di Carlo Michon. In questo secondo regolamento sono specificati i giorni 
di vacanza e le modalità di presentazione e riscossione dei premi per gli studenti. 

Gli studi per concorrere ai premi erano presentati al Maestro e da fui sottopo- 
sti al giudizio del Governatore Ispettore e dei Giudici. Il giorno della premiazio- 
ne, che avveniva a settembre, il Maestro pronunciava un discorso motivazionale 
“diretto anche ad animare le virtù e le speranze degli alunni””', e dopo l'annuncio 
dei lavori vincitori del concorso, gli autori erano chiamati a rispondere ad alcune 
eventuali domande sulle modalità di realizzazione dello studio, ed infine veniva 
loro consegnato il premio, direttamente dal Presidente. 

Dal 1836 il premio in denaro fu sostituito da una medaglia con l'effigie di Fi- 
lippo Brunelleschi e con un'iscrizione commemorativa della Scuola sul retro. La 
medaglia era stata ideata ed incisa dallo scultore Giovanni Paolo Lorenzi, artista 
sordomuto al quale il Granduca di Toscana aveva accordato dal 1820 una sov- 
venzione mensile di 40 lire per un anno come aiuto economico per la famiglia in 
seguito alla morte del padre, l'avvocato Antonio Lorenzi, gonfaloniere di Livorno 
nel 1806. Con questa sovvenzione il Lorenzi poté frequentare l'Accademia di 
Belle Arti di Firenze, dove fu allievo di Raffaello Morghen??. 


Testimonianza dell'allievo Giovan Battista Picchianti e metodi di insegna- 
mento 


Nei Cenni del Gherardi è presente un resoconto compiuto nel 1855 da uno 
dei suoi allievi, Giovan Battista Picchianti, e pubblicato anche nel bollettino Le 





Ibidem. 

20. Ibidem. 

2! Gherardi 1880, p. 16. 

22 Carnasciali 2010, pp. 251-254. 


271 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 





arti del disegno”, nel quale è descritta con accuratezza la struttura delle lezioni. 
Il corso di architettura era inizialmente suddiviso in diverse categorie: per chi 
voleva diventare architetto; per chi voleva intraprendere una carriera universita- 
ria (presso le Accademie delle Belle Arti); per chi voleva esercitare la professione 
di ingegnere e per chi invece voleva impegnarsi nelle arti meccaniche. Il limite 
di questo metodo di insegnamento, continuava Picchianti, era che nell’insegna- 
mento della geometria, comune a tutte e quattro le categorie, il Maestro non 
riusciva a condurre tutti gli studenti allo stesso livello, ed era anzi quasi costretto 
a lasciarne alcuni indietro a causa delle tempistiche che il compimento del corso 
richiedeva. Pertanto il docente si era impegnato successivamente a modificare il 
proprio metodo dando lezioni separate di geometria per ogni categoria, “appli- 
cando quei casi soli che sono necessari per chi l’apprende per l'esercizio dell’arti 
meccaniche, ed estendendosi senza limite per coloro che sono disposti, e che 
intendono di percorrere la carriera dell’architetto”. Per questi ultimi e per chi 
voleva dedicarsi alla pittura erano previsti anche dei corsi di ornato e prospettiva. 
Il corso di ornato era diviso in due classi: una, per chi frequentava il corso ele- 
mentare di architettura, incentrata su dettagli applicabili a tutti i soggetti archi- 
tettonici (chi studiava per diventare intagliatore o cesellatore studiava su soggetti 
adattati alla loro professione riproducendoli anche in acquerello, tecnica ritenuta 
utile per l'apprendimento del chiaro-scuro); l’altra si svolgeva studiando soggetti 
più complessi. Sperimentando un criterio poi riconosciuto di grande utilità, il 
Maestro disegnava sotto gli occhi degli alunni ciò che questi ultimi avrebbero 
dovuto eseguire: guardando il procedimento dalle mani di un esperto gli studenti 
capivano meglio il metodo da utilizzare. 

Chi si preparava per la carriera di ingegnere o architetto studiava anche agri- 
mensura e geodesia, insegnamenti suddivisi in una prima parte teorica e una secon- 
da parte pratica che prevedeva l’utilizzo di strumentazione adeguata e la rilevazione 
di piante, mappe, andamento di fiumi, strade, etc. Le rilevazioni venivano fatte su 
possedimenti privati non senza vantaggi per i proprietari, ai quali veniva rilasciata 
una pianta dell loro appezzamento delineata e misurata dagli studenti. 

In seguito Picchianti menziona i premi biennali distribuiti in denaro fino al mo- 
mento in cui questo fu sostituito dal conio della medaglia con l’effigie del Brunel- 
leschi (Picchianti riporta erroneamente che fosse di Palladio). Visto uo della 
Scuola, Gherardi propose a Michon di aumentare il numero massimo di alunni 
ammessi fino a 30 o 34, sistema che continuò anche dopo la morte del fondatore. 

Il testo di Gherardi precedentemente menzionato comprende anche una de- 
scrizione specifica del programma di insegnamento dell’anno 1831 per la classe 
di architettura, che prevedeva: 


Prima Classe - Soggetto d’invenzione. 

Immaginare un tabernacolo per uso di Residenza destinato a contenere l’im- 
magine di Maria Vergine da collocarsi sull'altare di una Chiesa non meno vasta 
della cattedrale di Livorno. 

Il concorrente per sua norma si figuri, che il presbiterio in cui potrebbe anche 
esser collocato il suo progetto, sia eguale a quello della cattedrale in vastità, quindi 


2 Picchianti 1855, pp. 47-48. 
24 Gherardi 1880, p. 29. 


272 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





abbia scrupoloso riguardo nell’assegnarle tali proporzioni che armonizzino col 
tutto insieme di quella località. 

Dovrà il concorrente corrispondere, sia nelle parti architettoniche, che orna- 
mentali in modo decoroso e perfettamente analoghe alla destinazione del sogget- 


to sacro”). 


Il vincitore del concorso era stato, quell’anno, Angiolo della Valle. 

Seguiva il programma per Soggetto di copia, per una Seconda Classe, nel quale 
doveva essere riprodotto in acquerello l'Arco di Traiano di Ancona. Per lo studio 
della prospettiva era stato dato agli alunni il compito di eseguire in acquerello 
l'interno del Cisternone, con colori più possibile simili al vero. 

Per l’ornato architettonico d'invenzione invece gli studenti dovevano immagi- 
nare una ricca porta che doveva servire da accesso ad una Cattedrale “disegnata in 
contorno all’etrusca”°°. Vinse Carlo Chelli di Livorno (impiegato successivamen- 
te da Gherardi nelle decorazioni di Palazzo Larderel)”7. 

Infine veniva specificato che non era possibile concorrere per agrimensura: 


Non è ammesso in questa Scuola il concorso di agrimensura quantunque in essa 
si percorrino tutti gli con necessari per giungere all’esercizio del perito agri- 
mensore; e ciò perché è stato riconosciuto in pratica difficile ed incerto un tal giu- 
dizio sul merito della maggiore o minor capacità dei concorrenti senza esperimenti 
geodetici sulla faccia del luogo. Imperocché non restando alla saviezza dei giudici 
che l'esame di una pianta disegnata e colorita si può cader nell’errore di premiare 
l'esattezza e l’effetto di un disegno, il quale esca dalle mani di un diligente disegna- 
tore mancante o per lo meno poco istruito nel maneggio degli arnesi, e nelle teorie 
geodetiche, principale elemento da cui ne derivano le delineazioni sulla carta?8. 


Gherardi addusse anche come motivazione un episodio personale successogli 
quando studiava presso l'Accademia delle Belle Arti di Firenze: nel 1821 aveva 
ricevuto un premio per il concorso di agrimensura “per il solo merito di avere 
nitidamente e con effetto disegnata e ln la pianta del soggetto assegnato, 
a preferenza di scolari completamente istruiti nelle pratiche esercitazioni, delle 
quali esso era allora principiante, (...).??? 

L'Archivio dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze conserva un fondo 
relativo alla Scuola Michoniana contenente i disegni che parteciparono ai concorsi 
per architettura e ornato del 1832: il concorso di ornato riguardava lo studio del 
ciborio della chiesa di S. Maria del Soccorso di Livorno, e ci è pervenuto solo lo stu- 
dio compiuto da Gherardi che doveva servire agli alunni per emularlo (Gherardi era 
in quel periodo impegnato proprio nella realizzazione dei progetti per l'edificazione 
della chiesa); quello di architettura riguardava invece palazzo Farnese a Caprarola 
progettato da Jacopo Vignola, che “doveva adottare nei contorni per l’effetto il 
metodo detto all’Etrusca”5. Nell’ultimo caso oltre allo studio di Gherardi sono 





5 Ivi, p.23. 

26. Ivi, p. 30. 

27 Cfr. Palazzo de Larderel 1992, p. 160. 

28 Gherardi 1880, pp. 23-24. 

2 Ivi, p.24. 

30. Archivio dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, Fondo Scuola Michoniana, cartella 7. 


273 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 





compresi i lavori degli otto studenti che parteciparono: Giuseppe Mercatelli, Carlo 
Chelli, Carlo Caproni, Attilio Paradossi, Angiolo della Valle, Guglielmo Martoli- 
ni, Carlo Cosci e Achille Giscard. Gherardi e gli allievi si recarono verosimilmente 
di persona a Caprarola per eseguire i loro studi, secondo il metodo di insegnamento 
di Gherardi che prediligeva lo studio dal vero?. Le tavole degli studenti del Gherar- 
di rappresentano studi di diversi dettagli di palazzo Farnese, impaginate con cura, e 
dimostrano la capacità tecnica acquisita dagli studenti grazie agli insegnamenti del 
loro maestro, capacità che giungono quasi ai livelli richiesti “dall "Accademia delle 
Belle Arti di Firenze. In e si distinse Giuseppe Mercatelli, vincitore del 
premio, che aveva svolto uno studio sul pavimento della ‘sala circolare’ della villa, 
accurato sia dal punto di vista tecnico sia da quello disegnativo, tramite il sapiente 
utilizzo di policromie grigie acquarellate. 

Addirittura nel 1835, soltanto dieci anni dopo la fondazione della Scuola, 
Repetti scriveva che “Livorno già risente l'utilità di questa istituzione, avvegnachè 
più di cento allievi sono oggi in grado di esercitare con gusto e capacità le arti e 
mestieri (...)”33, 

Secondo l'articolo del 1985 di Rosetta Baldanzi Brucciani8*, la scuola fu chiu- 
sa nel 1913. Tuttavia, nei documenti conservati presso il fondo Dal Borro nell’ar- 
chivio storico del Comune, nel registro delle delibere sono presenti notizie sulla 
scuola fino al 1923. Le delibere riportano entrate, uscite e approvazioni di bilanci 
preventivi relativi alla scuola dal 1909 al 1915, spesso in deficit??. 


I Disegni del Fondo “SCUOLA MICHONIANA?” dell’Accademia delle Arti 
del Disegno, Firenze. Schedatura scientifica 


Il fondo contiene: 

Una serie di incisioni relative alla sistemazione del Ciborio della chiesa di 
Santa Maria del Soccorso a Livorno (progettata da Gaetano Gherardi e costruita 
tra il 1836 e il 1855). 

Una serie di disegni relativi alla Villa di Caprarola, esercitazioni della Scuola 
Michoniana di Livorno. 

Un disegno raffigurante il portale di palazzo Verità a Verona. 

Un foglio con annotazioni riguardanti i suddetti progetti. 


Incisioni relative alla chiesa di Santa Maria del Soccorso a Livorno 


Gaetano Gherardi 

1) Ciborio dell’Altare del Sacramento delia chiesa di S. Maria del Soccorso di Livorno 
Litografia mm 548x388 

Tracce di sporco lungo i bordi 


3 Architetto di origine pisana. Nel 1861 fu membro del consiglio dei giurati per la classe di ar- 


chitettura all'Esposizione Italiana di Firenze; fece parte della commissione per soprintendere al “maggior 
ee: della piazza del Duomo di Pisa. Cfr. Cresti & Zangheri 1978, p. 146. 
Lazzarini 1996, p. 84. 
8 Repetti 1855, pp. 784-785. 
3 Baldanzi Brucciani 1985, p. 84.34 
8. Archivio Storico del Comune di Livorno, Fondo Dal Borro, Archivio delle Case Pie del Refugio e 
delle Povere Mendicanti di Livorno, filza 26. 


274 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





Gaetano Gherardi 

2) Pianta 

Litografia 

mm 548x388 

Piccoli strappi lungo il bordo destro 


Gaetano Gherardi 

3) Alzato dell’Altare della chiesa di S. Maria del Soccorso di Livorno 
Litografia 

mm 548x388 

Stato di conservazione buono 


La città di Livorno attraversò, negli anni della restaurazione, una crescita de- 
mografica importante che portò alla costruzione di nuovi quartieri al di fuori 
della cinta dei canali. Con motuproprio del 22 giugno 1836, veniva disposta la 
realizzazione di nuovi edifici di culto in città. Tra questi, le nuove chiese di San 
Giuseppe, di Sant Andrea, di San Rocco e di Santa Maria del Soccorso. Quest'ul- 
tima veniva costruita anche come ringraziamento per la fine dell'epidemia di co- 
lera del 1835. L'edificio venne costruito, grazie a oblazioni dei fedeli, su progetto 
di Gaetano Gherardi. I lavori, iniziati mi 1837, si protrassero per quasi 20 anni, 
fino al 1855. La chiesa, isolata al centro di una grande piazza, fu certamente la 

iù grande opera del suo tipo nella Livorno dell'Ottocento. L'architetto scelse un 
lucio di chiaro sapore neorinascimentale, debitore delle architetture chiesa- 
stiche di Andrea Palladio (1508-1580). La facciata, infatti, interamente rivestita 
in travertino, richiama i precedenti veneziani del Redentore e di San Giorgio. 
Contestualmente alla costruzione dell’edificio, venivano approntate, su disegno 
di Gaetano Gherardi, tre litografie che raffiguravano rispettivamente la pianta e 
il prospetto dell’altare del Sacramento in una prima versione, la pianta dell’altare 
secondo una seconda versione e il prospetto riferito a pica ipotesi. La 
prima opzione, di spiccato gusto neo rinascimentale, vedeva la realizzazione di un 
apparato a edicola, con lesene corinzie col fusto bordato da una cornice; un com- 
plesso costrutto architettonico incorniciava il dipinto con la raffigurazione del 
Cristo. La seconda ipotesi, invece, prevedeva la costruzione, al di sopra dell’altare, 
di un elaborato e maestoso ciborio a forma di tempietto classicheggiante, com- 
pleto di colonne corinzie, cupoletta, angeli penitenti e angeli reggi cero a chiu- 
dere la composizione. Questi progetti sono specchio della lunghezza tem- 
porale del cantiere, iniziato durante il regno di Ferdinando III e con ai pochi 
anni prima dell'annessione della Toscana al regno d’Italia. Fiorentino, Gaetano 
Gherardi fu professore presso la Scuola Michoniana dal 1825 fino al 1868. Fu 
maestro, tra gli altri, di Angiolo Della Valle, Attilio Paradossi, Giuseppe Polani. 


Disegni della Scuola Michoniana di Livorno: esercitazioni riguardanti la 
Villa Farnese di Caprarola 


Fondata a Livorno, per iniziativa di Carlo Michon, negli anni della Restau- 
razione post napoleonica, esattamente nel maggio del 1825, la Scuola di Archi- 
tettura, Ornato e Agrimensura prese ben presto il nome di Scuola Michoniana 
derivato da quello del suo fondatore. Era ospitata nel tardo barocco palazzo del 
Refugio, edificio ancora oggi esistente, costruito come ricovero per gli orfani ne- 


275 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 





gli anni Cinquanta del Settecento, lungo il canale dei Navicelli, nel quartiere oggi 
conosciuto come Venezia Nuova. I disegni di Achille Giscard, Carlo Cosci, Gu- 
glielmo Martolini, Angiolo Della Valle, Attilio Paradossi, Carlo Caproni, Carlo 
Chelli e Giuseppe Mercatelli, nonché quelli di almeno due anonimi, conservati 
presso l’Archivio della Accademia delle Arti del Disegno riguardano tutti un’eser- 
citazione avente come tema la raffigurazione della Villa Farnese a Caprarola, sia 
in rappresentazioni di insieme, sia in particolari alquanto complessi. 


Achille Giscard 

4) Metà della pianta del cortile e del piano superiore della Villa di Caprarola 
penna su carta beige 

mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


Il disegno, quotato in tese, è un rilievo del cortile del palazzo Farnese di Ca- 
prarola. A destra, è rappresentato il piano terreno del suddetto cortile mentre, 
sulla sinistra, si vede il primo piano. Interessante appare la dovizia di particolari 
con cui è resa la pavimentazione della corte, così come desta interesse la rap- 
presentazione dei complessi sistemi di copertura dei loggiati del piano terra e 
del primo piano. L’elaborato ci mostra inoltre come il Vignola avesse risolto in 
maniera brillante il problema dei collegamenti verticali di servizio, posizionando 
delle piccole scale a chiocciola in corrispondenza degli angoli del pentagono in 
cui è iscritto il cortile circolare. 

Achille Giscard scelse inoltre di dare un titolo all’elaborato: Metà della pianta 
del cortile e del piano i della Villa di Caprarola. Graficamente, si è operato 
mediante l’impiego della penna e di varie tonalità di acquerello per differenziare 
la complessa orditura del pavimento, le pareti sezionate e le grate che dal cortile 
danno luce al piano interrato. 


Achille Giscard 

5) Alzato del cortile della villa di Caprarola, dettaglio del primo piano 
penna su carta beige 

mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


Il secondo elaborato di Achille Giscard presente nel fondo è sempre relativo 
al cortile della Villa Farnese di Caprarola. In questo caso, l’autore sceglie di non 
dare un titolo al disegno. Si decide di raffigurare, con la sola penna, senza l’impie- 
go dell’acquerello, una campata del primo piano del cortile circolare. Con estre- 
ma accuratezza, vengono rappresentati l'ordine ionico, il complesso sistema di 
portali con finestra sovrapposta, collegati da un complesso sistema di trabeazione 
e cornice. Sono inoltre rappresentate le quotature più importanti. Una scala in 
piedi parigini completa la composizione. 


Achille Giscard 

6)Pianta delle rampe semicircolari della Villa di Caprarola che conducono alla 
prima terrazza 

Pianta delle logge e pianta della grotta sotterranea 


276 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





penna su carta avorio 
mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


In questo disegno, la grandiosa scala a tenaglia, che permette di salire dalla 
quota del paese al primo ripiano di fronte al palazzo Farnese di Caprarola, è 
rappresentata da Achille Giscard a due quote diverse. Nella porzione inferiore 
dell'elaborato, si sceglie infatti di sezionare ad una quota piuttosto bassa, supe- 
riore di soli cinque scalini rispetto a quella dell’abitato. In questo modo, è stato 
possibile rappresentare sia i vasti ambienti chiusi posizionati sotto le rampe, sia 
l’accesso alla grotta sotterranea. Nella porzione superiore, è possibile leggere per 
intero la scansione spaziale della scala, dal momento che la quota di sezione e di 
poco più alta rispetto a quella del primo ripiano di fronte alla villa. Anche qui, 
Achille Giscard dà un titolo all’elaborato, in questo caso a ciascuna delle due 
rappresentazioni. Non è presente una scala metrica, ma il disegno posto in basso 
e parzialmente quotato, probabilmente in piedi parigini. 


Achille Giscard 

7) Prospetto della Villa di Caprarola 
penna su carta beige 

mm 345x540 


una leggera arricciatura lungo il bordo sinistro 


L'ultimo dei disegni di Achille Giscard presenti nel fondo raffigura il palazzo 
Farnese di Caprarola da una posizione frontale. Non è rappresentata la porzione 
inferiore del collegamento verticale tra il paese e la villa, comprendente il grande 
scalone a tenaglia. Sono invece chiaramente leggibili il portale bugnato di accesso 
alle cantine, e la doppia scala due rampe che conduce al piano terreno dell’edifi- 
cio. L’elaborato è privo di scala metrica, di quote ed è reso mediante il solo im- 
piego della penna, senza acquarellature. Comunque, tutta la complessità spaziale 
dell’edificio vignolesco è resa in maniera corretta e convincente. 


Carlo Cosci 

8) Sezione in corrispondenza del cortile della Villa di Caprarola 
penna e acquerello su carta beige 

mm 367x507 


Stato di conservazione buono 


Carlo Cosci, in questo complesso disegno, sceglie di raffigurare una sezione 
della villa di Caprarola in corrispondenza del cortile, limitatamente al piano ter- 
reno e al primo piano. 

Le acquarellature, di colore rosa piuttosto acceso, tendente al rosso, sono ri- 
servate soltanto alle porzioni sezionate. Tutto il resto è raffigurato con l’impiego 
dell’inchiostro, tuttavia Carlo Cosci riesce con abilità a rappresentare le zone in 
ombra, a distinguere le parti in primo piano da quelle in secondo piano. Alquan- 
to interessante appare anche la raffigurazione delle prese di luce delle cantine, vi- 
ste, a causa della pianta circolare Lh corte, sia in alzato che in sezione. Il disegno 
è privo di scala grafica e di quote. 


277 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 





Carlo Cosci 

9) Prospetto del primo piano della villa di Caprarola, dettaglio 
penna su carta beige 

mm 260x350 


Stato di conservazione buono 


L'elaborato è raffigurato un particolare del primo piano della facciata della 
villa di Caprarola rivolta verso l'abitato. Nello specifico, Carlo Cosci decide di 
rappresentare la porzione di facciata compresa tra la grande loggia della sala dei 
fasti Farnesiani e l'angolo di destra. Il disegno, reso us solo impiego della penna, 
è completo di scala grafica, in piedi parigini, nonché di numerose quotature inol- 
tre l’autore sceglie di non rappresentare alcun tipo di ombra. 


Carlo Cosci 

10) Dettagli della porta d'ingresso al pian terreno 
penna su carta avorio 

mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


La scelta di raffigurare i più complicati dettagli del portale di accesso al piano 
terra della Villa Farnese di Caprarola permette a Carlo Cosci di realizzare questo 
elaborato, uno dei più complessi e al contempo interessanti presenti nel fondo. 
Secondo un’usanza alquanto comune nell’Ottocento, gli elementi più complessi 
di una porzione dell’edificio sono disegnati in un unico foglio. dui, infatti, è 
possibile incontrare le rappresentazioni delle paraste rustiche viste di lato, il fre- 
gio dorico comprensivo di metope e triglifi, del cornicione dal sottinsù, con le 

occe e i quadroni completi di gigli araldici farnesiani, le modanature all'imposta 
dell'arco della porta, e inoltre una porzione del fregio e del frontone di una delle 
finestre del piano terreno. Ogni particolare è comprensivo di un suo titolo; nu- 
merosissime sono le quote rese in piedi parigini. E presente inoltre la scala grafica. 


Carlo Cosci 

11) Alzato di una campata del cortile 
penna su carta beige 

mm 350x260 

Stato di conservazione buono 


Con la stessa tecnica impiegata nel disegno numero nove, Carlo Cosci rappresenta 
il livello terreno del cortile circolare, in maniera specifica una campata e un pilastro. 
Si sceglie, quindi, di impiegare la sola penna, senza raffigurare alcun tipo di ombra. 
Anche qui, sono presenti numerose quote e una scala grafica in piedi parigini. 


Carlo Cosci 

12) Ortografia della loggia che serve d'imbasamento alla Prima Terrazza 
penna su carta beige 

mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


In questo disegno, è rappresentato il grandioso portale bugnato che permette, dal 
punto più alto dell’abitato, accedere alla grande grotta ipogea. La porta, insieme a una 
porzione del muro alla sua destra, è rappresentata sia in pianta che in alzato. L'acque- 


278 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





rello è impiegato per raffigurare le parti sezionate, mentre il prospetto è interamente 
reso con l'impiego della penna. Nella porzione superiore del foglio è presente una 
sezione della balaustra sovrastante il portale. Come in tutti gli altri elaborati di Carlo 
Cosci, sono presenti numerose quote e una scala grafica in piedi parigini. 


Carlo Cosci 

13) Alzato e pianta del portale d’ingresso al piano interrato e di parte dello 
scalone esterno 

penna su carta beige 

mm 330x260 

Stato di conservazione buono 


La tecnica impiegata per la realizzazione di questo disegno è la medesima del 
disegno 12: l’acquerello impiegato solo in pianta, con due tonalità diverse, più 
scura per le zone sezionate più chiara per le altre. In questo caso, essere rappresen- 
tato è il portale che si apre sul primo ripiano e che permette di accedere ii piano 
interrato, dove si trovavano, tra gli altri servizi, anche le monumentali cucine. 
L'apparato architettonico è reso per intero: sono quindi presenti entrambe le por- 
zioni di muro ai lati della luce ai inoltre le porzioni iniziale e terminale delle scale 
che portano fino alla quota del piano terreno della villa. Anche qui numerose 
sono le quote ed è presente la Gi metrica in piedi parigini. 


Carlo Cosci 

14) Dettagli dell'Ordine Esteriore del Secondo Piano 
Finestra li è agli Avancorpi del Secondo Piano 
Metà del Soffitto della Porta della Galleria 

penna su carta marroncina 

mm 390x260 


Stato di conservazione buono 


Come Achille Giscard, anche Carlo Cosci si cimenta nella rappresentazione 
dei particolari architettonici della Villa Farnese di Caprarola. In questo caso, ci 
si concentra, tuttavia, sul primo piano, connotato dall ordine ionico. L'impiego 
delle acquarellature, in grigio tenue, è limitato alle porzioni sezionate, mentre 
tutto il resto è reso con la penna, senza alcuna rappresentazione di ombra. L'au- 
tore conferisce un titolo a ognuno dei particolari rappresentati: si incontrano un 
dettaglio dell’ordine ionico, altri due con le trabeazioni delle finestre del primo 
piano (che l’autore chiama secondo), una sezione di una delle finestre e una se- 
zione in corrispondenza del parapetto della sala dei fasti. E inoltre rappresentata, 
con vista dal sottinsù, la cornice di una delle porte di accesso alla galleria, comple- 
ta di protomi leonine e di quadroni con i gigli araldici dei Farnese. Anche in que- 
sto caso, dettagliatissime sono le quotature, in piedi parigini come la scala grafica. 


Carlo Cosci 

15) Porta D'ingresso Al Pian Terreno 
penna su carta beige 

mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


279 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 





Anche il portale di accesso al piano terreno della villa è rappresentato da Carlo 
Cosci mediante la stessa tecnica impiegata nel disegno 13. La pianta è realizzata 
con penna e acquerello, nero per le parti sezionate, più chiaro per le altre. L'alzato 
è, invece, reso col solo impiego della penna: compaiono anche alcune ombre nelle 
mensole delle finestre. L’elaborato è completo di titolo, quote, presenti soprattut- 
to nel prospetto, e scala grafica, in piedi parigini. 


Guglielmo Martolini 
16) Pianta del piano nobile della Villa di Caprarola 
penna su carta chiara 


mm 360x250 


Guglielmo Martolini, di origine pisana, dopo aver frequentato la Scuola Mi- 
choniana, fece parte del consiglio dei giurati della classe di architettura presso 
l’Esposizione Italiana del 1861, che ebbe luogo a Firenze. Due anni dopo, fu un 
membro della commissione per sovrintendere al “maggior decoro” della piazza 
dei Miracoli a Pisa. 

In questo disegno, l’unico di sua mano presente nel fondo, si cimenta nel rap- 
presentare la pianta del piano nobile del palazzo Farnese a Caprarola. Liu 
di colore scuro connota le pareti sezionate, mentre quello più chiaro è impiegato 
per i muri visti dall’alto, come quelli dei cinque avancorpi. L'autore rappresenta 
anche, in maniera schematica, il disegno del pavimento della cappella circolare 
posta alla destra del salone dei fasti. In alto a destra è presente una sezione del 
primo piano e del mezzanino sovrastante: in questo caso, le pareti sezionate sono 
campite con un acquerello rosa. In basso a destra, si incontra un dettaglio della 
pianta del salone dei fasti, reso a scala più grande. E presente una scala grafica, 
probabilmente in piedi parigini. 


Angiolo Della Valle 

17) Dettagli del ordine esterno del piano superiore 
finestra del detto piano 

penna su carta beige 

mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


Tra gli allievi della scuola, il livornese Angiolo Della Valle fu uno di quelli che 
ebbe grande successo professionale. Dopo gli anni trascorsi nell’istituzione fondata 
da Carlo Michon, si trasferì a Firenze dove ebbe modo di frequentare l'Accademia 
di belle arti. Tornato a Livorno, nel 1850 diventa assistente di Pasquale Poccianti 
alla Deputazione degli Acquedotti, finché nel 1857 gli succede. Nella sua città na- 
tale, ebbe modo di realizzare numerosi interventi, tra cui la chiesa di San Giorgio, 
i loggiati del cimitero della misericordia, la cappella Minbelli nello stesso cimitero. 

Questo elaborato raffigura alcuni dettagli di una delle facciate esterne della 
villa, al secondo piano. Vi sono raffigurati la trabeazione, l'ordine architettonico 
e un particolare della cornice di una delle finestre. Realizzato con la sola penna, il 
disegno completo di quote e di scala grafica, in piedi parigini. 


280 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





Attilio Paradossi 

18) Pianta del piano terreno della Villa di Caprarola 
penna su carta beige 

mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


Il disegno di Attilio Paradossi rappresenta una pianta del piano terreno del 
palazzo Farnese di Caprarola. Le murature sezionate sono campite con acqua- 
rellatura scura, mentre le altre sono rese con un colore più chiaro. Con la penna 
sono raffigurate le coperture delle sale, quasi tutte volte a padiglione, gli scalini 
del grande scalone circolare e la pavimentazione del cortile centrale. 

Nella porzione superiore del disegno, si intravedono alcune parti dei giardini 
formali, posizionati a destra e a sinistra dell’edificio. Con dovizia di particolari, è 
rappresentata la scansione delle aiuole che li contraddistinguono. 


Carlo Caproni 

19) Particolari della Villa di Caprarola 
penna su carta beige 

mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


Carlo Caproni, a differenza dei suoi colleghi, scelse di rappresentare in questo 
elaborato dei particolari presi sia dal cortile che dall'esterno del palazzo Farnese 
di Caprarola. 

Sulla sinistra, infatti, vediamo la trabeazione, l'ordine architettonico e una 
balaustra del primo piano del cortile circolare; sulla destra, invece, vediamo la 
trabeazione dei tre livelli dell'esterno, il dettaglio di una porta e il capitello ionico 
del primo piano. L'autore sceglie di impiegare soltanto fi penna come mezzo di 
rappresentazione, utilizza le quote in maniera molto discreta e inserisce una scala 
metrica, probabilmente in piedi parigini. 


Carlo Chelli 

20) Dettagli della loggia al di sotto della prima terrazza 
Balaustra della scala esterna e della seconda terrazza 
penna su carta beige 

mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


Carlo Chelli si cimenta, in questo disegno, nel rappresentare alcuni dettagli 
del portale di accesso al piano interrato della Villa Farnese di Caprarola, e degli 
elementi che lo contornano. 

La scelta grafica dell'autore è quella di operare soltanto con la penna, non 
facendo ricorso all’acquerello. In questo modo, il disegno è schematico, ma di 
immediata lettura. Lo stesso Carlo Chelli inserisce il titolo della tavola, Dettagli 
della loggia al di sotto della prima terrazza e Balaustra della scala esterna e della 
seconda terrazza, illustrando cosa è andato a rappresentare. Inserisce inoltre le 
quote nei punti dove pensa che siano più necessarie, come ad esempio nella ba- 
laustra della prima terrazza o nella creazione sovrastante il portale. Le quote sono 


281 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 





anche in questo caso in piedi parigini, come ci dice lo stesso autore al momento 
di inserire la scala grafica, posta al di sotto del titolo. 


Giuseppe Mercatelli 
21) Pianta 
penna su carta beige 


mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


Giuseppe Mercatelli si cimenta nella rappresentazione della complessa pavi- 
mentazione di uno degli ambienti più importanti del palazzo Farnese di Capra- 
rola, la cappella del primo piano. 

Questa, posizionata a destra rispetto al salone dei fasti, a pianta circolare e 
copre un’area pari a quella del grandioso scalone d’onore circolare. Insieme a 
quello dello stesso salone dei fasti, il pavimento della cappella è il più complesso 
dell'intero edificio. Era piuttosto comune, nella seconda metà del cinquecento, la 
realizzazione di preziosi pavimenti in mattone, ottenuti mediante l'accostamento 
di laterizi di colore differente. 

Probabilmente dovuto allo stesso Vignola, il disegno si basa su complessi mo- 
tivi geometrici; Giuseppe Mercatelli sceglie di impiegare l’acquerello in tonalità 
diverse per evidenziare la differenza delle geometrie. 


Giuseppe Mercatelli 

22) Pianta del piano interrato della Villa di Caprarola 
penna su carta 

mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


Il piano interrato della Villa Farnese di Caprarola è accessibile dall'esterno 
mediante il grande portale bugnato che si trova al termine del primo ripiano. 
Inoltre, questa parte dell’edificio è collegata ai piani superiori da tre scale a chioc- 
ciola di servizio e anche dal grande scalone elicoidale; esteso quasi esattamente 
come il piano terra, esso alloggiava numerosi ambienti di servizio, tra cui le due 
monumentali cucine. Giuseppe Mercatelli sceglie di impiegare l’acquerello nero 
per campire i muri sezionati in pianta: sono anche presenti numerose quote, in 
grado di permettere all’osservatore di capire quali siano le dimensioni di alcune 
stanze. L'autore arricchisce inoltre il disegno di quattro sezioni, scelte in porzioni 
significative dell’edificio; in questo caso L pareti sezionate sono evidenziate me- 
diante l’impiego di un acquerello rosa. 


Anonimo (sigla G.G.) 

23) Balaustro della scala esterna e della seconda terrazza 
Dettagli della loggia al disotto della prima Terrazza 
Balaustro della prima Terrazza 

penna su carta avorio 

mm 490x375 

Stato di conservazione discreto 

mancanza in basso a destra, qualche strappetto in alto 


282 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





Sono numerosi, nel fondo, i disegni non firmati oppure, come in questo uni- 
co caso, contraddistinti soltanto da una sigla che non permette l’identificazione 
dell’autore. 

Questo elaborato si avvicina molto, tuttavia, al disegno numero 20 del fondo, 
realizzato da Carlo Chelli: praticamente gli stessi sono i particolari rappresentati, 
così come alquanto simile è lo stile impiegato nella rappresentazione. L'anonimo 
sceglie di Liu l'ordine architettonico del portale di accesso al piano inter- 
rato, e alcuni dettagli delle balaustre del primo e del secondo ripiano: la tecnica 
impiegata è la sola penna, che permette un'immediata leggibilità dei dettagli. Le 
quote sono presenti in ciascuno dei particolari disegnati: sono in piedi parigini, 
come suggerito dalla scritta posizionata al di sotto della scala grafica. 


Anonimo 
24) Pianta 
penna su carta avorio 


mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


Anonimo 
25) Pianta della scala a chiocciola della villa di Caprarola con alcuni dettagli 
penna su carta avorio 


mm 350x260 


Stato di conservazione buono 


Probabilmente proprio a causa della sua complessità strutturale, lo scalone 
elicoidale del palazzo Farnese di Caprarola, forse l’ambiente più famoso dell’edifi- 
cio, compare nel dettaglio soltanto in questo elaborato realizzato da un anonimo. 
Tuttavia, in questo caso, ci si limita a rappresentarlo in pianta e innalzato per 
quanto riguarda alcuni dettagli, evitando quindi di disegnarlo in sezione. 

Mediante l’impiego di una tecnica mista a penna e acquerello, l’autore raf- 
figura i muri sezionati campite in nero. Compaiono alcuni dettagli dell’ordine 
architettonico e delle balaustre, tuttavia ci sono alcuni elementi che inducono a 
pensare come il disegno non sia stato terminato. Intanto, l’assenza di qualsivoglia 
indicazione non ci permette di capire a che quota sia stata realizzata la pianta; 
poi, chiaramente non finiti appaiono dettagli sulla sinistra. Inoltre, è presente 
una scala grafica, realizzata non sappiamo con quale unità di misura, così come, 
invece, non c'è sul foglio alcuna quota. 


Anonimo 

26) Pianta del mezzanino della Villa di Caprarola 
penna e acquerello su carta avorio 

mm 345x545 


Stato di conservazione buono 


L'ultimo piano del palazzo Farnese di Caprarola era destinato ad attività di ser- 
vizio e agli alloggiamenti della servitù. L'anonimo disegnatore raffigura in questo 
disegno L complessità planimetrica di questa porzione dell’edificio, caratterizzata 
dalla presenza di un corridoio centrale che percorre tutti i cinque lati della villa, 


283 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 





su cui si affacciano numerosissime stanze di piccola e media dimensione. Quattro 
scale a chiocciola di servizio collegano questo livello con quelli inferiori. L'autore 
ha scelto di impiegare una tecnica mista: penna e acquerello; con quest’ultimo, 
infatti, viene scelto di campire le pareti sezionate. Nel disegno non è presente 
alcun tipo di descrizione né di quota mentre, nella porzione inferiore, vediamo 
una A grafica, probabilmente in piedi parigini. 


Anonimo 

27) Pianta del Cortile della Villa di Caprarola 
penna e acquerello su carta avorio 

mm 385x581 

qualche piccolo strappo lungo i bordi 


La pavimentazione del grande cortile circolare del palazzo Farnese di Capra- 
rola si presenta con un disegno piuttosto complesso, a spicchi. Il loggiato è raffi- 
gurato a due quote differenti: quella del piano terreno e quella del primo piano. 
L'autore ha impiegato una tecnica mista: con la penna sono tracciati contorni, 
mentre con acquerelli di colore differente sono rappresentate i muri sezionati, i 
pavimenti del loggiato al piano terra e al primo piano, il pavimento del cortile 
e le prese di luce dell’interrato. Non sono presenti le quote, ma, al di sotto della 
composizione, è presente una scala grafica, in questo caso intesi. Inoltre, il dise- 
gno ha un titolo, posto alla base. 


Anonimo 

28) Vista laterale della Villa di Caprarola 
penna su carta avorio 

mm 345x545 


Stato di conservazione buono 


In questo elaborato, di cui purtroppo non conosciamo l’autore, è rappresen- 
tato l’esterno del palazzo Farnese di Caprarola preso da sud. In questo modo, 
la facciata rivolta verso il paese e la porzione superiore del complesso sistema di 
scale che permette di salire dall'abitato fino al portale di accesso all’edificio sono 
rappresentati di scorcio, con estrema maestria. 

Il disegno appare tuttavia non terminato, a causa dell’assenza della scala grafi- 
ca, sempre presente negli elaborati sopravvissuti della scuola. 

La penna è l’unica tecnica impiegata: non vi è traccia di acquarellatura né di 
quote, non sappiamo se per una scelta deliberata o proprio perché l’elaborato 
non è finito. 


Anonimo 

28a) Sezione della Villa di Caprarola 
penna su carta avorio 

mm 345x545 


Stato di conservazione buono 


Probabilmente dello stesso autore del disegno 28, di cui riprende le dimensio- 
ni e la tecnica esecutiva impiegata, questo elaborato è il più complesso tra quelli 
sopravvissuti realizzati dagli allievi della Scuola Michoniana. Si tratta di una se- 


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“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





zione dell’intero complesso, presa da sud. 

È rappresentato l’intero sistema di ascensione alla villa, partendo dal piano 
dell’abitato. E così possibile identificare lo scalone a tenaglia, la doppia \ del 
ripiano superiore, la grotta, il piano interrato, il cortile, con la complessità del 
suo apparato lapideo, perfino l'ordine architettonico parietale del salone dei fasti, 
per arrivare al secondo piano, destinato alla servitù, e alle soffitte. La tecnica im- 
piegata è mista: la penna per i contorni, mentre le pareti sezionate sono campite 
mediante l’impiego di un acquerello dalla tonalità rosa. In questo caso, l'anonimo 
autore si concede persino la libertà di rappresentare, sulla sinistra, due alberi e 
il profilo dei monti, sullo sfondo. Il disegno è privo di quote e di scala metrica. 


Anonimo 
29) Decorazione Esterna del Piano Superiore 
penna su carta beige 


mm 260x350 
Stato di conservazione buono 


Con la tecnica della sola penna è realizzato questo disegno, che raffigura la 
porzione sommitale del palazzo Farnese di Caprarola, nella sua estremità destra. 

La rappresentazione è resa con dovizia di particolari, in particolar modo nella 
trabeazione, dove sono rappresentate le metope contraddistinte dalla presenza del 
giglio araldico dei Farnese. 

Pur non essendo firmato, l'elaborato appare completo: l’autore ha, infatti, in- 
serito il titolo, numerose quote, certamente le più significative, e anche una scala 
grafica, in questo caso curiosamente indicata come: “Scala di Piedi dei Parigini”. 


Disegni di portale di casa veronese 


Giuseppe Polani 
30) Porta d'una casa ora estinta in contrada de’ Leoni in Verona 
penna e acquerello su carta avorio 


mm 350x260 


stato di conservazione buono 


L’elaborato di Giuseppe Polani, architetto noto per aver progettato le carceri 
di Torino, raffigura il portale del non più esistente palazzo Verità, poi Montana- 
ri, di Verona. Fa probabilmente parte delle esercitazioni della scuola, anche se è 
stranamente presente una quotatura in metri: questo particolare ci suggerisce di 
portare piuttosto in avanti la datazione del disegno, dal momento che il sistema 
metrico decimale è stato introdotto in Toscana nel 1860. 

Il soggetto è rappresentato mediante l’impiego di inchiostro e acquerello di 
tonalità diverse, al fine di rendere immediatamente percepibili le ombre e con 
esse il gioco degli aggetti. 

Per quanto riguarda il portale raffigurato, esso è rappresentato in pianta e pro- 
spetto nel primo disegno, mentre nel secondo vediamo alcuni dettagli dell'ordine 
architettonico. Possiamo inserire il manufatto tra le realizzazioni di ascendenza 
sammicheliana realizzate a Verona già dai primi decenni del Cinquecento. Il co- 
strutto utilizzato, con un'edicola che inquadra il portale, completa di semicolon- 


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Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 





ne ioniche poste su piedistalli e fregio liscio con una scritta a caratteri lapidari 
(‘PAX HVIC DOMVI ET HABITANTIBVS IN EA”), sembra infatti essere 
direttamente debitore del portale del palazzo del podestà a Verona realizzato da 
Michele Sanmicheli (1484-1559) nel 1533. 

Tuttavia già negli anni Trenta del Novecento si tendeva ad assegnare questo 
portale al disegno di un suo seguace: l'architetto veronese Paolo Farinati che, come 
risultava da un'epigrafe localizzata nel salone dell’edificio, lo terminò nel 1583. 


Bibliografia 


BaLpAanzi Brucciani, Rosetta (1985), La “Scuola di architettura, ornato e agri- 
mensura” a Livorno, sec. XIX, in “La Canaviglia: Livorno nella storia, nella 
narrativa, nell’arte”, a. X, n. 4, pp. 84-90. 

CarnasciaLI, Maurizio (2010), Liîncisore Giovanni Paolo Lorenzi allievo sordo- 
muto di Raffaello Morghen nell'Accademia di Belle arti di Firenze, in “Nuovi 
Studi Livornesi”, vol. XVII, pp. 249 e seguenti. 

CrestI, CARLO & ZANGHERI, Luigi (1978), Architetti e ingegneri nella Toscana 
dell'Ottocento, Firenze, Uniedit. 

GHERARDI, GAETANO (1880), Cenni sulla scuola Michoniana di Livorno, Livorno, 
Tipografia P. Vannini e figlio, Pia Casa del Refugio. 

LAZZARINI, MARIA TERESA (1996), Artigianato artistico a Livorno in età Lorenese 
(1814-1859), Livorno, Società Editrice Livornese. 

Mrozzi, Vincenzo & Meozzi, ANTONIO (1861-1927), Guide commerciali per la 
città di Livorno, Livorno, Stab. Grafico Ruffilli. 

Moc4HÒI, Antonio GiusepPe (1839), Elogio funebre per il cavalier Carlo Michon 
in occasione dei funerali celebrati nella chiesa della Casa Pia delle povere fanciulle 
mendicanti di Livorno nel 28 novembre 1839 Livorno. 

Palazzo de Larderel a Livorno: la rappresentazione di un'ascesa sociale nella Toscana 
dell'Ottocento (1992), a cura di Lucia Frattarelli Fischer e Maria Teresa Lazza- 
rini, Milano, Electa. 

Pasquale Poccianti architetto 1774-1858. Contributi al convegno per la celebrazione 
del secondo centenario della nascita (1974), a cura di Francesco Gurrieri e Luigi 
Zangheri, Firenze, Uniedit. 

Pera, FRANCESCO (1867), Ricordi e biografie Livornesi (1867), Livorno, Francesco 
Vigo Editore. 

PICCHIANTI, Giovan BATTISTA (1855), Cenni sulla Scuola Michoniana, in “Le 
Arti del Disegno”, a. II, n. 12 (mar. 1855), pp. 47-48. 

RepETTI, EMauELE (1855), Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana Fi- 
renze, Edizioni A. Tofani, vol. 2. 

WiQuEL, GIOVANNI (1976-1985), Dizionario di persone e cose livornesi, Livorno, 
Ugo Bastogi Editore. 


286 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





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Fig. 1: Autorizzazione granducale per l'apertura della Scuola di architettura, ornato e agrimensura. 


287 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 








Fig. 2: Palazzo del Refugio a Livorno, sede della Scuola Michoniana. 


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“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 








Fig. 3: Palazzo del Refugio, corte interna (Foto di Chiara Lo Re, 2017) 


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Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 








Fig. 4: Corte interna del Refugio intorno alla metà dell'Ottocento (Biblioteca Labronica di Livorno, 
Album di foto Gamerra). 


290 


“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 





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Fig. 5: Palazzo del Refugio, “albero di manovra”: studenti della scuola di mozzi in occasione dell’apertura 
dell’anno scolastico (Archivio Storico del Comune di Livorno, fondo Dal Borro, album fotografico). 


291 


Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 




















































































































































































































Fig. 6: Gaetano Gherardi, Alzato dell’Altare della chiesa di S. Maria del Soccorso di Livorno. 


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“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 















































































































































Fig. 7: Carlo Cosci, Sezione in corrispondenza del cortile della Villa di Caprarola. 


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Costantino Ceccanti - Anna Ventimiglia 

















artitio Panadofei 








Fig. 8: Attilio Paradossi, Pianta del piano terreno della Villa di Caprarola. 
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“Il superfluo in mano del ricco sia quasi patrimonio del povero”: 
Carlo Michon e la Scuola Michoniana di architettura, agrimensura e ornato 






































Fig. 10: Giuseppe Polani, Porta d’una casa ora estinta in contrada de’ Leoni in Verona. 


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Aggiunte per Clémence Roth 





FABIO SOTTILI 


Il presente contributo nasce quale aggiunta a quanto da me pubblicato sulle 
pagine di questo Bollettino lo scorso anno, per far conoscere l’attività di Clémen- 
ce Eugenie Roth (1858-1918), la “buona Clem” citata dai documenti,” una pit- 
trice francese che frequentò assiduamente il mondo parigino dei Sa/ons fra la fine 
dell'Ottocento e gli inizi del secolo successivo, ma sulla quale è caduto l'oblio. 

Nei mesi scorsi infatti sono venuto a conoscenza di un gruppo di dieci suoi di- 
pinti conservati nel Musée d’Art et d’Histoire Paul Eluard di Saint-Denis, presso 
Parigi, tre dei quali nel 2006 hanno fatto parte di una mostra allestita in quello 
stesso museo.5 Il nucleo si è formato attraverso varie donazioni alla città natale 
della pittrice, dovute in massima parte fra il 1936 ed il 1943 alla sorella Eugenie 
Fould, moglie del generale Leon Francfort; questa donazione portò André Bar- 
roux, conservatore del museo fra il 1921 ed il 1942, a creare 16 interno una 
sala appositamente dedicata a Clémence Roth prima del 1940.‘ 

Allieva di Alfred Stevens, ottenne vari riconoscimenti pubblici negli anni ’80 
del XIX secolo all’interno di numerose sedi espositive in Francia e in Belgio, 
dove partecipò principalmente con ritratti femminili e di bambini a olio o a pa- 
stello, che ottennero un discreto successo. 

È il caso del Ritratto di donna, purtroppo ignota, del 1884 (fig. 1), che, insie- 
me allo Studio di bambino datato 1885 (fig. 2), sono gli unici suoi due pastelli 
ora al museo di Saint-Denis; il primo penso che sia il “Ritratto di Mademoiselle 
E” esposto al Salon des Artistes Francais nel 1884, mentre nel secondo dovrebbe 
individuarsi lo Studio in pastello presentato nella stessa manifestazione del 1886.9 
I suoi pastelli esposti nel 1886 alla mostra della Société de l'union des femmes 





! Sottili, 2019. Rimando a questo testo per ogni altro precedente riferimento bibliografico. 


2 Oulman Bensaude, 2016, p. 166. Era figlia di Cecile Sarah Maas (1822-1894) e di Isidore 
Fould (1811-1878), cavaliere della Legion d'Onore e dirigente della compagnia assicurativa L'Union, il 
cui fondatore era stato il suocero Myrtil Maas. 

3. Gonzalez, Faure, 2006. Negli Archivi Municipali di Saint-Denis esiste un fascicolo con “Infor- 
mazioni sugli artisti esposti al Museo: appunti, rassegna stampa relative ad artisti esposti al Museo” dal 
1934 al 1944, fra cui Clémence Roth (inv. 2 R_ 17). 

4 Ringrazio la dott.ssa Elsa Tilly per queste informazioni. 

Le venne attribuita la menzione d’onore al Salon ufficiale di Parigi del 1881, e le furono asse- 
gnate la medaglia d’oro al Salon d’Anversa del 1882 e la medaglia di bronzo all’Esposizione Universale 
ospitata a Parigi nel 1889. 

6 Sottili, 2019, p. 404. Il Ritratto di donna, datato 1884, è un pastello su tela di 100,4x73,4 
cm (inv. 2018.0.20); lo Studio di bambino, datato 1885, è stato realizzato con pastelli su una tela di 
40,2x30,8 cm (inv. NA 2580), ed è stato donato al museo nel Maggio 1938 da un non meglio precisato 
“Signor Pontremoli”. Cfr. Gonzalez, Faure, 2006, pp. 124-125. 


S 


297 


Fabio Sottili 





peintres et sculpteurs, allestita nel Palazzo dell’Industria sugli Champs-Elysees, ri- 
scossero un buon apprezzamento, come è attestato nel seguente stralcio di arti- 
colo: “La Signorina Clémence Roth ha squisiti pastelli, toni chiari e sobri, di una 
gamma vibrante. Le sue due teste femminili sono sicuramente tra le opere più 
artistiche di questa mostra” (M.lle Clémence Roth a d’exquis pastels, clairs, de 
tons sobres, d'une gamme vibrante. Ses deux tétes de femme sont certainement 
parmi les morceaux les plus vraiment artistes de cette exposition).” 

Effettivamente lo Studio di bambino dimostra le sue grandi capacità pittori- 
che, infatti il volto dalla carnagione chiara e dai capelli biondi emerge lentamente 
dallo sfondo monocromatico grigio attraverso una tecnica fatta di tratteggi evi- 
denti, seguendo gli esempi dei più importanti pittori impressionisti, soprattutto 
di Degas. La pittrice fu amica di Berthe Morisot, ma soprattutto di Edouard 
Manet, del quale nel suo atelier conservò alcuni dipinti, secondo quanto riporta 
il catalogo della mostra di Saint-Denis.* La scelta di raffigurare il bambino di 
lato, laid il rotondo profilo e la folta capigliatura, si ripeterà dopo qualche 
anno nella Fanciulla che guarda un cardellino impagliato di li privata? (fig. 
3): spesso infatti nella sua produzione si rivela una predilezione per pose bloccate, 
spesso frontali o laterali, che, nonostante uno stile realista, sembrano astrarre il 
protagonista dal contesto in cui è collocato. 

Non si ritrova invece la stessa dolcezza nel Ritratto di Jeanne ed Eugène Raba 
eseguito in quello stesso 1886'° (fig. 4). Le teste dei due bambini, rigidamente vi- 
sti di fronte e freddi nei loro sguardi, emergono nel loro pallore e nelle loro fulve 
capigliature da un fondo nero in cui si perdono anche di indumenti altrettanto 
scuri, che dimostrano la loro appartenenza ad una famiglia borghese. 

La collezione del Musée d’Art et d’Histoire di Saint-Denis conserva poi il 
Ritratto di Eugenie Fould'' del 1886, un bel ritratto di % della sorella minore Eu- 
genie Pauline (1854-1945) dipinto in modo spiccatamente accademico su uno 
sfondo monocromatico (fig. 5), ed il cui disegno forse può riconoscersi in quello 
esposto nel Salon del 1885.!° 

Similmente, sempre su un fondo grigio, la Roth ha concepito il Ritratto di 
signora con due bambini" (fig. 6), da datarsi verso il 1890, nel quale ha utilizzato 


7. Bridault, 1886. 

8. Gonzalez, Faure, 2006, p. 98. 

> Sottili, 2019, pp. 397, 399-400, 416. 

!° L'olio su tela, datato 1886, misura 65,5x95,5 cm (inv. 2018.0.10), e riporta il nome dei due 
bambini in alto a destra. Nella scheda del museo si afferma che il Ritratto dei bambini Raba sia la tela 
raffigurante il Ritratto di signora con due bambini (inv. 2006.0.81), ma io ritengo questa ipotesi errata. 
I nomi dei due fanciulli scritti sul dipinto e l’anno di esecuzione coincidono con il titolo di un’opera 
esposta al Sa/or del 1886, nel cui catalogo si trova scritta l'iniziale del cognome “R” (Sottili, 2019, p. 
404). Poiché attraverso una lettera scritta da Eugenie Fould il 30 Marzo 1937 ed indirizzata ad André 
Barroux, sappiamo che la sorella della Roth offrì al museo un quadro col Ritratto dei bambini Raba, 
ritengo di riconoscere tale dipinto nel Ritratto di Jeanne ed Eugène. 

U Èunolio su tela, datato 1886, che misura 67x53 cm (inv. NA 2191). 

1? Sottili, 2019, p. 404: in questa trascrizione avevo ritenuto forse erroneamente che “M. E. 
Fould” dovesse tradursi in “Monsieur E. Fould”, mentre adesso credo si debba intendere come “Made- 
moiselle E. Fould”, e quindi riferirsi alla sorella. 

!5 Realizzata a olio su tela, ha dimensioni 144,7x95,5 cm (inv. 2006.0.81). Propongo che in que- 
sto dipinto vi si possa riconoscere il “Ritratto di Madame C. O.... e dei suoi bambini” esposto al Salon de 


298 


Aggiunte per Clémence Roth 





una composizione piramidale disponendo le figure in pose diverse: mentre la 
gentildonna, elegantemente vestita, è seduta, la bambina è in piedi e il bambino 
sta a terra con un giocattolo, entrambi però appoggiati alla madre. Realizzato 
attraverso sapienti pennellate che con semplici tratti riescono ad creare una resa 
naturalistica, è una dimostrazione della sua tecnica magistrale con la quale riesce 
a rendere la trasparenza del velo nero sull’abito di seta con rapide pennellate, si- 
mile a quella che ritroviamo nelle bambine de La prima comunione (Les premières 
communiantes) dipinto nel 1885 da Alix d’Anethan,! anche lei allieva di Alfred 
Stevens. La stessa modella del Ritratto di signora con due bambini sembra essere 
la protagonista dello Studio di donna! di Clémence Roth (fig. 7), dove la figura 
femminile è ripresa di profilo mentre cammina all'aperto protetta dall’ombrellino 
e dal cappello, durante una passeggiata in un parco nel quale ha raccolto dei fiori. 
Molto ben condotto nella resa dla figura e del vestito, è anche testimonianza 
delle sue doti nell'esecuzione di nature morte e di paesaggi, per le quali la pittrice 
era nota, ma di cui ancora non sono emerse sue opere. 

Lo stesso timbro di azzurro intenso con cui definì il fondo della Fanciulla che 
guarda un cardellino impagliato di collezione privata, si ritrova nel piccolo Ritratto 
di Madame Emerique' (fig. 8) realizzato nel 1893, nel quale si du una don- 
na di età avanzata e dal fermo cipiglio, di cui però, nonostante il nome, non sono 
emerse ulteriori informazioni. 

Con i pittori impressionisti la figura umana venne indagata in modi inconsue- 
ti e con punti di vista inediti. Tale atteggiamento sembra echeggiare nello Studio 
di giovane donna di schiena" (fig. 9), un olio su tavola nel quale si pone l’atten- 
zione sul collo della modella, reso protagonista dalla posa, dall’acconciatura, e dal 
vestito scollato sulla schiena. 

Altre due pitture di Clémence Roth appartengono al Museo di Saint-Denis: 
si tratta di un Ritratto di donna'* di circa cinquant'anni dipinta contro un fondo 
blu, e dell'unico dipinto della collezione che rappresenta un interno, più precisa- 
mente la Biblioteca di Monsieur Alfred Pereire® (fig. 10), famoso storico e biblio- 
filo francese (1879-1957). 





la Société Nationale des Beaux-Arts nel 1891 (Sottili, 2019, p. 406). 

!# Di collezione privata, è passato a Bruxelles presso l’asta Pierre Bergé e Associates del 16 Giugno 
2019 (lotto 50). 

5. Misura 100x65 cm ed è stato dipinto a olio su tela (inv. NA 2577). 

6 È unolio su tela di 28,8x22,8 cm (inv. NA 2578). 

Ha misure simili al Ritratto di Madame Emerique, infatti è di 27,2x22,2 cm (inv. NA 2301). 

18 Di questo la scheda del museo è priva di foto, non riporta ne’ le misure, ne’ la tecnica, e nep- 
pure il numero d'inventario: sappiamo solo che è firmato dalla pittrice in alto a sinistra. 

!° Eseguito a olio su una tela di 55x46,2 cm (inv. NA 2579), e proveniente dalla collezione di Euge- 
nie Fould, ritrae una stanza con a sinistra una sedia e a destra un tavolo su cui sono appoggiati dei libri, 
un pezzo di porcellana e una scultura; sul fondo, tra due librerie, troneggia un camino acceso, sul quale 
vasi, statuette e un busto fanno bella mostra di sé, con dietro uno specchio sormontato da un dipinto 
raffigurante un soggetto mitologico (forse il Trionfo di Nettuno e Anfitrite). Sullo specchio si riflettono 
le librerie della parete opposta, fra le quali si apre una porta che crea così un senso di profondità, di- 
mostrando una predilezione per la fuga prospettica che ritroviamo anche nel suo più tardo /nzerno del 


Castello di Versailles (cfr. Sottili, 2019, pp. 401, 422). 


299 


Fabio Sottili 





Bibliografia 


BRIDAULT J., L'art féminin, in “Le Gaulois”, 13 Febbraio 1886, p. 2 

Gonzatez S., Faure O., (a cura di), Picasso, Chagall, Signac... Artistes et collec- 
tionneurs donateurs du musée d'art et d’histoire de Saint-Denis, catalogo della 
mostra (Saint-Denis, Musée d’Art et d’Histoire Paul Eluard, 15 Settembre 
2006-15 Gennaio 2007), Saint-Denis 2006 

OULMAN ]. BENsAUDE, Memorie, a cura di Luisa Levi D'Ancona, Firenze 2016 

SortILI E, Clémence Roth: una pittrice da Salon nell'età dell’Impressionismo, in 
“Bollettino dell’Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato al Tede- 
sco”, 86, 2019, pp. 393-425 


300 


Aggiunte per Clémence Roth 








Fig. 1: Clémence Roth, Ritratto di donna (Portrait de femme), 1884, Saint-Denis, Musée d’Art et 
d’Histoire Paul Eluard (crediti fotografici: Iréne Andréani) 


301 


Fabio Sottili 














Fig. 2: Clémence Roth, Studio di bambino (Étude d’enfant), 1885, Saint-Denis, Musée d’Art et d’Histoire 
Paul Eluard (crediti fotografici: Iréne Andréani), già Parigi, collezione Pontremoli 


302 


Aggiunte per Clémence Roth 





Fig. 3: Clémence Roth, Particolare di Fanciulla che guarda un cardellino impagliato. Studio — Ritratto 
di bambina II (Fillette regardant un chardonneret empaillé. Etude), 1901, collezione privata, già Firenze, 
collezione Charles de Lima 


303 


Fabio Sottili 








Fig. 4: Clémence Roth, Ritratto di Jeanne ed Eugène Raba (Portraits de M.lle Jeanne et de M. Eugène 
Raba), 1886, Saint-Denis, Musée d’Art et d’Histoire Paul Eluard (crediti fotografici: Iréne Andréani) 


304 


Aggiunte per Clémence Roth 























Fig. 5: Roth, Ritratto della sorella Eugenie Fould (Portrait de M. Eugenie Fould), 1886, Saint-Denis, 
Musée d’Art et d’Histoire Paul Eluard (crediti fotografici: Irèéne Andréani), già Parigi, collezione 
Eugenie Fould 


305 


Fabio Sottili 





Fig. 6: Clémence Roth, Ritratto di signora con due bambini (Portrait d'une femme avec deux enfants), 
1890 ca., Saint-Denis, Musée d’Art et d’Histoire Paul Eluard, (crediti fotografici: Irèéne Andréani), già 
Parigi, collezione Eugenie Fould 


306 


Aggiunte per Clémence Roth 














Fig. 7: Clémence Roth, Studio di donna (Étude de femme), 1890 ca., Saint-Denis, Musée d’Art et d’Histoire 
Paul Eluard (crediti fotografici: Irène Andréani), già Parigi, collezione Eugenie Fould 


307 


Fabio Sottili 





Ò 





Fig. 8: Clémence Roth, Ritratto di Madame Emerique (Portrait de Madame Emerique), 1893, Saint-De- 
nis, Musée d’Art et d’Histoire Paul Eluard (crediti fotografici: Irene Andréani), già Parigi, collezione 
Eugenie Fould 


308 


Aggiunte per Clémence Roth 








Fig. 9: Clémence Roth, Studio di giovane donna di schiena (Étude de jeune fille de dos), Saint-Denis, Musée 
d’Art et d’Histoire Paul Eluard (crediti fotografici: Irène Andréani), già Parigi, collezione Eugenie Fould 


309 


Fabio Sottili 








Fig. 10: Clémence Roth, La biblioteca di Monsieur Alfred Pereire (Bibliothèque de Mr Alfred Pereire), 
Saint-Denis, Musée d’Art et d’Histoire Paul Eluard (crediti fotografici: Irèéne Andréani), già Parigi, 
collezione Eugenie Fould 


310 


Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 





LUCA MACCHI 


Giorgio De Chirico ricorda così nelle “Memorie della mia vita” la partenza 
da Firenze: “Si decise di partire per Parigi. Si liquidò la casa di Firenze e si prese il 
treno per Torino. Io mi sentivo molto male; era una torrida estate dell'anno 1911; 
era luglio; a Torino ci fermammo un paio di giorni per visitare l'esposizione che si era 
inaugurata allora (...) Si giunse a Parigi alla Gare de Lyon in piena notte”. Giorgio 
e la mamma Gemma arrivano nella capitale francese la sera del 14 luglio 1911. 
Ad attenderli c'è il fratello Alberto, come scrive “Mio fratello ci aspettava; dalla 
faccia che fece vedendomi capii che dovevo avere una gran brutta cera; ero sfinito dal- 
la stanchezza e non desideravo altro che coricarmi e riposare; era la notte del 14 luglio 
e Parigi era in festa; la gente ballava sui marciapiedi, davanti ai caffè ove organetti e 
orchestrine suonavano senza posa”. 

La decisione di trasferirsi a Parigi matura all’interno della famiglia e ha come 
unica finalità la ricerca di un ambiente culturale adatto per le inclinazioni ar- 
tistiche dei due fratelli. Andrea Alberto all’epoca è musicista e compositore e 
Giorgio pittore. Ha in progetto di tenere un concerto orchestrale al Teatro della 
Pergola a Firenze con “/a musica più profonda sinora scritta”, come recita il testo 
nella bozza del programma, esecuzione che sarebbe stata preceduta da una con- 
ferenza dell'autore. Nel programma del concerto della Pergola, previsto per il 9 
gennaio 1911 e poi non eseguito, figurano anche brani composti da Giorgio?. 
La bozza del programma di questo concerto non eseguito, serve a darci un'idea 
del lavoro svolto dai due fratelli De Chirico nello studio di Firenze. L'atelier fio- 
rentino dei due fratelli era un laboratorio dove portavano avanti le loro ricerche 
artistiche nelle varie discipline. Per ricostruire velocemente i vari passaggi diremo 
solo che Alberto, dopo un soggiorno a Milano dove aveva preso contatto con la 
casa editrice Ricordi e dopo î concerto programmato e non realizzato al Teatro 
della Pergola, decide di andare a Monaco. A Monaco organizza un concerto alla 
Tonhalle tenuto il 23 gennaio 19115. In seguito a questo concerto escono sulla 
stampa giudizi contrastanti per il giovane compositore. Anche Giorgio, come si 
comprende dalle lettere all'amico Fritz Garz, in un primo momento prende in 
considerazione di esporre alla Secessione di Monaco per poi rinunciarvi. Monaco 





! G. de Chirico, Memorie della mia vita, pag. 70, Ed Rizzoli, 1962. 

2 Nellabozza del programma per il concerto al Teatro della Pergola possiamo vedere che nei titoli 
dei brani composti da Giorgio de Chirico riecheggiano i titoli dei suoi quadri: // pomeriggio d'autunno, 
L'enigma dell'autunno, ecc. 

3... Gerd Roos, Giorgio de Chirico e Alberto Savinio — ricordi e documenti, Monaco Milano Fi- 
renze 1906-1911, Edizioni Bora, Bologna, 1999. 


311 


Luca Macchi 





era considerata una delle capitali europee delle arti e della cultura ed è qui che la 
famiglia De Chirico si reca dopo aver fatto ritorno in Italia alla morte del padre. 
Giorgio si iscrive all'Accademia di Monaco, dove fa la conoscenza di Fritz Garz, 
e Alberto prende lezioni di musica dal compositore Max Reger*. Il soggiorno a 
Monaco va dal febbraio 1907 a luglio 1908 per rientrare in Italia, prima a Milano 
e poi a Firenze. Per il concerto alla Tonhalle del gennaio 1911 Alberto è accom- 
pagnato dalla madre Gemma, così come racconta Giorgio nelle sue Memorie: 
“La musica fu eseguita nella stessa sala della Turkenstrasse ove, qualche anno prima, 
un pubblico in delirio aveva acclamato Mascagni. Mio fratello non fu acclamato da 
un pubblico in delirio, ma credo che il concerto non sia nemmeno stato quello che si 
chiama un fiasco. Però si sentiva che anche a Monaco c'era poco da fare. Io ero rima- 
sto a Firenze per via della mia salute; non mi sentivo la forza ST un viaggio così 
lungo e di andare fino a Monaco. Mia madre tornò a Firenze da sola, mi di che 
mio fratello era stato consigliato di andare a Parigi che allora, per via della cosiddetta 
‘rivoluzione artistica” cominciava ad essere considerata la città per eccellenza che 
accetta le idee nuove e incoraggia i giovani”. Parigi diventa adesso la loro mèta e 
Giorgio e la madre raggiungeranno Alberto a Parigi. 

È lo stesso Giorgio nelle Memorie ad indicarci quelli che sono stati i loro 
domicili parigini: “Si andò all'albergo Le Pelletier nella via dallo stesso nome ...”. 
“Dall'albergo Le Pelletier si passò ad una pensione vicino ai Campi Elisi e da quella 
poi in un piccolo appartamento che mia madre ammobiliò alla meno peggio e che 
si trovava in un immobile sito nel quartiere dell’Etoile e precisamente nella Rue de 
Chaillot (...)"®. L'indirizzo Rue de Chaillot, 43 è quello nei cataloghi delle mo- 
stre parigine. Altri indirizzi risultano dalle partecipazioni alle rassegne del Salon 
d’Automne e del Salon des Indépendents”. Mentre dal catalogo del 1913 appare 
l'indirizzo rue Mazarine, 43, poi quello al 115 di rue Notre-Dames-des-Champs 
dove tiene una mostra recensita da Apollinaire, e infine quello al 9 di rue Campa- 
gne Primiere, lo squallido atelier che cita nel suo famoso scritto Zeusi l'esploratore. 


Per tornare all'argomento del nostro studio e ai dipinti dove si trovano rife- 
rimenti all'ambiente fiorentino consideriamo quanto scrive nelle Memorie: “Era 
parecchio tempo che non toccavo più un pennello e nemmeno una matita. Mi rimisi 
al lavoro e ripresi il filo delle mie ispirazioni di origine nietzschiana”. Questo non 
può che voler dire che tornare a sintonizzarsi salle frequenze del primo quadro 
metafisico. 


“Però lavoravo poco, facevo pochi quadri. Passarono l'inverno e l'estate; sentivo 
parlare confusamente di Salon d'Automne, dei pittori rivoluzionari, di Picasso, del 





4 Gli spostamenti della famiglia De Chirico hanno il solo scopo di trovare un ambiente che offra 


possibilità culturali ai due fratelli. Giorgio tornerà di nuovo a Monaco dall'ottobre 1908 alla primavera 
1909. 

° Memorie, pag. 66. 

6 IDEM. 

7. Indirizzi citati anche da Maurizio Fagiolo nel suo “I/ tempo di Apollinaire — Parigi 1911/15”, 
edizioni De Luca, 1981 

8 Giorgio de Chirico, Zeusi l'esploratore, Valori Plastici, Roma, 1918. 

?G. de Chirico, Memorie della mia vita, pag. 70, Ed Rizzoli, 1962 


312 


Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 





cubismo, delle scuole moderne, ecc. Mi fu consigliato di esporre al Salon d'Automne; 

. °°. Gli venne consigliato di rivolgersi al pittore Laprade dal critico di origine 
greca Calvocoressi e secondo il consiglio di Laprade, mandò tre quadri non trop- 
po grandi: “Io mandai un mio autoritratto e due piccole composizioni, una ispirata 
dalla Piazza Santa Croce a Firenze e contenente quella poesia eccezionale che avevo 
d.. nei libri di Nietzsche, l'altra invece, che avevo intitolato “L'enigma dell'ora- 
colo”, che conteneva un lirismo da preistoria greca”. 


La prima rassegna alla quale partecipa è la 10 Exposition del Salon d’Automne 
del 1912 coni tre lavori come scrive nelle Memorie. Successivamente esporrà alla 
29.me Exposition della Société des Artistes Indépendants del 1913 e nello stesso 
anno ancora alla 11 Exposition del Salon d’Automne. Nel 1914 esporrà ancora 
30.me Exposition della Société des Artistes Indépendants. È molto interessante 
notare che nelle note biografiche all’interno dei cataloghi di queste rassegne Gior- 
gio De Chirico si dice “né 4 Florence”. Qui si può intendere nascita come nascita 
artistica con la rivelazione in Piazza Santa Croce che origina il primo quadro 
metafisico. Ma nascita per De Chirico voleva dire l'origine della famiglia e dove 
risiedevano molti Gel del padre Evaristo. 

La nostra indagine, come abbiamo già scritto, è rivolta a quei dipinti dove, a 
nostro avviso, si trovano “tracce” fiorentine o soluzioni che possono avere riferi- 
menti alla città di Firenze. Alcuni di questi sono insindacabili come il già citato 
testo dello stesso Giorgio de Chirico sulla nascita del primo quadro metafisico 
“L'enigma di un pomeriggio d'autunno” del quale abbiamo già detto nella prima 
parte di questo studio, altri sono dedotti da indicazioni e tracce lasciate dal Ma- 
estro. 

A Parigi, con il passare del tempo, l'eco delle suggestioni fiorentine si fa sem- 
pre più lontano. Se questo è stato necessario nelle prime composizioni parigine 
per rintrare nella giusta sintonia è anche vero che man mano a farsi più evidenti 
sono le suggestioni torinesi. 

Firenze è la città dove è residente e iscritta all'anagrafe la famiglia De Chirico 
e sarà la città che tornerà ad accoglierla al rientro in Italia nel Maggio del 1915 
richiamati alle armi per presentarsi al Distretto Militare del Regio Esercito Italia- 
no di Piazza Santo Spirito per essere destinati a Ferrara. 


L'enigma dell’ora, 1910 — 11 (Fig. 1) 

Uno dei quadri dipinti a Firenze che De Chirico porta con se a Parigi è “L'e- 
nigma dell'ora”. In questo dipinto vediamo la rappresentazione ul di un 
lo che mostra una serie di grandi archi a tutto sesto sopra ai quali corre una 
loggia. Al centro di questa veduta parziale di edificio troviamo, nella parte in 
alto, un orologio che segna un'ora dî rimo pomeriggio. L'ora segnata è in con- 
traddizione con l’ombra allungata RA personaggio vestito di bianco, più adatta 
alle ore del tardo pomeriggio. In basso in asse con l'orologio vediamo una vasca o 
fontana con accanto la figura di uomo vestito di bianco. La vasca è presente anche 
nell'altro dipinto / piaceri del poeta che realizzerà a Parigi. Un'altra figura appa- 





10 


Memorie, pag. 70. 


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Luca Macchi 





re sulla loggia in alto intenta a guardare verso l'orizzonte nascosto dall’edificio. 
Un'ultima figura, sembra di profilo, è presente accanto alla colonna nella parte 
destra. Il titolo del dipinto e ha presenza di un orologio pubblico sembrerebbero 
in relazione anche perché possiamo leggere molto ii l'ora segnata: le 
15 meno cinque minuti. Nelle monografie sul Maestro viene indicato l'Ospedale 
degli Innocenti di Filippo adi in piazza SS.ma Annunziata come il pro- 
abile edificio ad aver ispirato il dipinto così come appariva nei primi anni del 
Novecento con quella serie di aperture che concludevano la parte alta dell’edifi- 
cio, come mostra la foto, oggi non più esistenti. 

È comunque vero che a Firenze si trovano molte strade e piazze circondate da 
portici, così come molte logge coronano le parti alte di edifici, palazzi e chiostri. 
Altra architettura che viene menzionata come ispiratrice del dipinto è il Chiostro 
della chiesa del Carmine, oppure la loggia cieca presente sulla facciata della cap- 
pella Pazzi. 

Vorrei qui segnalare un edificio che, a mio modesto parere, sarebbe da prende- 
re in considerazione anche se di difficile riscontro per il dipinto L'enigma dell'ora: 
la Stazione Leopolda. La Leopolda era in quegli anni attiva e funzionante a Firen- 
ze ed è in quella stazione che è arrivata la famiglia De Chirico e da dove Giorgio 
a la madre Gemma sono partiti per Parigi. 


L'enigma dell’arrivo e del pomeriggio, 1911-12 (Fig. 7) 

È questo con tutta probabilità il primo dipinto che realizza a Parigi. Ha por- 
tato con se a Parigi alcuni dipinti tra i quali Goito “Ed quid amabo ...”; 
“Enigma di un pomeriggio d'autunno”; “L'enigma dell'oracolo”, e “L'enigma dell'o- 
ra”. Sono i quadri dipinti nello studio di Firenze e che esporrà ai Salon parigini. 
Scrive nelle memorie che da tempo non lavorava e quando ha ripreso a farlo è 
naturale che abbia cercato di recuperare il momento, le sensazioni e la luce stessa 
di quei lavori e in particolare del momento della rivelazione, di quel pomeriggio 
nella piazza Santa Croce. 

Anche nel titolo del suo nuovo lavoro mostra una continuità con i precedenti 
così L'enigma di un pomeriggio d'autunno diviene adesso L'enigma dell'arrivo e del 
pomeriggio del 1911-12. 

Dal titolo del dipinto L'enigma dell'arrivo e del pomeriggio possiamo pensare 
l’arrivo riferito al suo arrivo a Parigi e del pomeriggio è forse un riferimento allo 
stesso pomeriggio fiorentino. 

È come se De Chirico tornasse mentalmente a sedersi su quella panchina 
nella piazza Santa Croce di Firenze, vicino alla fontana che cita nello scritto!!. 
La posizione della panchina è frontale rispetto alla facciata della Basilica di Santa 
Croce. Da quella panchina di pietra vediamo la facciata della chiesa in tutta la sua 
imponenza, ma spostando un poco lo sguardo verso destra rispetto alla facciata 
della Basilica vediamo il muro che delimita il chiostro al di sopra del quale ve- 
diamo emergere un altro edificio molto importante: la Cappella Pazzi di Filippo 
Brunelleschi. La cupola della Cappella Pazzi, appare esternamente una struttura 


!! Vedi “Firenze nei dipinti di Giorgio de Chirico. Prima parte: i primi quadri metafisici, 1910- 


1912” in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti n. 81 del 2014. 


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Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 





cilindrica che si conclude con una elegante lanterna. Ecco che il dipinto L'Enigma 
dell'arrivo e del pomeriggio del 1911-12 ci si presenta come se fosse il fotogramma 
successivo a L'enigma di un pomeriggio d'autunno del 1910. Di quello stesso po- 
meriggio mette in evidenza adesso un’altra cosa che lo aveva colpito: la Cappella 
Pazzi. Come abbiamo già avuto modo di scrivere nella prima parte la cupola della 
Cappella Pazzi viene restituita in pittura attraverso le non-regole della visione 
metafisica: De Chirico la innalza, la modifica, la fonde con reminescenze e ricor- 
di. E quello che è già successo in altre importanti architetture. 


Melanconia I, 1912 (Fig. 10) 

Per i primi quadri che dipinge a Parigi continua ad attingere al serbatoio dei 
ricordi e delle emozioni fiorentine. Nel dipinto Me/anconia I del 1912 gli edifici 
hanno una forte somiglianza proprio con gli edifici della Piazza Cavour da lui 
definita “di grande bellezza metafisica”!?. De Chirico riprende a dipingere sul filo 
delle sue nostalgie fiorentine. Infatti come abbiamo già detto nella prima parte 
di questo studio la Piazza Cavour si trova nel tragitto che De Chirico era solito 
fare partendo dalla loro abitazione di Firenze in Via Lorenzo il Magnifico, 20 per 
recarsi allo studio che aveva affittato insieme al fratello in via Regina Vittoria, 3 
(oggi via Don Minzoni)! Il percorso passa da Piazza Cavour (oggi Piazza della 
Li). anzi potremo dire che era un po’ il punto di arrivo. Il civico 3 coincideva 
con una costruzione parte dello stesso isolato di cui fa parte uno dei palazzi che 
hanno i loggiati sulla Piazza della Libertà e che fanno angolo con la via Don Min- 
zoni (ex via Regina Vittoria). La numerazione inizia dalla piazza per cui possiamo 
indicare ni... civico 3 prossimo di via Don Minzoni con molta probabili- 
tà lo stesso edificio del 1910 e dunque in quello stabile individuare lo studio dei 
fratelli De Chirico a Firenze. Dove è nata la pittura Metafisica. 

Oltre alla preziosa testimonianza dello stesso De Chirico che racconta di come 
è nato il primo quadro metafisico nella Piazza Santa Croce a Firenze, esiste un 
altro scritto che sottolinea l’importanza della città toscana come luogo di nascita 
e sviluppo della pittura metafisica. Questo è il testo: “Je me trouve sur une place 
d'une grande beauté métaphysique; c'est la place Cavour à Florence ou peut-etre; aussi 
une de ces trés belles places de Forin. (...)” (Mi trovo in un luogo di grande bellezza 
metafisica; è la piazza Cavour a Firenze; 0 forse potrebbe essere anche una di quelle 
bellissime piazze di Torino.) 

In questo testo sottolinea l’importanza di Firenze come luogo d’origine della 
Pittura Metafisica citando un’altra piazza metafisica e menziona anche l’altra im- 
portante città per la Metafisica: Torino. 

AI centro del dipinto Melancolia I è inserita la scultura di Arianna, mentre 
due figure sono in lontananza e l’ombra di un terzo personaggio, nascosto dalla 
colonna, si profila sul piano orizzontale. La scultura è quella di Arianna dormiente 
o Arianna medicea, una copia romana di una scultura ellenistica risalente al III 
secolo a.C. Nel dipinto la statua di Arianna addormentata viene declinata in una 
posa pensosa, appunto malinconica, vicina all’Angelo della Melancolia di Durer. 


De Chirico, //M, pag. 259. 
13. Ged Roos, “Giorgio de Chirico e Alberto Savinio, ricordi e documenti” Edizioni Bora, 1999. 


315 


Luca Macchi 





Questa scultura potrebbe essere stata vista da De Chirico durante una sua visita 
a Roma del 1909, come scrive Riccardo Dottori!, ma forse più semplicemente 
potrebbe averla vista a Firenze. La statua di Arianna addormentata qualche anno 
fa era stata collocata nella Sala di Michelangelo alla Galleria degli Uffizi di Fi- 
renze, poi rimossa. Negli anni in cui De Chirico abitava a Firenze era esposta nel 
Museo Archeologico! che si trovava, come ancora oggi, nel Palazzo della Cro- 
cetta a pochi passi dalla piazza della SS.ma Annunziata. La scultura di Arianna 
nel dipinto Melanconia I è, oltre le architetture dei palazzi di Piazza Cavour (oggi 
della Libertà), ancora una testimonianza legata a Firenze. 


Malinconia di una bella giornata, 1913; Gioie ed enigmi di un'ora stra- 
na, 1913; La ricompensa dell’indovino, 1913 (fig. 14 e 15) 

La statua di Arianna addormentata è presente anche in altri lavori del periodo 
parigino come Malinconia di una bella giornata del 1913, dove la statua è ancora 
rappresentata in una piazza deserta con portici. È importante notare che in que- 
sto dipinto De Chirico non ne modifica la posa, come nel precedente Melancolia, 
ma rappresenta la scultura di Arianna nel suo effettivo aspetto. 

Altro dipinto con la Arianna rappresentata senza modifiche è Gioie ed enigmi 
di un'ora strana, sempre del 1913, ancora figure solitarie che proiettano le loro 
ombre negli spazi della piazza, un treno sbuffante al di la del muro mentre in 
primo piano è collocata la grande statua di Arianna. 

La statua di Arianna dipinta nella sua posa e con i suoi panneggi, potremo dire 
“al vero” e inserita in composizioni metafisiche dove tutto è modificato potrebbe 
quasi sembrare una contraddizione o anche citazione nostalgica. Possiamo dire 
che la statua di “Arianna” diviene un simbolo da ripetere e dunque da rendere 
proprio. De Chirico sente la necessità di intervenire, oltre che sull'aspetto degli 
edifici, anche sull’aspetto della scultura per togliergli l'aspetto di “citazione” e la 
affronta anche dal punto di vista plastico creando un modellino in gesso che è 
una sua interpretazione. Arianna addormentata diventa la sua Arianna che può 
modificare a piacimento inserendola in molti dipinti del periodo parigino. 

D'altronde De Chirico riferisce in un testo del 1921 che nel bell’atelier di 
Firenze i due fratelli lavoravano dipingevano, disegnavano, componevano musica 
e scolpivano: “Disegnavo molto, dipingevo e scolpivo qualche volta”. Anche Savinio 





4 R. Dottori, Giorgio de Chirico - Immagini metafisiche, La Nave di Teseo, Milano 2018. 

5 Per una breve storia della scultura Arianna addormentata: giunge a Firenze nel 1787, quando fu- 
rono rimossi tutti i marmi che ancora si trovavano a Villa Medici a Roma. Nel 1790 la statua, considerata 
una delle più belle della collezione granducale, fece il suo ingresso alla Galleria degli Uffizi dove fu siste- 
mata nell’attuale sala 41, all’epoca detta dell’Ermafrodito per la presenza in questo luogo anche di quella 
celebre scultura. L Arianna dormiente, ritenuta come la migliore delle tre repliche sopravvissute sino a noi 
di un perduto originale pergameneo della fine del III secolo a.C., iniziò un lungo pellegrinaggio che dagli 
Uffizi la condusse alla villa di Poggio Imperiale, poi a Palazzo Pitti infine, al Museo Archeologico dove, 
nel 1883, trovò una sistemazione, creduta definitiva, nel Salone del Nicchio di Palazzo della Crocetta. In 
seguito all’alluvione del 1966 ci fu un ripensamento del percorso espositivo di quel museo che comportò 
la rimozione della statua che venne, relegata nei depositi di Villa Corsini a Castello, infine la collocazione 
nel nuovo allestimento della sala 56 degli Uffizi. Successivamente rimossa anche dalla sala 56. 


316 


Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 





scrive ‘passava giornate e notti intere a studiare (...) disegnando e persino plasmando 
con la creta figure e composizioni.” 

La statua della Arianna “fiorentina” o il ricordo di essa continua ad essere in- 
serito da De Chirico nelle varie composizioni metafisiche dipinte a Parigi come 
eco di quelle composizioni nate a Firenze. Questi echi fiorentini sono destinati a 
farsi sempre più lontani per lasciare spazio alle suggestioni torinesi. 


I piaceri del poeta, 1912-13 (fig. 17) 

Nel dipinto / piaceri del poeta del 1912 vediamo una piazza con una fontana 
al centro della composizione e due edifici, una facciata frontale con al centro un 
orologio e un loggiato laterale. La fontana e l'orologio li abbiamo già incontrati 
nel dipinto L'enigma dell'ora del 1910-11. 

Il bagaglio che De Chirico porta a Parigi non è fatto soltanto dei quadri rea- 
lizzati a Firenze, ma di Firenze si porta dietro un'intuizione, una misura di piazze 
con loggiati, di logge dagli intervalli musicali, o meglio come lui scrive una rive- 
lazione che, per sua stessa testimonianza, nasce nella piazza Santa Croce che si è 
alimentata attraverso la visione di affreschi, architetture, da spazi aperti e anche 
da letteratura “fiorentina”. Nel dipinto / piaceri del poeta del 1912 l’edificio che 
ci appare frontale mostra una somiglianza con la facciata della villa di Poggio 
Imperiale a Firenze, inoltre la vasca con fontana rimanda al racconto di Giovanni 


Papini “Due immagini in una vasca” .° 


!6 Maurizio Calvesi, La Metafisica schiarita, Feltrinelli, Milano 1982. 
Nel 1906 Giovanni Papini pubblica “// tragico quotidiano”, una raccolta di favole filosofiche. 


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Luca Macchi 








Fig. 2: Filippo Brunelleschi, Ospedale degli Innocenti, piazza SS.ma Annunziata, Firenze. 


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Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 








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Fig. 3: Firenze, particolare esterno della Stazione Leopolda oggi. 


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Fig. 4: Chiostro della Chiesa del Carmine, Firenze. 


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Luca Macchi 





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Fig. 5: La stazione Leopolda di Firenze nel XIX sec. Notare gli archi a tutto sesto della parte centrale 
della facciata. 





Fig.6: Chiostro della Basilica di Santa Croce, Firenze, Cappella Pazzi. 


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Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 








È 7: L'enigma dell'arrivo e del pomeriggio, 1912 


icazione ignota. 


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Luca Macchi 








Fig. 8: Particolare dell’edificio oltre il muro 


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Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 








Fig. 9: La cupola della Cappella Pazzi oltre il muro del chiostro 


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Fig. 10: Melanconia, 1912. Olio su tela, cm. 79x63,5. Collezione privata, Londra 


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Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 








Figg. 11 e 12: Edifici di Piazza della Libertà a Firenze 


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Luca Macchi 





















































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Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 





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Fig. 13: Arianna medicea, marmo, III secolo a. C. 


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Luca Macchi 








Fig. 15: La ricompensa dell’indovino, 1913. The Philadephia Museum of Art, Philadelphia 


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Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 








Fig. 16: Giorgio de Chirico, Arianna 1912, gesso 


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Luca Macchi 








Fig. 17: 1912-13. I piaceri del poeta, Olio su tela, cm. 69,5x86,5. U.S.A collezione privata 


330 


Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (seconda parte) 
Gli anni a Parigi (Luglio 1911 — Maggio 1915) 





dn 4 





Fig. 18: La villa di Poggio Imperiale a Firenze in una foto dei primi del Novecento 


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“Il mobile e la sua costruzione” di Giuseppe Giorgio Gori 
Appunti per le lezioni del corso universitario tenuto 


nell’A.A. 1940-41 





CLAUDIA MASSI 


Le prime fasi del percorso artistico professionale di Giuseppe Giorgio Gori 
sono segnate da una particolare attenzione alla progettazione e alla realizzazio- 
ne del mobilio. E ciò è da mettere in relazione con l’attività, da lui seguita fin 
dall'infanzia, svolta in famiglia dal padre ebanista e dal nonno falegname!. Il 
padre Gregorio, formatosi a Firenze nella Scuola delle Arti Decorative Industria- 
li, lavora prima presso i Coppedè e poi nella capitale francese in un atelier di 
arredamento. Trasferitosi nuovamente a Firenze, colloca la sua ditta artigiana in 
via Cavour e successivamente in via della Dogana, dove dà vita a un laboratorio 
di mobili che nel 1938 assume la denominazione «Prof. Gregorio Gori - L'Am- 
biente Moderno Italiano Arredamenti Completi»?. 

Per questa attività professionale Giuseppe Giorgio non perderà mai il suo 
interesse”. La sua passione per le arti decorative e per l’arredamento lo porta 
a partecipare a numerosi concorsi per la progettazione di arredi e a realizzarne 
diversi per edifici pubblici e privati. Uno dei primi importanti incarichi ricevuti, 
per fare un esempio, riguarda la progettazione nel 1937-39 degli elementi di 
arredo (fig.2), realizzati insieme all’architetto Guglielmo Ulrich*, per il Palazzo 
degli Uffici dell’EUR 42, opera di Gaetano Minnucci?. 

Dal 1935 al 1940 e dopo l’interruzione bellica dal 1947 al 1948 è presente 
con sue opere alla Mostra Nazionale dell'Artigianato di Firenze, dove si aggiudi- 
ca anche quattro primi premi (1938, fig. 1, 1940-1947-1948), un secondo pre- 
mio (1937) e un terzo premio (1936)°. Dal 1947 al 1953 è l’architetto ufficiale 
dell'Ente Mostra Mercato Internazionale dell’artigianato di Firenze”, e pertanto, 
con la collaborazione di giovani architetti e altri professionisti*, allestisce sei 





1 


Per approfondire le figure del padre e del nonno di Giuseppe Giorgio Gori si vedano il saggio 
di Carapelli, Cozzi 2020, 77-78 e la scheda in Liscia Bemporad 1999, 86. 

Carapelli, Cozzi 2020, 78, Liscia Bemporad 1999, 63. 

Massi 2014, 291-292. 

Scacchetti, 2009. 

Moschini, Cassio 1996. 

BTS, Fondo Gori, serie 2, sottoserie 2.1, n. 31. 

Si vedano le schede sugli allestimenti di Gori per la Mostra Mercato dell'Artigianato di Firenze. 
In: Fabbrizzi 2016. 

8 Nel 1948, collabora con Enzo Gori, Leonardo Ricci e Leonardo Savioli; nel 1949, con Leonardo Sa- 
violi; nel 1950, con Enzo Gori e Emilio Brizzi; nel 1951, con Enzo Gori; nel 1952, con Enzo Gori ed Ernesto 
Nelli. In: Carapelli 2010, 287-288. Un altro collaboratore di Giuseppe Giorgio Gori, per gli allestimenti di 
esposizioni a Firenze e a Bari, fu l’artigiano pesciatino Francesco Checchi. In: Massi 2020, 70. 


A vd WON 


7 


333 


Claudia Massi 





mostre”. 

Gori, laureatosi presso l’Istituto Superiore di Architettura di Firenze, ave- 
va iniziato il suo tirocinio nello studio di Giovanni Michelucci, con il quale 
avrebbe collaborato come assistente volontario per il corso di “Architettura degli 
interni, arredamento e decorazione”, tenuto nello stesso ateneo. In ambito di 
questo insegnamento, nell’anno 1940-41 aveva svolto le sue lezioni su “Il mo- 
bile e la sua costruzione”!°. Alla didattica relativa allo stesso tema si dedicherà 
anche negli anni Sessanta!. 

La realizzazione di manufatti per l'arredo di interni è quindi per Gori un’at- 
tività non secondaria'?. E per meglio comprendere il suo approccio al tema e le 
idee che sostenevano il suo lavoro, sembra particolarmente utile analizzare le 
dispense preparate da Gori per l'Anno Accademico 1940-41, in quanto nella 
redazione degli appunti, molti sono i richiami alla sua esperienza e alle pratiche 
costruttive apprese nel laboratorio paterno!. 

Analizzando il testo destinato agli studenti, si comprende chiaramente che 
Gori, dopo aver esplicitato concetti di metodo intorno al rapporto tra il mobile 
e l’ambiente che lo accoglie, sembra particolarmente interessato a esporre in 
modo dettagliato i principi di tecnologia legati alla costruzione del mobile stes- 
so. Significativa è l’attenzione alle soluzioni adottate negli atelier, difficilmente 
rintracciabili sulla manualistica. 

Gori intende trasmettere agli allievi conoscenze sull’aspetto stilistico, stori- 
co, estetico, funzionale e costruttivo del mobile. Molti capitoli sono dedicati 
alla comprensione delle caratteristiche del legname. Altri temi analizzati det- 
tagliatamente riguardano le dimensioni, le congiunture e le cerniere. Utilizza 
sempre gli schizzi e i disegni corredati da didascalie sintetiche che ben mettono 
in evidenza il concetto che vuole esprimere in modo semplice e immediato. La 
chiarezza nell'esposizione è sempre stata una delle priorità seguite dal professore, 
impiegando talvolta mezzi inconsueti, come nel caso del film girato sul cantiere 
durante la realizzazione del mercato dei fiori di Pescia. E la volontà di comuni- 
care con precisione le sue idee si rivela anche quando si rivolge ai collaboratori 
per la progettazione degli edifici. Lo stesso criterio di operare lo utilizza nella 
sua professione di architetto: sintetici disegni accompagnano le relazioni degli 
elaborati progettuali. 

Già nella premessa alle sue lezioni del corso si trova scritto quanto l’arre- 





°.. Sempre per il solito ente nel 1950 e nel 1951 allestisce il padiglione dell'artigianato italiano e 


quello straniero a Bari, e sempre nel 1951 a Milano, cura la sala dell'Ente Mostra Mercato Internazio- 
nale dell'Artigianato alla Mostra selettiva dell’Angelicum. Nel 1952 allestisce sia a Trieste, il padiglione 
dell'artigianato italiano, sia a Bari, il padiglione dell’artigianato italiano e il padiglione dell’..N.A. In: 
BTS, Fondo Gori, serie 2, sottoserie 2.1, n. 31. 

10 BTS, Fondo Gori, serie 2, sottoserie 2.1, n. 1 e si trova anche in serie 4, sottoserie 4.2, n. 7. 
L’anno successivo svolse le lezioni del corso sul tema “Della misura degli ambienti”, BTS, Fondo Gori, 
serie 2, sottoserie 2.1, n. 2 e si trova anche in serie 4, sottoserie 4.2, n. 8. 

!!G.G. Gori, // mobile nell'antichità, appunti delle lezioni, 1961, in BIS, Fondo Gori, serie 4, 
sottoserie 4.2, n. 10. 

1° Carapelli, Cozzi 2016 e 2020. 

13. Fra le opere a carattere generale sul mobile italiano del periodo cfr. de Guttry, Maino, 2010. 


334 


“Il mobile e la sua costruzione” di Giuseppe Giorgio Gori 
Appunti per le lezioni del corso universitario tenuto nell'AA. 1940-41 





damento debba essere in rapporto diretto continuo e armonioso con lo spazio 
di chi lo abita. «Dell'arredamento fa parte il mobile propriamente detto e le 
suppellettili come le stoffe, i tappeti, le pitture e le sculture, i soprammobili, gli 
apparecchi di illuminazione e insomma tutti gli elementi mobili i quali servono 
ad armonizzare la vita dell’uomo nell'ambiente architettonico e a soddisfare i 
suoi particolari bisogni spirituali e materiali, dal lavoro agli affetti, dal riposo 
allo svago»!“. 

Il disegno e la costruzione di un mobile non possono ignorare le caratteri- 
stiche dei materiali utilizzabili. Il legno presuppone la realizzazione di un telaio 
ed elementi collegati e incastrati, mentre il metallo permette la costruzione di 
manufatti con grandi luci tra un sostegno e l’altro, con piccoli spessori e con 
andamenti curvilinei. 

La struttura portante del mobile detta telaio è di massello che può essere mo- 
dellato; con il compensato invece sono realizzate le parti mobili di minore spes- 
sore (figg. 3-4-5). I legnami a struttura fibrosa tipo il rovere o il castagno non 
sono sagomabili, mentre il mogano o il palissandro hanno una certa plasticità. 

Non mancano nelle dispense i riferimenti storici. Il cedro e l’ebano di impor- 
tazione dal Sudan e dall’Etiopia era utilizzato dagli egiziani. I greci, gli etruschi 
e i romani avevano il loro legname locale: abete, quercia, tiglio, acero, faggio 
e cipresso, mentre importavano dall’Asia e dall'Africa, l’ebano e il cedro per i 
manufatti di pregio. Nel Medioevo erano utilizzati gli stessi legni locali. Nel 
Rinascimento si impiegava principalmente il noce. Nel Seicento francese veniva 
adoperato l’ebano mentre in quello inglese soprattutto la quercia. Negli imperi 
coloniali inglesi e francesi, del Sette e Ottocento, si adottavano quasi unicamen- 
te il mogano e il palissandro. In Italia nello stesso periodo veniva utilizzato prin- 
cipalmente il noce mentre il cirmolo e il tiglio, per la loro duttilità nell’intaglio 
e per la centinatura, erano più adatti ai mobili laccati e dorati. 

Dei vari legnami, quali l’abete, l’acero, il castagno, il ciliegio, l’ebano, il fag- 
gio, il frassino, il mogano, il noce, l’okoumé, l’olivo, l’olmo, l’ontano, il palis- 
sandro, il pero, il pino, il pioppo, la quercia e il tiglio, Gori passa in rassegna 
le rispettive caratteristiche fino a definirne le pratiche per la stagionatura e la 
finitura. A quest'ultimo proposito si sofferma sulla coloritura, indispensabile per 
uniformare e rinforzare il colore naturale del legno, ottenuta attraverso colori in 
polvere (mordenti) disciolti in acqua. «Si ottiene una bella coloritura omogenea 
che non macchia col trattamento delle vernici a spirito. Altro sistema, più adatto 
per ritocco o per rinforzo di colore su superfici già lucidate, quello delle aniline 
sciolte in gomma lacca; ma macchiano facilmente»! La levigatura a olio, già 
praticata fin dall’antichità, consiste nell’applicare olio di lino cotto su una su- 
perficie già levigata che verrà nuovamente piallata dopo una settimana di riposo. 
In questo modo il legno acquisisce tonalità e venature marcate. Due sono le 
soluzioni tecniche per la lucidatura: con cera d’api disciolta nella trementina op- 
pure «con gomma lacca sciolta in spirito e stesa sul legno con tamponi in diversi 


14 BTS, Fondo Gori, serie 2, sottoserie 2.1, n. 1, 1. 
5 Ivi, 38. 


335 


Claudia Massi 





strati, trasparenti. Si ottiene un lucido brillante e notevolmente resistente»!°. 

Riguardo alla verniciatura, nel caso di mobili soggetti a lavaggio, si utilizza 
quella a corpo che consiste nello stuccare il legname con olio di lino e creta o 
gesso e colla «poi si ammannisce con un primo strato di olio di lino e biacca; 
si lascia seccare; si leviga e poi passano varie successive mani di vernice a olio, 
o di vernice opaca (cementite), o a nitrocellulosa a spruzzo del colore che si 
vuole. Con questo trattamento si isola completamente il legno»!7. L'altra forma 
di verniciatura è la laccatura, usata soprattutto nel Settecento dai cinesi e dai 
veneziani. «Si stucca il legno e si leviga. Poi si colora o decora a tempera; sopra 
si stendono numerosi strati di lacca (vernice a spirito) che debbono successiva- 
mente essiccare ed essere levigati»!5. 

Attraverso nozioni storiche riferite alle diverse civiltà, Gori focalizza la sua 
attenzione sulle soluzioni tecniche di volta in volta adottate a seconda degli stili. 
Partendo dalla costruzione del mobile presso gli egiziani sottolinea l’impiego del 
legno di massello con incastri “a tenone e cavicchi”, spesso rinforzati da legature 
di fibre vegetali. Il sistema costruttivo viene lasciato in evidenza senza nascon- 
derlo, sovrapponendovi elementi decorativi (figg. 6-7-8-9). Gori puntualizza 
che sono pregevoli «gli incastri sfalsati, le impagliature, i giunti a I\2 legno, i 
sedili a tamburo, pieghevoli o a traliccio, i rinforzi angolari agli incastri»!°. Ana- 
logo processo costruttivo viene adottato dai greci e dai romani (fig. 10). Questi 
ultimi, sottolinea Gori, usano il bronzo per realizzare letti, tavoli, tripodi etc., 
«con elementi torniti e congiunti a pernio ed elementi trasversali congiunti a 
forcella (tenone e mortasa)», mentre con il legno massello, tanto per l’intelaia- 
tura quanto per i pannelli, fabbricano i mobili, dotati di ingegnose cerniere in 
osso con pernio in bronzo (figg. 11-12-13). 

Dal Trecento al Cinquecento la lavorazione del legno passa dal singolo ar- 
tigiano alle organizzate corporazioni dei mestieri, tantoché il mobile, per i co- 
sti più contenuti, si diffonde anche nelle classi meno abbienti. Nel Trecento si 
utilizzano per i cassettoni rinforzi a legame angolare di ferro battuto, per cui il 
sistema costruttivo viene, per la prima volta, nascosto mediante una copertura 
rappresentata da partiti decorativi (fig. 15). Nel Quattro-Cinquecento, usando 
sempre l’intelaiatura a pannelli di massello, con “incastro a forcella”, “incastro a 
ugnatura”, etc., vengono maggiormente sviluppati i motivi decorativi secondo 
una tecnica più avanzata (figg. 14 e 16-17-18). Nel Sei-Settecento si afferma- 
no grandi artigiani, come Pietro Piffetti, Giuseppe Maggiolini, Andrè-Charles 
Boulle, Thomas Chippendale, che con la loro arte danno vita a nuovi stili?°. In 
questo periodo la struttura è realizzata con una «ossatura di massello rivestita da 
un tranciato di essenze pregiate disposte a disegno» (fig. 19)?!. Nell'Ottocento 
nasce l'industria per la produzione in serie dell'arredamento, appannaggio di 





16 Ibidem. 
7 Ivi, 39. 
8 Ibidem. 
19 Ivi, 56. 


20. Per approfondire il tema si vedano: Marangoni, 1952, 237-267; De Fusco, 2004, 143-158. 
2! BITS, Fondo Gori, serie 2, sottoserie 2.1, n. 1, 57. 


336 


“Il mobile e la sua costruzione” di Giuseppe Giorgio Gori 
Appunti per le lezioni del corso universitario tenuto nell'AA. 1940-41 





tutte le classi sociali. In Italia, l'artigianato, a cui danno il loro contributo artisti 
e decoratori, offre come prodotto l'esemplare unico, che si diffonde largamente 
e assume lo status di uno stile vero e proprio. 

Particolare attenzione Gori la dedica alla costruzione del mobile moderno, 
costituito in genere, da parti di legno massello, suscettibile di essere modellato, 
a differenza dell’utilizzo dei piani di compensato che consentono invece l’im- 
piego di grandi superfici senza intelaiature portanti a vista. Passando in rassegna 
cinque tipologie, il docente espone le diverse caratteristiche costruttive. L'arma- 
dio è formato dalla base, dal cappello, dalle fiancate, dal dietro e dagli sportelli 
(fig. 21). «Di regola queste parti, in armadi che non siano molto piccoli sono 
smontabili — costruzione a piani compensati. Il letto. Si monta nella spalliera 
anteriore e posteriore e nelle due fasce laterali collegati con appositi ferri a letto 
a uncino. Costruzione a massello (fig. 24). Il comodino. Gli elementi sono, in 
piccolo quelli dell’armadio però collegati in maniera fissa. Costruzione a piani 
compensato (Fig. 23). Il tavolo. È formato dalle gambe, dalle fasce, e dal piano, 
quest'ultimo costruito a piano compensato, il resto a massello. La sedia. E il 
mobile più difficile perché oltre bello e comodo deve essere robusto e leggero. 
Può essere con telaio sezionato e incastrato sulle gambe o con telaio intero e 
gambe infilate (fig. 22). La spalliera può essere a stretta o infilata (fig. 20). La 
costruzione è a massello»?? 

AI profilo della poltrona e alla sua imbottitura Gori dedica un capitolo a par- 
te, proprio perché deve assicurare all’utente una posizione che, dopo quella oriz- 
zontale, rimane la più comoda, in quanto tutti i muscoli tendono a rilassarsi. «Il 
profilo di una poltrona per avere la maggiore comodità deve lasciare il minimo 
vuoto fra il corpo umano e la superficie del sedile, in modo da raggiungere fra 
corpo e imbottitura una specie di solidarietà (...). E evidente, ad esempio, che 
abbassando l’altezza dello schienale, e limitando alle sole spalle, la testa rimane 
senza sostegno e i muscoli del collo entrano in azione. E così può dirsi della 
schiena, dei bracci, ecc.»??. Per quanto riguarda l’imbottitura, il professore fa 
una rassegna di disegni elencando, con le didascalie, quella rigida incassata fissa 
oppure rigida incassata a telaio mobile, semirigida, molleggiata e molleggiata 
con cuscino. 

Ritornando alle indicazioni generali dettate da Gori, intese come una dichia- 
razione della sua poetica, egli afferma con convinzione un concetto: come per la 
progettazione di un edificio ci si deve immaginare il fronte strada che lo acco- 
glie, anche per quella del mobile si deve pensare a questo elemento equilibrato 
nel suo ambiente, talvolta subordinato ad esso, nel significato di complemento 
decorativo, talaltra preponderante come ruolo, divenendo una architettura, si 
pensi al coro delle absidi o agli scaffali a muro delle biblioteche storiche. 

AI di fuori di un arredamento che è per antonomasia architettura, quindi 
inamovibile, un mobile se è ben riuscito, con una propria personalità, com- 
piutezza e unità stilistica, può essere tranquillamente spostato: ad esempio uno 
scrigno o un divano settecentesco possono trovare comunque la loro armonia in 


2 Ivi, 105. 
23 Ivi, 112. 


337 


Claudia Massi 





un ambiente diverso, per stile e volume, da quello per cui erano stati progettati. 
Ed essi all’interno della casa non perdono la loro funzione specifica. 

L'arredamento moderno, secondo Gori, porta molte volte alla spersonalizza- 
zione del mobile, in quanto esso deve sottostare a un problema di spazi minimi, 
per cui un letto si può trasformare in sedile o un armadio può assumere la fun- 
zione di tavolo, e in questo modo perde la sua unità stilistica. 

Come buona regola, si deve sempre ben valutare il rapporto tra la dimensio- 
ne e l'ingombro del mobile rispetto allo spazio che lo dovrà accoglie. E l’unico 
modo per creare un'armonia e un rispetto tra i volumi nonché tra luci e ombre. 
A questo proposito Gori sottolinea quanto sia scorretto «raggruppare i mobili o 
stenderli negli angoli sotto le finestre»?* per adattarli ai piccoli spazi disponibili: 
ciò serve soltanto a frazionare malamente i volumi. «Si pensi a quel confuso 
accavallarsi di legno, di stoffe, di libri, cuscini, tendaggi, quadri e soprammobili 
che determinano quei piccoli vani e cantucci di sapore borghese, comodi fin 
che si vuole ma così poco rispettosi della dignità e della bellezza dell'ambiente, 
quanto del decoro dell’abitante»??. 

Per attenersi a queste linee progettuali e alla pratica della cura del dettaglio, 
Gori fa riferimento a una serie di maestranze artigianali di grande professionali- 
tà a cui si rivolge per la realizzazione degli spazi interni di un lic E queste 
personalità vanno quasi a sostituire quello che una volta era la “bottega”. 

A titolo di esempio piace riportare alcune notizie su lavori di edilizia privata 
condotti da Gori a Pescia contemporaneamente alla costruzione del mercato 
dei fiori° in quanto l’architetto si dedica per questi due lavori all'arredamento 
completo degli ambienti. Giuseppe Giorgio, insieme a Enzo Gori, progetta nel 
1951 un'abitazione per floricoltore, con annessi magazzino e uffici, a poche de- 
cine di metri dal mercato dei fiori, mentre nel 1962 firma il progetto di amplia- 
mento «per una casa di civile abitazione da eseguire in Pescia»?” per il figlio del 
floricoltore. All’interno dei due edifici, ancora oggi è possibile ritrovare la stessa 
pavimentazione originale. In quello del 1951 le scale sono di marmo di Carra- 
ra, mentre nelle stanze è visibile una pavimentazione di pezzatura irregolare di 
vari marmi; ogni locale si distingue per la diversa colorazione del calcestruzzo 
di riempimento delle fughe. In quello del 1962 la scala è di pietra di Trani 
lucidata, con un corrimano di legno massello color naturale con ringhiera di 
elementi verticali stilizzati in metallo nero (fig. 25); le camere da letto accolgono 
un parquet che differisce per il disegno di messa in opera. In entrambi gli ap- 
partamenti, Gori aveva previsto l’inserimento di mobili, librerie, armadi a muro 
simili agli infissi (fig. 26), progettati da lui stesso. Negli spazi di questi ambienti 
i manufatti si inseriscono perfettamente e integralmente. Ognuno di essi è nato 
per una funzione in un determinato punto della casa ed è in rapporto continuo 
con l’architettura che lo accoglie, diventando un elemento inscindibile, per cui 
il tutto diviene una opera unica. 





% BTS, Fondo Gori, serie 2, sottoserie 2.1, n. 1, 10. 
25 Ibidem. 

26 Massi 2001 e 2017. 

27 Massi 2020, p. 66. 


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“Il mobile e la sua costruzione” di Giuseppe Giorgio Gori 
Appunti per le lezioni del corso universitario tenuto nell'AA. 1940-41 





Ancora a Pescia, legato alla poetica di Gori, viene sviluppato un progetto fir- 
mato da due suoi stretti collaboratori, Dante Nannoni e Sergio Baroncioni, per 
rinnovare totalmente il negozio di porcellane e casalinghi della ditta Barsanti, 
collocato in centro. L'arredamento ben documentato da un album fotografico 
dello studio Gameliel di Firenze, realizzato nel 1961 all’epoca dell’inaugurazio- 
ne, richiama chiaramente lo stile di Gori (figg. 27-28-29). Utilizzando materiali 
moderni come luci a neon, vetrine espositive, mobili su misura, vetro, ferro e 
legno sapientemente assemblati, si riesce a dar vita a un insieme di elementi 
che diventano una unità, connotata da linee rette e curvilinee, spesso in lunghe 
fughe prospettiche tali da rendere un’amplificazione virtuale dell'ambiente ar- 
redato. 

Con questo esempio si potrebbe fare una considerazione: le idee progettuali 
di Giuseppe Giorgio Gori si concretizzano anche nelle opere degli allievi e dei 
collaboratori, quasi come se egli avesse dato vita a una “bottega” d’altri tempi 
destinata alle esigenze della contemporaneità. 


339 


Claudia Massi 





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340 


“Il mobile e la sua costruzione” di Giuseppe Giorgio Gori 
Appunti per le lezioni del corso universitario tenuto nell’A.A. 1940-41 








Fig. 1: G.G. Gori, Concorso nazionale d’arredamento, primo premio, 1938 (BTS, Fondo 
Gori, s. 2.1, n. 31) 


Fig. 2: G.G. Gori, Scrivanie del personale dipendente, Palazzo Uffici, 1939, EUR 42 - Roma 





341 


Claudia Massi 





ISTRUZIONE DI UN MosiLe Moperno | Figg. 3-4-5: G.G. Gori, “Il mobile e la sua costru- 
Me zione”. Costruzione di un mobile moderno, pp. 26-28 
(BTS, Fondo Gori, s. 2.1, n. 1) 









Sportello in eriatallo sli oicurmma giunote 
DUE CAnvearia da Quae i MEMmUma misenrita” 







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342 


“Il mobile e la sua costruzione” di Giuseppe Giorgio Gori 
Appunti per le lezioni del corso universitario tenuto nell'AA. 1940-41 





Fig. 6: G.G. Gori, “Il mobile e la sua 
costruzione”. Egitto. Schema costruttivo 
di trono, p. 62 (BTS, Fondo Gori, s. 
21, n. D 

Fig. 7: Egitto. Sgabello pieghevole, p. 60 
Fig. 8: Egitto. Sgabello a traliccio, p. 61 
Fig. 9: Egitto. Sedia con sedile impagliato. 
Per evitare l'indebolimento della gamba gli 
incastri sono alternati, p. 58 













343 


Claudia Massi 








344 


Fig. 10: G.G. Gori, “Il mobile e 
la sua costruzione”. Grecia, p. 63 
(BTS, Fondo Gori, s. 2.1, n. 1) 


Fig. 11: Roma. Letto in bronzo con 
elementi torniti e congiunti a pernio ed 
elementi trasversali congiunti a forcella 
(tenone e mortesa), p. 64 


Fig. 12: Roma. Costruzione a intela- 
iatura e pannelli p. 65 


Fig. 13: Roma. Pernio in bronzo. 
Cerniera in osso, p. 65 





“Il mobile e la sua costruzione” di Giuseppe Giorgio Gori 
Appunti per le lezioni del corso universitario tenuto nell'AA. 1940-41 





Fig. 14: G.G. Gori, “Il mobile e la sua costruzio- 
ne”. Quattro-Cinquecento, p. 67 (BTS, Fondo Gori, 
s.2.1, n.1) 

Fig. 15: Trecento, p. 66 

Fig. 16: Cinquecento. Tavolo a lira, p. 68 








Claudia Massi 








Fig. 17: G.G. Gori, “Il mobile e la sua costruzione”. Cinquecento. Sportello intelaiato a ugnatura. 
Il cassatto, p. 69 (BTS, Fondo Gori, s. 2.1, n. 1) 


Fig. 18: Cinquecento. Cerniera di ferro a occhiello. Base con cornici collegate a tenone, p. 69 
Fig. 19: Settecento. Pianta e sezione di un cassettone, p. 70 





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346 


“Il mobile e la sua costruzione” di Giuseppe Giorgio Gori 
Appunti per le lezioni del corso universitario tenuto nell’A.A. 1940-41 





Fig. 20: G.G. Gori, “Il mobile e la sua costruzione”. 
Costruzione della sedia. Spalliera infilabile, p. 110 (BIS, 
Fondo Gori, s. 2.1, n. 1) 


Fig. 21: Costruzione dei mobili. Armadio, p. 106 


Fig. 22: Costruzione della sedia: a telaio intero e gambe inft- 
late, p. 109 


Fig. 23: Costruzione dei mobili. Comodino, p. 107 
Fig. 24: Costruzione dei mobili. Letto, p. 107 












347 


Claudia Massi 








Fig. 26: G.G. Gori, Casa 
Solmi, armadio a muro 
simile alla porta, Pescia, 
2018 


348 


Fig. 25: G.G. 
Gori, Casa Solmi, 
corrimano di legno 


massello, Pescia, 
2018 





“Il mobile e la sua costruzione” di Giuseppe Giorgio Gori 
Appunti per le lezioni del corso universitario tenuto nell'AA. 1940-41 











Figg. 27-28-29: D. Nannoni, S. Baroncioni, interno negozio Barsanti (foto-ottica Gameliel, 
Firenze), Pescia, 1961 (coll. famiglia Barsanti) 





349 


La costruzione e decorazione della cappella del 
Sacramento in San Marco a Firenze e i suoi committenti 





GIOIA ROMAGNOLI 


La cappella del Sacramento in San Marco si deve a tre committenti, Francesco 
Franceschi, Giuliano Serragli e l'omonimo figlio di quest'ultimo, che si sussegui- 
rono nell’arco di più di mezzo secolo a partire dagli anni Novanta del Cinquecen- 
to, legati dal suggello di una spiritualità profonda e rinnovata. La cappella citata 
dalle fonti!, descritta dalle guide antiche? e ampiamente trattata in studi più o 
meno recenti che tuttavia lasciano aperti numerosi punti?, è caratterizzata da stra- 
ordinaria integrità e coerenza formale e iconografica violata solo dall’inserimento 
della tomba dA re di Polonia Stanislao Poniatowski", autorizzato nel 1857 dai 
padri Oratoriani di San Filippo Neri, che nel 1648 avevano ereditato dall'ultimo 
dei tre committenti, Giuliano Serragli, il patronato della cappella. 

Considerazioni storiche sul susseguirsi dei patronati hanno orientato la mia 
ricerca nei fondi archivistici dei Filippini: in particolare all’Archivio di Stato di 
Firenze? è raccolta sotto il titolo di Eredità Serragli, una piccola ma importante 
sezione di libri di amministrazione familiare, entrata e uscita, debitori e creditori, 
giornali, ricordi, tenuti in prima persona o dagli amministratori, e appartenuti al 
senatore Giuliano Serragli ma soprattutto al suo figlio ultimogenito, Tommaso, 
che alla morte del padre, fu chiamato Giuliano. 

La documentazione rintracciata, interessante anche ai fini di conoscere l’at- 
tività di committenza dei due Serragli in un giro di relazioni molto importante 
nella vita sociale, culturale e artistica fiorentina della prima metà del Seicento, an- 





! Filippo Baldinucci (1681-1728, v. II p. 545, v. III pp. 139, 258, v. IV p. 309) cita la cappella Ser- 
ragli nelle vite degli artisti che vi lavorarono; Richa 1754-1762, v. VII, 1758, pp. 139-140. 

2. Bocchi, Cinelli 1677, p. 10; Del Migliore 1684, p. 214; Follini, Rastrelli 1789 - 1802, v. III, 
1791, pp. 222-223; Fantozzi 1842, p. 431. 

3. Benelli 1913, pp. 181-188, dove è fatta un'attenta illustrazione dell’iconografia della cappella 
riportando le iscrizioni delle cartelle dipinte e incise; Bietti 1990, pp. 242-244; De Luca Savelli 1990, pp. 
267-268, 286; Fallani 1996, pp. 174-175. Agli studi di Bietti e di De Luca Savelli si devono importanti 
precisazioni, anche sulla base di documenti inediti, delle fasi di sistemazione della cappella. 

4 Gli eredi del re di Polonia in esilio, Stanislao Poniatowski, morto nel 1833 (Busiri Vici 1971, 
pp. 420-422), ottennero dai Padri Filippini il permesso di realizzare il monumento affidato a Ignazio 
Villa datato 1857 (De Luca Savelli 1990, p. 286), sulla parete antistante l’altare. 

5. Archivio di Stato di Firenze (ASFi), Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 
(CRSGF) 136, nn. 66-86, 139. I registri contengono anche l’amministrazione dell'eredità Serragli suc- 
cessiva al 1648, e quindi le spese per la fabbrica di San Firenze, ivi compresa la decorazione settecente- 
sca della chiesa filippina, compulsate da Sandro Bellesi (1996, pp. 203-210). Documenti concernenti 
l'eredità Serragli sono presenti anche presso la Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri in San 
Firenze (ACOSFINFI), anch'essi scandagliati dagli studi del Cistellini (1967, 1968, 1970), solo in rife- 


rimento alle origini e alla fabbrica della chiesa filippina di Firenze. 


351 


Gioia Romagnoli 





che se non vi sono elementi che confermino una loro particolare predisposizione 
al collezionismo, si è rivelata fondamentale per precisare cronologicamente le fasi 
della lunga e complessa vicenda che caratterizzò la costruzione della cappella del 
Sacramento in San Marco; la quale si lega ufficialmente alla famiglia Serragli a 
partire dal 1 marzo 1595, data del testamento, rogato dal notaio Giovanni Stibbi 
di Firenze, di colui che ne fu il fondatore, Francesco di Simone Franceschi°. 

Tra Francesco Franceschi e Giuliano Serragli (senior) vi era un importante 
sodalizio mercantile ma anche, e forse soprattutto, amicale, reso ancor più forte 
dalla condivisione delle stesse idee spirituali. Insieme reggevano una solida com- 
pagnia commerciale che aveva una fitta rete di agenti e rappresentanti a Piacenza 
e Parma, Venezia e in Sicilia ma anche a Lione e in diverse città di Spagna e Por- 
togallo”; nel testamento del Franceschi essa fu lasciata alla gestione esclusiva di 
Giuliano Serragli e dei suoi eredi. Entrambi furono tra i ventuno fondatori, tutti 
giovani gentiluomini appartenenti a un ceto mercantile molto operoso e ricco, 
della confraternita dei Contemplanti e di San Tommaso d’Aquino* che, fondata 
dal domenicano Santi Cini? nel convento di San Marco nel 1566, fu trasferita nel 
1567 in Via della Pergola. 

Poco sappiamo di Francesco Franceschi: Stefano Rosselli nel Sepoltuario lo in- 
dica come “ricco mercante”, figlio di un cimatore!°. Nasce il 17 ottobre 1535 da 
Simone di Iacopo Franceschi, cardatore nel popolo di San Pier Maggiore". Nel 
1595, quando io il suo testamento, dove si i “civis et mercator floren- 
tinus”, viveva in una parte del palazzo Pandolfini in via San Gallo nel popolo di 
San Lorenzo". Il testamento ci informa che Franceschi, che non possedeva beni 
immobili, predispose un vitalizio per le tre sorelle Giana, Dianora e Marietta, e 
un lascito di quattromila fiorini da essere spesi entro cinque anni dalla sua morte, 
per l'acquisto di beni immobili “nel dominio del granduca di Toscana” al nipote 
Iacopo, figlio del fratello Giuliano'!. Negli anni che precedono la sua morte i 





6 ASFIi, Notarile Moderno Protocolli, 7870 c. 11-14. Il testamento seguendo lo stile fiorentino è 


datato 1 marzo 1594. 

7. ACOSFNFin. 104, dove si conservano copie di lettere inviate agli agenti a partire dal 1587. Le 
notizie sulla fitta rete di agenti della compagnia anche durante la gestione Serragli si traggono anche dai 
registri presso l'Archivio di Stato. 

8. Iventuno fondatori sono enumerati da Richa 1754 - 1762, VII, 1758, p. 69. Sulla confrater- 
nita oltre al Richa (pp. 68 — 80) si veda Passerini 1853, pp. 516-518; Sebregondi 2017, pp. 112 -114; 
sull’edificio della compagnia si veda Moschella 1971, pp. 22-25. 

? Su fra Santi di Cino Cini (1524-1570), già priore del convento di San Marco tra 1563 e 1566, 
si veda D'Addario 1972, p. 42 e ss., D'Addario 1980, pp. 154-155; Cistellini 1969, pp. 93-97. Per una 
recente ricognizione sulla spiritualità fiorentina tra XVI e XVII secolo si veda Paoli 2014, pp. 109-123. 

!°ASFi, Manoscritti 625, cc. 1223-1224. Lo stemma più volte replicato nella cappella di San 
Marco lo indica come appartenente alla famiglia Franceschi, originaria di Greve insediata a Firenze nel 
quartiere di Santo Spirito, gonfalone Scala (ASFi, Carte Ceramelli Papiani, fasc. 2112). Il padre Simone 
di Iacopo di Niccolò Franceschi è registrato come proprietario di una casetta nel popolo di San Pier 
Maggiore nel 1563 (ASFi, Decima granducale 3559, c. 368). 

!! Firenze, Archivio dell’Opera di S. Maria del Fiore, Registro dei battezzati 10 c. 94. 

12 ASFi, Notarile Moderno Protocolli, 7870 c. 11. Tra i testimoni del testamento è citato France- 
sco di Girolamo Paoli, che fu dei fondatori della Confraternita di San Tommaso d'Aquino. 

4 ASFi, Notarile Moderno Protocolli, 7870 c. 13. Delle tre sorelle Giana si fece monaca nel con- 
vento del Paradiso, nel 1591 con il nome di suor Angela (ASFi, CRSGF 136, £. 139, c. 210). Il fratello 


352 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 





documenti lo ricordano “operaio” del monastero di San Pier Maggiore e in quello 
delle agostiniane di San Luca in Via San Gallo!“. 

Morì il 22 ottobre 1597, “mercoledì notte alore cinque”, come sappiamo da 
un ricordo dell'amico Giuliano Serragli che, commosso, ne enuncia le “ottime 
sua qualità e buone opere”! e fu la secondo le sue volontà, in San Marco, 
nella cappella da poco acquisita. 

Di Francesco conosciamo l'effigie (fig. 1): un uomo, sui trent'anni, dal volto 
affilato, il naso pronunciato, barba e capelli scuri, vestito di un severo abito nero 
con colletto bianco. Così appare ritratto, il terzo in prima fila da sinistra, nel 
dipinto a firma di Mirabello Cavalori, datato 15689, raffigurante quattordici dei 
ventuno sodali fondatori della confraternita dei Contemplanti: sono inginoc- 
chiati di fronte alla Trinità, intorno allo stesso San Tommaso che ha le sembianze 
del padre spirituale della confraternita, Santi Cini, simbolicamente legati l'uno 
all’altro da catene allusive all'adesione spontanea ad un forte impegno di carità e 
perfezione cristiana di cui leggiamo nei cartigli. Nell'ambito della confraternita 
Francesco conobbe Santi di Tito sodale e architetto dell’oratorio!’, probabile suo 
mentore nell’acquisizione della cappella. 

Tra i fondatori del sodalizio dei Contemplanti si annovera, secondo l'elenco 
del Richa, anche Giuliano di Francesco Serragli nato il 27 novembre 15485: in 
uno stringato diario è lo stesso Giuliano a narrarci gli eventi salienti che riguar- 
dano la sua vita e la sua famiglia, il suo sodalizio mercantile con Franceschi, la 
sua carriera pubblica, costellata di tanti incarichi e culminante con la nomina a 
senatore e l'elezione nel Magistrato dei Quarantotto il 9 settembre 1608!°. Tipica 
figura di religiosità cl partecipò alla vita spirituale con un energico 
spirito di carità e organizzativo: fu infatti operaio in numerosi conventi e mona- 
steri fiorentini e nel suo testamento sono elencati generosi lasciti a favore di enti 
ecclesiastici. Un legame particolare sembra aver avuto con il convento del Carmi- 
ne dove era la “sepoltura antica di nostra casa”29, con quello domenicano di Santa 
Caterina dove una delle sue figlie era monaca e lui stesso operaio e soprattutto 
con quello carmelitano di Santa Maria degli Angeli, all’epoca situato in Borgo 
San Frediano, intrinsecamente unito al nome di uno degli esempi spirituali più 
venerati in città, suor Maria Maddalena de’ Pazzi, morta nel 1607. Qui nel ruolo 





Giuliano era morto nel 1592 (ASFi, CRSGF 136, £. 139 c. 37); il nipote Iacopo ebbe incarichi come 
podestà e capitano in diverse città del granducato (ASFi, Raccolta Sebregondi 2307). 

14 ACOSENEFI, n. 22, cc.nn.nn. 

5 ASFi, CRSGF 136, n. 66 c.n.n. 

!6 Sul dipinto si veda la scheda di Antonio Paolucci in La comunità cristiana 1980, p. 209-210 
(con bibl. prec.), Bellosi 1992, p. 92; Nesi 2009, 853, p. 271. 

! Sull’adesione di Santi di Tito alla confraternita di San Tommaso d'Aquino si veda M. Collareta 
in // Seicento fiorentino, 1986,p. 82 n. 1.1 e N. Bastogi in Puro, semplice e naturale 2014, p. 184 n. 18. 
Per le opere di Santi eseguite per confratelli si veda Kai 2002, p. 139, nota 18. 

18 Firenze, Archivio Opera di S. Maria del Fiore, Registro dei battezzati, 11, c. 383. 
ASFi, CRSGF 136 n. 66 c.n.n.. La notizia della nomina a senatore è riportata anche in un elenco 
dei senatori eletti nel 1608 (ASFi, Mediceo del Principato 6412, ins. 79); Mecatti 1753-1754, p. 134. 

20. AJ Carmine nel 1588 fu sepolta la madre di Giuliano, Lucrezia, per la quale fu realizzata una 
lastra tombale in marmi bianchi, grigi e neri dallo scalpellino settignanese Ludovico del Fantasia (ASFi, 


CRSGF 136 n. 78, c. 115). 


19 


353 


Gioia Romagnoli 





di priora era la cugina di Giuliano, suor Evangelista del Giocondo?" depositaria, 
come maestra delle novizie delle confidenze sulle esperienze mistiche della giova- 
ne suora; lo stesso Giuliano ne era operaio e dal 1604 tre delle sue figlie entrarono 
nel convento come monache??. 

Giuliano si sposò nel 1584, con Annalena di Napoleone di Girolamo Cambi che 
gli diede sette figli, due maschi entrambi morti in tenera età e cinque femmine”. 

Morta Annalena Cambi nel 1603, Giuliano, nel 1604, si unì in matrimonio 
con Maria di Ludovico Serristori, vedova a sua volta di un precedente matrimo- 
nio con Alessandro Venturi. Da Maria Serristori Giuliano ebbe altri tre figli, 
Lucrezia, Ludovico?° e Tommaso. Quest'ultimo, nato nel 1608, alla morte del 
padre, avvenuta il 24 aprile 1611”, ne prese il nome quasi anticipando il destino 
di divenirne l’unico ed ultimo erede. 

Giuliano il giovane, dopo una formazione presso il Collegio dei Gesuiti di San 
Giovannino, cui la madre era legata?#, proseguì ed incrementò l’attività mercan- 
tile del padre, intensificando con successo rapporti commerciali ed investimenti 
nella Roma papale e nel Regno delle due Sicilie. Diversamente dal padre che 
non si allontanò mai dal suo stretto entourage fiorentino e mantenne sempre un 


21 


Il rapporto di parentela con la Del Giocondo (1534-1625), priora del monastero dal 1586 e 
assistente spirituale di suor Maria Maddalena de’ Pazzi (Pacini 2007, p. 19) è reso noto da un breve 
carteggio conservato in ACOSFNFI, n. 22, cc.nn.nn. 

22 Nel suo diario lo stesso Giuliano elenca i conventi dei quali era operaio e fornisce notizie sulle 
monacazioni delle figlie (ASFi, CRSGF 136 n. 66 c.n.n.). 

2. Napoleone di Girolamo Cambi, fu depositario dei granduchi Francesco e Ferdinando, e fu no- 
minato senatore nel 1575 (Ciabani 1992, IV p. 943). Morì il 7 giugno 1603 (ASFi, CRSGF 136 n. 66 
c.n.n.). Ricaviamo le notizie sui matrimoni e i figli di Giuliano dallo stesso diario citato (ASFi, CRSGF 
136 n. 66 c.n.n.). Delle cinque femmine quattro presero i voti, una nel monastero di Santa Caterina e tre 
in quello di San Maria degli Angeli, mentre Maddalena si sposò nel 1605 con Giovanni Giraldi. 

24. Maria Serristori (1580-1621) era figlia di Ludovico Serristori e sorella di Luigi e Ristoro. In prime 
nozze aveva sposato Alessandro Venturi dal quale ebbe quattro figli (Carocci 1915, tav. VII). Maria morì 
il 5 gennaio 1621 e fu sepolta nella chiesa di San Giovannino dei Gesuiti (ASFi, CRSGF 136 n. 79, cc. 
137d, 144s). Dopo la sua morte la famiglia commissionò ai pittori Domenico e Valore Casini due ritratti, 
uno grande a figura intera, l’altro piccolo, raffigurante forse solo il volto, per i quali gli artisti ricevettero 
un compenso di dodici scudi (ASFi, CRSGF 136 n. 79, c. 138d). I due ritratti non sono rintracciati. 

2 Lucrezia, nata nel 1605 (ASFi, CRSGF 136 n. 66 c.n.n.), dopo la morte della madre nel 1621 
fu messa in “serbo” nel convento di San Domenico del Maglio (ASFi, CRSGF 136 n. 79, c. 138d) fino 
al matrimonio con Alessandro di Niccolò Pucci, avvenuto nel gennaio 1624 (ACOSENFI, n. 22 c.n.n.). 

26. Ludovico, nato nel 1606, nell'autunno 1622 andò a vivere a Parma, per occuparsi della com- 
pagnia mercantile che nella zona padana aveva una fiorente piazza (ASFi, CRSGF 136 n. 67, c. 96r). 
Morì nella città padana, all’età di soli diciotto anni, nel giugno 1624, per una improvvisa e fulminante 
malattia. Il suo corpo, riportato a Firenze, fu sepolto nella cappella di San Marco (ASFi, CRSGF 136 n. 
67 c. 111v e ss., CRSGF 136 n. 79, cc. 186d, 194). 

27. La morte del Serragli è annotata nel giornale il 24 aprile 1611 alle ore 23 (ASFi, CRSGF 136 n. 
66) e qui apprendiamo anche del passaggio del suo nome al figlio Tommaso. Di Giuliano conosciamo 
i testamenti dettati nel 1605 e nel 1607 al notaio Jacopo Ambrogi (ASFi, Notarile moderno Protocolli 
5955, cc. 23 e ss., 37 e ss.). 

28. Queste notizie si traggono dai registri di amministrazione consultati presso l'Archivio di Stato, 
in particolare quello riguardante gli anni tra il 1611 e il 1621 (ASFi, CRSGF 136 n. 79). Maria nel 
1620 acquistò il volume del gesuita Alfonso Rodriguez, Esercizi di perfezione, in una primissima edizio- 


ne (ASFi, CRSGF 136 n. 79, c. 1185). 


354 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 





profilo abbastanza sommesso egli adottò un tenore di vita assai opulento, infa- 
tuato anche da quello della contemporanea nobiltà romana che conobbe durante 
viaggi ed un soggiorno di alcuni mesi tra 1625 e 1626 nella città papale, ospite 
forse di Orazio Magalotti che nel 1616 aveva sposato la sorellastra di Giuliano, 
Francesca Venturi??. A Roma, come leggiamo sui registri, acquistò cavalli, una 
carrozza “alla romana”, arredi tra i quali preziosi “buffetti” intarsiati in ebano e ar- 
gento, casse di tessuti e “broccatelli”, argenterie commissionate all’orafo romano 
Fantino Taglietti. Oggetti che sarebbero andati ad arredare la casa che Giuliano 
acquistò a Firenze in via Buonfanti nel 1627 da Settimia Aldobrandini già moglie 
di Giulio Magalotti*°, al momento della sua emancipazione dai tutori e in vista 
del suo matrimonio che si sarebbe celebrato il 28 maggio 1629 con Anna di Co- 
simo Venturi*. Negli anni successivi decorerà la casa con opere d’arte acquistate 
alle vendite dei Pupilli, ma anche presso artisti e direttamente commissionate: le 
notizie documentarie ci riferiscono dell’aspirazione del giovane a inserirsi in una 
cerchia di committenza aggiornata sul gusto di corte e della nobiltà fiorentina ma 
anche dell’assenza di sistematiche velleità collezionistiche. 

I registri sono prodighi di un gran numero di notizie che consentono di rico- 
dit biografia e la personalità del giovane Giuliano: registrano la sua consue- 
tudine con la corte medicea, in particolare con i cardinali Carlo e Giovan Carlo, 
con i quali condivideva soprattutto l'interesse per la musica e il teatro??. Dal 
granduca Ferdinando II acquistò nel 1645 la tenuta e villa del Trebbio in Mugello 
per centotredicimilacinquecento scudi. 

Giuliano fu dei Buonuomini del carcere delle Stinche, beneficò con ricchi 
donativi istituti che, in particolare, si dedicavano all'educazione dei giovani e 
all'accoglienza delle fanciulle: a partire dai primi anni Quaranta, fece numero- 
se elargizioni per la costruzione del convento fondato da Eleonora Ramirez di 
Ml; e al una delle sue fanciulle annualmente assegnava una dote. Fonda- 
mentale per l’evoluzione della sua spiritualità fu l’incontro con gli oratoriani e in 
particolare il legame di amicizia che si instaurò con il priore della sede fiorentina, 
Francesco Cerretani: già nel 1644 inizia una serie di cospicue elargizioni ai padri 
oratoriani finalizzate al finanziamento della costruzione della nuova chiesa di San 


2 Carocci 1915, tav. VII. Francesca (1596-1671) era nata dal primo matrimonio di Maria Ser- 


ristori con Alessandro Venturi. Con la sorella Smeralda (1601-1628), entrata nel monastero di Sant A- 
pollonia, fu molto legata al fratello uterino Giuliano, che, cresciuto probabilmente insieme a loro, 
mantenne sempre ottimi rapporti con entrambe. 

30. ASFi, Decima granducale 2008, n. 147. 

3! Anna (30 marzo 1611-16 aprile 1649) era figlia di Cosimo Venturi, fratello di Alessandro, e di 
Sibilla di Roberto Pucci (Carocci 1915, tav. VII). Il “parentado” con Giuliano Serragli fu fissato con una 
dote di 17.000 scudi il 22 marzo 1629 (ASFE, CRSGEF 136 n. 68 c. 3r) e le nozze furono celebrate il 28 
maggio 1629 (ASFi, Raccolta Sebregondi 4899). 

32. Nei registri consultati sono frequenti i pagamenti per acquisti di strumenti musicali e si rileva 
che fin dalla giovane età, Giuliano aveva avuto una educazione musicale e in particolare suonava la chi- 
tarra. Negli ultimi mesi del 1634 sono segnati pagamenti per le commedianti Prudenza (identificabile 
con Prudenza Carpiani Fiorilli cfr Mamone 2003, ad indicem) e Moschetta a istanza del cardinale 
Giovan Carlo e del principe Carlo (ASFi, CRSGF 136 n. 79, c. 382d). 

3. "Tra dicembre 1644 e gennaio 1645 dava notizia del buon fine della trattativa con i Medici, 
patrocinata dal cardinale Carlo, ai cugini Antonio e Ludovico Serristori (ASFi, Serristori Famiglia 199, 
ins. 7, cc.nn.nn.). 


355 


Gioia Romagnoli 





Firenze; allo stesso scopo, ossia che “resti fabbricata la principiata chiesa nuova ... 
secondo il modello fatto in conformità del Disegno e Soprintendenza del signor 
Pietro da Cortona Architetto eminentissimo” come ebbe a scrivere nel suo testa- 
mento, agli oratoriani devolverà alla morte, avvenuta il 16 giugno 1648, all’età di 
soli quarant'anni, l’intero suo patrimonio**. 

Questi tre personaggi, diversi l’uno dall’altro ma legati da un percorso spiri- 
tuale comune, ispirato anche ad un forte impegno solidale, che si inserisce nel 
solco della tradizione domenicana recuperata dalle istanze di una religiosità in- 
tensa e caritativa come quella dell'Oratorio di San Filippo Neri, Lil le 
diverse fasi temporali nella acquisizione e progetto, costruzione e decorazione 
della cappella del Sacramento. 

Essa È eretta nello spazio precedentemente occupato da due cappelle aperte, 
di tipo gotico, situate, a fianco della tribuna, nel braccio sinistro dell’asimmetrico 
transetto di San Marco. La situazione che precede la costruzione è visibile in una 
planimetria conservata nel libro di disegni di Giorgio Vasari il Giovane, pubblica- 
ta dal Teubner®° (fig. 2): le due cappelle che vediamo a sinistra della tribuna erano 
dedicate l’una all’Assunzione della Vergine e l’altra a San Gerolamo. La prima, 
dal 1424 era di patronato della famiglia Martini dell’Ala e, secondo la testimo- 
nianza del Borghini, era decorata di affreschi e di una tavola d’altare realizzati da 
Lorenzo di Bicci?°. 

La cappella accanto, di San Girolamo, già dei Niccoli, dal 22 aprile 1586, 
quando Francesco Calippi ne fece la rinunzia del patronato, era stata restituita 
ai domenicani, che infatti nel 1587 sostennero la spesa per restauri strutturali al 
tetto”. Con la costruzione, tra 1580 e 1589, su committenza dei Salviati, della 
cappella di Sant'Antonino, che andava ad occupare lo spazio della cappella di 
San Domenico già in testata del transetto e il transetto stesso3*, le due cappelle 
rimasero tamponate dalla parete del vestibolo Salviati (fig. 3): a quella di San 
Girolamo, la più interna, si poteva accedere tramite una delle due porte, quella a 
sinistra, all’interno del vestibolo stesso, l’altra delle quali era finta”. 

La decisione di Francesco Franceschi di acquisire lo spazio delle due cappelle 
per crearne una unica dovette maturare di conseguenza alla realizzazione della 
cappella Salviati: del resto era l’unica soluzione ragionevole per ovviare agli in- 
convenienti di due cappelle anguste, ottuse e di difficile accesso. Il diritto sulle 
due cappelle permetteva al Franceschi di realizzare un ambiente di dimensioni 
considerevoli e soprattutto di aprire un accesso, libero da ogni servitù di passag- 





3. Morendo senza figli, lasciava eredi del suo vasto patrimonio gli oratoriani di San Filippo Neri 


con l’obbligo di utilizzarne i proventi per la “fabbrica” di San Firenze (Cistellini 1970, pp. 27-57). 
Nell’eredità era compreso il patronato della cappella in San Marco (ACOSFNFI, n. 35 Testamento di 
Giuliano Serragli). Sulla costruzione della chiesa si veda Coffey 1978 e Mattatelli 2017-2018. 

5 La planimetria si conserva presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (A4861) ed è pub- 
blicata da Teubner 1979, p. 240. 

36 Teubner 1979, p. 261; Borghini 1584 p. 305; sulla cappella si veda Bietti 1990, p. 215. 

87. Firenze, Archivio del Convento di San Marco, sez. Convento 20, Sepoltuario 1494-1600 c. 
2v; Firenze, Biblioteca Mediceo Laurenziana, S. Marco 904, Ricordanze libro segnato C, c. 134v; ASFI, 
CRSGF 103 n. 44, c. 70. 

38. Sulla cappella Salviati si veda De Luca 1996 pp. 115-135. 


39. Si trae l'informazione da Buoninsegni 1589, p. 14. 


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La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 





gio, per mezzo di un portale direttamente dalla navata della chiesa; nella scelta di 
creare uno spazio annesso ma in realtà autonomo dalla chiesa stessa ci si ispirava 
alla recente cappella Niccolini di Santa Croce. L'idea del Franceschi si inseriva del 
resto in quel programma di ammodernamento della navata di San Marco, che fu 
promosso a partire dal 15900. 

La copia di uno stralcio del contratto di acquisizione riportata in un docu- 
mento della seconda metà del Seicento conferma che Franceschi acquisì le due 
antiche cappelle “attaccate insieme e divise per muro” e che nell’acquisizione fu 
affiancato, come mediatore con i padri domenicani, da Santi di Tito, suo confra- 
tello nella compagnia di San Tommaso d'Aquino. Queste le parole del contratto: 
i domenicani “Concesserunt et dederunt dicto Magistro Sancti de Titis presen- 
ti et pro ignota persona recipienti et acceptanti dictam cappellam intitulatam 
Sancti Hieronimi et illam nuncupatam de Martinis”. L'acquisizione degli spazi 
dovette precedere di qualche anno il testamento del Franceschi datato 1 marzo 
1595, dove si fa riferimento a lavori già avviati e ad un progetto già esistente 
riguardante la realizzazione di un'unica cappella: il testatore esprime inoltre la 
volontà di essere sepolto nella nuova tomba della cappella che si costruisce in San 
Marco e, qualora e sua morte la cappella non fosse stata terminata, raccomanda 
all’erede designato, Giuliano Serragli — di fatto già coinvolto nella costruzione-, 
di concludere i lavori quanto prima secondo ÎÌ progetto previsto (“secundum 
modulum destinatum”)f?. 

Nei primi mesi del 1595, quindi, il progetto che trasformava i due ambienti in 
un'unica cappella era già pianificato; la cripta per le sepolture era agibile e infatti 
già nell'ottobre 1594 vi erano stati inumati due figlioletti di Giuliano, morti per 
vaiolo‘. La narrazione dei documenti ci da ragione di credere che entro il 1599, 
quando i lavori furono interrotti in maniera improvvisa quanto imprevista, fosse- 
ro già ideati il progetto decorativo e il complesso programma iconografico della 
nuova grande cappella; Santi di Tito aveva già avviato i lavori di decorazione ad 
affresco partendo dalla volta. Nel 1599 Giovanni Battista e Zanobi Martini, ex 
patroni di quella delle due cappelle più vicina al coro della chiesa, ingaggiarono 
una lite contro Giuliano Serragli e i domenicani per riaffermare i loro diritti sulla 
vecchia cappella di famiglia, ni bloccò i lavori per più di tre anni, fino al 1603. 
Forse con leggerezza si era pensato che i Martini avessero rinunziato ai loro diritti 
quando i Salviati, tamponando in parte l’accesso della cappella con la costruzione 
del vestibolo, avevano fatto spostare all’altare sulla parete destra della chiesa il 
loro titolo‘. Si dovette ricorrere al giudizio del granduca, il quale per rescritto, 
stabilì che la famiglia Martini o si riprendeva ; cappella rifondendo le spese 





4 Bietti 1990 p. 244; De Luca 1996, pp. 129 - 132. 

4! Firenze, Archivio di San Marco, Convento 201, fasc. n. 7. Il documento che riguarda una 
questione di patronato sulla cappella rivendicato da Serraglio Serragli (morto nel 1684, con il quale si 
estinse la famiglia (Ciabani 1994, p. 856), dagli Oratoriani e dai Domenicani riporta evidentemente 
uno stralcio di un documento coevo all’acquisizione della cappella da parte del Franceschi, per noi non 
rintracciato, per il quale si riporta una data molto generica “circa l’anno 1580”. 

4 ASFIi, Notarile Moderno Protocolli, 7870 c. 11-14. 

5. ASFi, CRSGF 136 n. 66, c.n.n. La presenza di una sorta di cripta sepolcrale al di sotto della 
cappella è attestata anche da Giuseppe Richa (1754 — 1762, VII, 1758, p. 140). 

44 Buoninsegni 1589 p. 4; Bietti 1990, p. 241. 


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Gioia Romagnoli 





sostenute fino ad allora dal Serragli o rinunciava a tutti i suoi diritti in cambio 
di duecento scudi e del mantenimento di due arme all’interno della cappella. 
Si arrivò finalmente a questa ultima soluzione e nel 1603, il 3 luglio, Giuliano 
Serragli poté liquidare le pretese dei Martini, avere i diritti completi sulle due 
cappelle, e proseguire i lavori. Così si riassumeva con chiarezza la vicenda tra i 
ricordi di Giuliano Serragli: “Ricordo come Giuliano Serragli ha pagato a Gio- 
vanni Battista e Zanobi Martini s. 200 di moneta per ricompensa di una cappella 
che havevano in San Marco intitolata alla Vergine che si richiuse per comodo de 
Salviati per fare la cappella di S. Antonino la quale cappella de Martini insieme ad 
altra quivi accanto fu concessa da detti reverendi padri alla B.M. del q. Francesco 
Franceschi per fabbricarvi una onorevole cappella per il SS. Sacramento. Come 
s'è fatto, e da detti Martini fino l’anno 1599 . messa lite all’arcivescovado contro 
a detti Padri e Giuliano Serragli e doppo anni fu supplicato da detti Padri a S.A.S. 
perché decidessi e ordinassi si finissi detta cappella, la quale Altezza Ser.ma per 
rescritto dichiarò che li Martini pigliassino la cappella volendola con rifare tutte 
le spese fattovi a Giuliano Serragli o veramente pigliassino li detti sc. 200 e che vi 
si mettessi due delle loro arme ... in cappella per memoria”. 

Per questi anni e fino alla morte di Giuliano Serragli nel 1611, non sono con- 
servati i registri di pagamento della compagnia commerciale Franceschi-Serragli 
che di fatto finanziò i lavori nella cappella: un riepilogo di pagamenti liquidati 
o ancora insoluti redatto alla morte di Giuliano, nel 1611, ci permette di rico- 
struire le fasi dei lavori dal 1597‘ e i nomi degli artisti coinvolti. Per il periodo 
precedente abbiamo rintracciato solo alcune poche carte frammentarie risalenti 
agli anni 1595-1597, estratte dai registri di debitori e creditori della compagnia; 
i nomi di Santi di Tito e Ludovico Cigoli sono annotati alla data 4 settembre 
15954: in via molto ipotetica sono forse da mettere in relazione con la cappella, 
introducendo, vista la data molto precoce, il tema piuttosto spinoso circa la re- 
sponsabilità del progetto della cappella stessa e della porta di accesso. 

In una breve raccolta di notizie sul pittore inviate a Filippo Baldinucci il pro- 

etto è attribuito a Santi di Tito‘. Attribuzione del tutto isolata, omessa nella 
A del pittore dallo stesso Baldinucci, ma che si rende sostenibile in consi- 
derazione del rapporto privilegiato dell’artista con il committente e nell’acquisi- 
zione della ai 

Sulla scorta delle fonti?°, che attribuiscono al Cigoli il progetto della porta 





5. ASFi, CRSGF 136 n. 66 a 3 luglio 1603). Il contratto di cessione dei diritti sulla cappella fu 
rogato dal notaio Pietro di Albizo (Firenze, Biblioteca Mediceo Laurenziana, S. Marco 949, c. 119). 
Le arme dei Martini, quattrocentesche, tolte dalla vecchia cappella furono ricollocate sopra l'ingresso 
dall’interno, mentre quelle dei Serragli e Franceschi furono sistemate sui pilastri che dividevano le due 
antiche cappelle. 

46 Nel 1597 sono segnalati soprattutto pagamenti alle maestranze che si occuparono della lavora- 
zione e posa dei marmi (ASFi, CRSGF 136 n. 78, c. 1675). 

41 due pagamenti si trovano in un estratto di debitori e creditori della compagnia degli anni 
1595-1597 conservato in un fascicolo miscellaneo presso ACOSENFI, n. 22, c.n.n. 

‘8 Baldinucci 1681-1728, ed. 1975, VII, p. 22. 

4 Baldinucci 1681-1728, III, p. 258; Richa 1754 - 1762, VII, p. 137; l'attribuzione è ripresa 
anche dalla guida del Fantozzi 1842 p. 431. 


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La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 





della cappella, è stato anche proposto di riferirgli quello dell'’ambiente??. Monica 
Bietti nel suo documentato contributo sulla cappella distingue nettamente due 
diverse fasi di realizzazione, presupponendo un ruolo di Santi di Tito per la por- 
zione corrispondente all’ex cappella di San Girolamo della quale avrebbe dipinto 
la volta, e dopo il 1603 l’intervento del Cigoli che avrebbe realizzato il portale”. 

Diversamente dalle cappelle coeve che privilegiano la funzione architettonico- 
decorativa con ricchi rivestimenti marmorei di derivazione romana, nella cappel- 
la del Sacramento questa è subalterna e prevale la decorazione pittorica. Gli spazi 
delle due cappelle Lio poco modificati dal punto di vista strutturale e, man- 
tenendo nella volta le vele gotiche, fu abbattuta solo la parete che separava i due 
ambienti. Lo spazio della nuova cappella è organizzato in maniera longitudinale 
e sulle due pareti brevi accoglie un'alta dl timpanata affiancata da due nic- 
chie (fig. 4), secondo un modulo di tripartizione molto frequentato nel periodo 
e dipendente da Dosio e Giambologna. Sul lato meridionale di fronte all’edicola 
è posizionata la mensa d’altare. L'incrostatura e decorazione marmorea, croma- 
ticamente vivace ma se vogliamo un po’ “trita”, come l’ebbe a definire il Berti, 
soprattutto negli ordini superiori, riguarda lo zoccolo delle pareti, le cornici e le 
mostre delle finestre, una serliana e quattro rettangolari, molto piatte nel profilo 
marmoreo e affini nel disegno ad esempi titeschi non solo architettonici ma an- 
che pittorici. Elementi che possono avvalorare l’attribuzione a Santi, il cui ruolo 
di architetto, non solo è sfuggente per gli studi, ma fu di per sé indefinito, incerto 
e anche abbastanza casuale, forse riservato ad una stretta cerchia di amici”. 

Nel progettare la cappella egli aveva inizialmente riservato a sé stesso e alla sua 
bottega la decorazione pittorica delle pareti, avviata, riteniamo, prima dell’im- 
prevista interruzione del 1599: Santi riuscì a dipingere la porzione occidentale 
della volta affrescata, comprendente, intorno alla Colomba dello Spirito Santo, 
le figurazioni allegoriche di Unione, Trasporto, Pace, e Grazia. Il protrarsi dell’in- 
terruzione dei lavori fino al 3 luglio 1603, pochi giorni prima della sua morte, 
avvenuta il 25 luglio, impedì all’artista di completare la decorazione. Santi aveva 
iniziato anche a dipingere la tavola per l’altare della cappella con la Comunione 
degli Apostoli: il dipinto fu lasciato interrotto, lo troviamo infatti nell'inventario 
delle masserizie della casa e studio del pittore in via delle Ruote stilato alla sua 
morte, citato come “una tavola del Signor Giuliano Serragli entrovi un Cenacolo 
del Nostro Signore di braccia 6 e 4 et larga 4, in asse, tutta bozzata non sapessi 
che danari habbia hauto, per havere conti insieme”?5. 

Alla fase progettuale dei lavori precedente al 1599, è da ascrivere anche il 
progetto dell'accesso alla cappella da inserire nella prospettiva della navata della 
chiesa: il portale realizzato appartiene ad un registro stilistico diverso rispetto 
all’interno. 

Il progetto del portale è riferito al Cigoli da Filippo Baldinucci?; attribuzione 





50 


Favorevole ad una attribuzione del progetto della cappella al Cigoli è Berti 1959, pp. 175. 

5! Bietti 1990, p. 242; ipotesi ripresa da Fallani 1996, pp. 174-175. 

5. Su Santi di Tito architetto si veda Chiarelli 1939; Moschella 1971; Belluzzi, Belli 2016, in par- 
ticolare pp. 51 -54: i quali tutti non citano la cappella tra i progetti dell’artista; tuttavia è da tenere in 
considerazione anche la posizione di Emanuele Barletti (2011, p. 595) che ne nega il ruolo di architetto. 

5. Baldinucci, 1681-1728, II, p. 545; Spalding 1982, pp. 464-468; Brooks 2002, p. 288. 

5 Baldinucci, 1681-1728, v. III, p. 258. 


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condivisa dagli studiosi con datazioni che vanno dal 1594 - 1595? al 16035. 
L'attribuzione è stata argomentata in tempi recenti, prendendo in considerazione 
alcuni disegni conservati agli Uffizi, da Gambuti” I considera la porta la prima 
opera architettonica del Cigoli, risalente a prima del 1596, e da Morrogh, che, 
ascrivendola ad una fase precoce della sua attività di architetto vi nota un'enfasi 
di ascendenza romana. 

Il compenso al Cigoli del 4 settembre 1595°? indica una sua attività a questa 
data per i committenti, e anche se possiamo solo ipotizzare che esso sia da rife- 
rire al portale, è assai probabile che in quegli anni l’artista possa averlo ideato. 
I documenti tuttavia riferiscono che quest'ultimo fu realizzato solo tra 1607 e 
1608: molto circostanziati sono i pagamenti, per l'acquisto di marmi carrarini e 
per la fattura, allo scalpellino settignanese Ludovico del Fantasia che lo mise in 
opera‘ e come conferma la presenza dei soli stemmi Serragli sull’architrave (fig. 
5), Questo presunto arco di tempo molto lungo tra il progetto e la realizzazione 
giustifica la laboriosa messa a punto evidente nei disegni sicuramente riferibili 
al portale nel gruppo degli Uffizi: particolarmente interessante il foglio GDSU 
2603A (fig. Ga e b) che segna il passaggio dallo stipite piatto all'inserimento delle 
due colonne che sostengono il timpano. Modifica . vediamo introdotta nel 
disegno GDSU 2640A (fig. 7) e nel GDSU 2601A (fig. 8), ormai prossimo alla 
redazione finale. La presenza delle misure fa pensare che i disegni siano legati 
alla realizzazione dell’opera e che quindi, anche con il GDSU 2601A, non ci si 
trovi di fronte a un semplice esercizio di copia: senza entrare troppo nel merito 
attributivo, probabile invece che il disegno segni il momento finale nell’evoluzio- 
ne del progetto, probabilmente realizzato ad opera della cerchia del Cigoli in una 
data più prossima alla realizzazione. 

L'avvio della decorazione della volta da parte di Santi di Tito conferma che pa- 
rallelamente al progetto, era stato stabilito il complesso programma O a 
che si svolge intorno al mistero, enfatizzato dalla catechesi post-tridentina, della 
transustanziazione, ossia della presenza del Cristo nell’ostia consacrata, rappre- 
sentato figurativamente dal Cristo al centro della volta, con il motto evangelico 
Ego sum panis vivus, circondato da simboli e allegorie legati al sacramento eu- 
caristico. Iscrizioni prevalentemente neo e vetero testamentarie ma anche tratte 
da testi esegetici di San Tommaso e Sant'Agostino o riferentisi alle vite dei santi 
accompagnano e commentano, secondo un criterio rigorosamente didascalico, 
anche i soggetti rappresentati sulle pareti. Qui, cinque dipinti, oltre quello, po- 





>. Berti 1959, pp. 174 -176, Matteoli 1980, pp. 266 -267 n. 114. Unica eccezione, Busse (1911, 
p. 33) lo riferisce al 1588. 

56 Bietti 1990 p. 242; De Luca Savelli 1990, pp. 267-268. 

9. Gambuti 1973, pp. 54-57. 

9. Morrogh 1985, pp. 166-169, nn. 90-91. Nella serie di disegni lo studioso individua come 
autografi il 2603A, e i numeri 2640A e 2642A. 

9 ACOSENEI, n. 22, c.n.n. Il compenso ammonta a poco più di centoventuno lire. 

6 ASFi, CRSGF 136 n. 78, c. 162s. Negli stessi anni lo scalpellino lavorava anche nella villa di 
Rovezzano, acquistata da Giuliano nel 1600 (ASFi, CRSGF 136 n. 66, c. 52r). 

6 I disegni GDSU 2603A e 2640A sono tra quelli attribuiti da Morrogh (1985, pp. 166-169, 
nn. 90-91) a Cigoli; il GDSU 2601A dallo stesso è riferito a Sigismondo Coccapani (ivi, p. 169), dalla 
Matteoli invece a Cigoli (1980, pp. 266 -267 n. 114). 


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La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 





sto sull'altare, raffigurante /Ystituzione dell'Eucaristia, illustrano episodi biblici 
ed evangelici che prefigurano o ricordano il sacrificio eucaristico (il Sacrificio di 
Bacco e la Cena in Emmaus), 0 sono allusivi al nutrimento divino (la Discesa della 
manna e la Moltiplicazione dei pani), o evocano il potere salvifico dell'Eucaristia 
- (la Resurrezione di Eutico). Ai dipinti si alternano figure di Santi nella vita dei 
quali ci sono stati episodi legati all’Eucaristia, narrati in riquadri a monocromo 
sottostanti alle figure: una teoria di exempla proposti al fedele che si raccoglieva 
in preghiera nella cappella secondo un criterio didattico codificato dalla catechesi 
post-tridentina. I santi si inseriscono entro nicchie dipinte che dal punto di vista 
figurativo e stilistico riprendono modelli della tradizione cinquecentesca della 
cosiddetta scuola di San Marco, con un voluto recupero arcaizzante che è eviden- 
te anche nella volta decorata in oro, a finte tessere musive. I versetti incisi sulle 
tabelle in lavagna corrispondenti alle quattro nicchie fiancheggianti le edicole 
indicano che in esse, secondo questa rigorosa impostazione iconografica ruotante 
intorno all’identificazione di Cristo-Eucaristia, dovevano essere alba scultu- 
re raffiguranti personaggi biblici legati al tema del nutrimento divino e miracolo- 
so, precisamente Aronne, Melchisedech, Elia e David. Il programma iconografico 
iniziale fu perso di vista, in corso d’opera, e al posto delle figure bibliche si collo- 
carono le statue dei quattro evangelisti, realizzate verso la metà del secolo XVII. 

Il tema dell'Eucaristia è centrale nel culto e nella liturgia post-tridentini: a 
Firenze ne fu particolare sostenitore, con la sua azione riformatrice, Alessandro 
di Ottaviano de Medici, arcivescovo della città tra 1574 e 1605, di formazione 
domenicana, anch'egli dei confratelli di San Tommaso d’Aquino®. Il vescovo 
introdusse in Firenze la pratica devozionale delle Quarantore, in onore del San- 
tissimo Sacramento, e fu sostenitore del culto dei santi. Il complesso programma 
iconografico della cappella era dunque teologicamente di grande attualità; non 
conosciamo l’estensore e ideatore di questo complesso programma che fu senza 
dubbio elaborato e discusso nell'’ambiente domenicano al quale i due primi com- 
mittenti erano spiritualmente legati fin dalla loro giovanile formazione. 

Dal 1604 ingenti pagamenti per l’acquisto dell'oro “da mettere alla volta della 
cappella” segnalano la ripresa della decorazione ad affresco, conclusasi proba- 
bilmente nel biennio successivo: Bernardino Poccetti subentrò a Santi di Tito 
continuandone l’opera da circa metà della volta a cominciare dall’ottagono raffi- 

urante Cristo in gloria e proseguendo con la decorazione parietale, dove le otto 
Lun di santi e i sottostanti monocromi in oro e marrone sono completate da 
quadrature, angioletti e festoni”. 

Tra 1606-1607 e 1609-1610, Giuliano Serragli contattò alcuni degli artisti più 
importanti nella Firenze di primo Seicento, per dipingere le tele delle pareti con 
gli episodi biblici ed iz che prefigurano o evocano l'Eucaristia. Un episo- 
dio che non sfuggì alle fonti antiche: Baldinucci a proposito del Sacrificio d'Isacco 





6 Nel 1605 divenne papa, per un brevissimo pontificato, col nome di Leone XI (D'Addario 


1972, pp. 178-179, 243-327 e La comunità cristiana 1980 p. 80). Della sua adesione alla confrater- 
nita di San Tommaso d’Aquino riferisce Richa (1754 — 1762, VII, 1758, p. 74). Per il suo ruolo di 
supervisore del progetto iconografico della vicina cappella Salviati in San Marco e per la sua attività di 
committente si veda De Luca 1996, p. 123. 

6. ASFi, CRSGF 136 n. 78, cc. 161d, 164d. Poccetti ricevette un compenso di 301 scudi. 


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Gioia Romagnoli 





dell'Empoli scrisse che fu fatto “a concorrenza del Passignano e d’altri gran pittori 
di quel tempo per Giuliano Serragli”*. A questa sorta di competizione, secondo 
una fonte riportata nel Settecento avrebbe partecipato anche il Cigoli®. Il coinvol- 
gimento di quest'ultimo non è confermato dai nostri registri, ma non può essere 
escluso: è probabile però che il Cigoli, a queste date ormai orientato verso Roma, 
non abbia risposto a questa convocazione del Serragli, se mai c'è stata. Del resto i 
documenti rintracciati sembrerebbero smentire anche la testimonianza del Baldi- 
nucci, secondo la quale, per Giuliano Serragli, Cigoli avrebbe dipinto il Miracolo 
di San Giacinto terminato dall’allievo Giovanni Bilivert e visto dal biografo nella 
collezione di Lorenzo Magalotti*. Anna Matteoli tra l’altro proponeva per questo 
dipinto un riferimento alla cappella’, mettendone in relazione il soggetto, descritto 
in maniera assai precisa dal biografo, ossia la trasformazione della grandine in pane, 
con il programma iconografico eucaristico. Tale dipinto è stato riconosciuto con 
uello nel 1988 ricomparso sul mercato antiquario con l'attribuzione al Bilivert® 
(e. 10). I documenti rintracciati ci informano che un dipinto di questo sogget- 
to fu commissionato dagli eredi di Giuliano Serragli per la cappella della villa di 
Rovezzano: i pagamenti riportano nel dettaglio l’acquisto della tela e la fattura del 
telaio nel 1612 e l’affidamento diretto al giovane Giovanni Bilivert che sarebbe 
quindi l’unico responsabile dell’esecuzione del dipinto, avendolo terminato già nel 
1613, anche se i pagamenti si protraggono fino al 16199. Nel testamento del 1648 
Giuliano Serragli il giovane del 1648 prescrive il lascito del dipinto alla sua sorel- 
lastra Francesca Venturi Magalotti?®. Di qui la presenza della tela nella collezione 
del figlio di lei, Lorenzo, dove la vide il Baldinucci e il conseguente ingresso nella 
collezione Gerini dalla quale risulta essere venduta nel 1825”. 
Con la morte di Giuliano, nell’aprile 1611 i lavori nella cappella si interrup- 
ero per alcuni anni: in quel frangente si procedette a saldare tutti i pagamenti 
o ad allora non onorati e da questi saldi conosciamo i nomi dei pittori che 
Giuliano aveva coinvolto nella decorazione della cappella negli anni immediata- 
mente precedenti. Tiberio Titi fu incaricato di portare a termine la tavola dell’al- 
tare iniziata dal padre, l’unico dipinto su tavola (fig. 11). Egli ricevette nel 1609 
un rimborso per il blu oltremare e nel 1611 il compenso di cinquanta scudi a 
saldo”? Il Titi, negli anni a seguire lavorò per gli eredi di Giuliano Serragli anche 
come ritrattista, realizzando il ritratto postumo dello stesso Giuliano”?, quello 


6 Baldinucci 1681-1728, III, p.9. 

6 Almanacco pittorico 1796, p. 96. Il Sacrificio d’Isacco del Cigoli (Firenze, Galleria Palatina) è 
stato messo in relazione con la cappella Serragli anticipandone la datazione al 1594 (Carman 1974, pp. 
331-338). 

6 Baldinucci 1681-1728, III, p. 278-279. 

9. Matteoli 1980, sch. n. 71. 

6 Asta Finarte n. 663, 22 novembre 1988, lotto 217; Contini (1991, p. 108, n. 34) ritiene la tela 
opera di collaborazione tra Cigoli e l'allievo Bilivert. 

9 ASFi, CRSGFP 136 n. 67, cc. 5d, 9s, 10d, 19d, 23s, 24d, 52d; n. 79, c. 13s, 56s, 62d, 65s. 

7 —ACOSENE,, n. 35 Testamento di Giuliano Serragli, 1648, c. 36. 

7! Trezzani 2003, p. 164, Ingendaay 2015, I, p. 162. 

7 ASFi, CRSGF 136 n. 78 cc. 151d, 158s. 

7. Per il ritratto di Giuliano Serragli, probabilmente a figura intera, nel settembre 1611 ricevette 
un pagamento di 16 scudi (ASFi, CRSGF 136 n. 67, c. 3s; n. 79, c. 185). Il ritratto non è stato per il 


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La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 





delle due figlie del primo matrimonio di Maria Serristori, Francesca e Smeralda 
Venturi” e quello dei tre figli di Giuliano e Maria, Lucrezia, Ludovico e Tomma- 
so (Giuliano il giovane), che proponiamo qui di identificare, per la corrisponden- 
za dell’età dei fanciulli, in un ritratto da attribuire alla bottega del Titi?? (fig. 12). 

Furono messi in pagamento anche i cinquanta scudi di fire sette per ciascun 
artista che Giuliano aveva previsto come acconto a Iacopo da Empoli, Domenico 
Passignano e Cristofano Allori”; non risulta che i tre artisti abbiano consegnato 
alcun dipinto, vivente il Serragli o subito dopo la sua morte: infatti gli spazi ad 
essi destinati rimasero vuoti e nel 1613 la famiglia, per decoro della cappella che 
veniva aperta al pubblico, li fece coprire con drappi di damasco verde”. Solo 
l'Empoli nel 1607 aveva ricevuto un anticipo di 25 scudi su questo acconto e nel 
1609 un rimborso per il blu di lapislazzuli”; questi pagamenti all’Empoli e il rife- 
rimento in essi alla “tavola” lasciano aperta la possibilità che l’artista già lavorasse 
al suo Sacrificio d’Isacco. Il pagamento dei 50 scudi a testa confermerebbe non 
solo il coinvolgimento dei tre artisti ma anche l'avvenuta stipula dei contratti e 
l'approvazione di progetti per i dipinti da realizzare”?. Questo tra l’altro avrebbe 
permesso, alla fine del secondo decennio del secolo, agli esecutori testamentari di 
Giuliano, nel segno di una perfetta continuità, di potere riannodare il filo della 
commissione esattamente laddove era stato interrotto, senza prendere alcuna ini- 
ziativa riguardo alla scelta di soggetti e artisti. 

I pagamenti del 1611 portano alla nostra attenzione una notizia del tutto ine- 
dita: il coinvolgimento di Cristofano Allori nei lavori per la cappella. Su questa 
base di lo proposto che le due piccole tele di Cristofano Allori raffiguran- 
ti la Cena in Emmaus, rispettivamente conservate nei depositi delle Gallerie degli 
Uffizi (inv. 1890 n. 1507) (fig. 13) e nella sala di Ulisse della Galleria Palatina 
(inv. Palatina 1912 n. 303) (fig. 14), siano da considerare saggi preparatori per la 
tela con questo soggetto che l'Allori avrebbe dovuto realizzare per la cappella®°. 
I due piccoli dipinti, la cui storia critica ha oscillato tra l'attribuzione al Cigoli e 


momento rintracciato. 

74 Nel settembre 1614 il Titi ricevette il pagamento di 22 scudi per il doppio ritratto delle due 
adolescenti (ASFi, CRSGF 136 n. 67, c. 19d; n. 79, c. 185). Attualmente non identificato. 

? Nel giugno 1613 il Titi ricevette il pagamento di 28 scudi per il ritratto in un'unica tela dei 
tre fanciulli (ASFi, CRSGF 136 n. 67, c. 10s; n. 79, c. 18s). Il presunto ritratto è passato ad un'asta 
con l’attribuzione a Tiberio (Londra, Bonhams 7 luglio 2004 lotto 119). Ringrazio Lisa Goldenberg 
Stoppato alla quale devo l'indicazione di riferire il ritratto alla bottega. 

76 ASFi, CRSGF 136 n. 78 cc. 151d, 1575, 159d. 

7 AlPacquisto di cortine si fa cenno nei libri di amministrazione nel 1612 (CRSGF 136 n. 67 c. 
11s; n. 79 c. 29s). Una descrizione assai puntuale dello stato della cappella nel 1613 è in Archivio di San 
Marco, Convento n. 60 Libro di ricordanze della Sagrestia di San Marco di Fiorenza, 1588-1749 c. 14. 

78 ASFi, CRSGF 136 n. 78 cc. 163s, 171s. 

? Questo si potrebbe evincere dall’aneddoto riportato dal pittore Virgino Zaballi in cui Giuliano 
si sarebbe lamentato col pittore del troppo alto compenso pattuito per un quadro con due sole figure 
nei confronti dello stesso prezzo per il quadro del Passignano con molte figure (Battelli 1915 p. 211). 

8° Abbiamo trattato l'argomento in una conferenza dal titolo Cristofano Allori per Giuliano Serra- 
gli: una proposta per i bozzetti con la Cena in Emmaus delle Gallerie degli Uffizi, tenutasi presso lAudi- 
torium Vasari della Galleria degli Uffizi, il 6 febbraio 2019, e ad esso si è accennato in una scheda in // 
Pane e i sassi 2019, p. 54 n. 5.I due bozzetti contrariamente a quanto riportato su alcuni testi, hanno 
dimensioni praticamente uguali (1890 n. 1507 cm 69.4 x 54.5 e Palatina n. 303 69.8 x 56). 


363 


Gioia Romagnoli 





all’Allori#!, in maniera risolutiva sono stati riferiti all’Allori dagli studi di Chelazzi 
Dini, Pizzorusso e Chappell* con una datazione che va dai primi anni del Seicen- 
to al 1610 circa. Nei due dipinti l'episodio evangelico è trattato in maniera molto 
semplice, in un interno toscano che evoca il loggiato di un palazzo o villa genti- 
lizia: hanno misure uguali, non vi sono varianti compositive né nei particolari. 
L'artista propone due diverse interpretazioni cromatiche e luministiche e direi 
anche tecniche: la materia del dipinto della Palatina ambientato in una atmosfera 
serale è meno densamente pittorica e ha una tonalità più uniforme pur con guizzi 
di luce nelle pennellate; quello degli Uffizi, dove è addirittura colto il calare del 
sole dietro le colline, ha una stesura più soffice e una carica cromatica più chiara 
e luminosa che ben si adatta tra l’altro alle tonalità dorate della cappella. La tela 
dell’Allori, secondo le iscrizioni che ci guidano nell’iconografia della cappella, 
avrebbe dovuto essere collocata a sinistra dell’altare, come indica il versetto del 
vangelo di Luca riferito al momento saliente della Cena in Emmaus “COGNO- 
VERUNT EUM IN FRACTIONE PANIS”, ma non fu mai realizzata a causa 
dell’interruzione dei lavori nel 1611; e, quando gli artisti furono richiamati tra la 
fine del secondo decennio e l’inizio del terzo, l’Allori era ormai gravemente am- 
malato e morente. I due piccoli dipinti, che è probabile siano rimasti di proprietà 
Serragli, furono proposti come modello, negli anni Trenta, a Francesco Curradi 
il quale ne riprese la parte centrale della composizione nel dipinto dello stesso 
soggetto che realizzò per la cappella. Nelle collezioni granducali i due bozzetti sa- 
rebbero entrati in seguito: li troviamo per la prima volta citati nell'inventario del 
cardinale Carlo de’ Medici nel 1666*. E probabile che nella collezione di Carlo 
siano giunti tramite Giuliano Serragli il giovane, come abbiamo visto legato alla 
corte del cardinale. 

Dai registri sappiamo che verso la fine del secondo decennio gli esecutori 
testamentari del senatore Giuliano Serragli ripresero i lavori nella cappella. Il 4 
settembre 1618 venivano pagati 40 scudi in acconto a Iacopo da Empoli per il di- 
pinto della cappella, il Sano di Isacco destinato alla destra dell’altare (fig. 15). 
Altri pagamenti si susseguirono negli anni a venire fino al 1626 quando Mono 
saldati i 325 scudi pattuiti e il dipinto fu collocato al suo posto8*. I documenti 
confermano quindi una datazione tra secondo e terzo decennio che coincide con 
quanto proposto dai più recenti studi. Non si esclude che anche l'Empoli al 
tempo della committenza di Giuliano nel primo decennio, abbia realizzato un 
modello poi rimasto come prototipo fortunato per la serie di repliche autografe 


8! Sui due bozzetti è una vasta bibliografia: L. Berti in Bozzetti, 1952 p. 10 n. 6 riferisce i due 


bozzetti a Allori; Bucci 1959, pp. 68 -69 è favorevole ad una attribuzione a Cigoli. 

#.Chelazzi Dini 1974 p. 26 n. 2 argomenta l’attribuzione a Cristofano rifacendosi agli antichi 
inventari a partire da quello del cardinale Carlo del 1666. L'attribuzione è sostenuta anche mediante il 
confronto con disegni preparatori (Pizzorusso 1982, pp. 38 -39 e Chappell 1984, pp. 67-69 n. 19.1). 

8 ASFi, Guardaroba medicea 758, cc. 21, 23v. Per la ricostruzione di tutti i passaggi inventariali 
dei due dipinti si rimanda a Chelazzi Dini 1974 pp. 25-26 nn. 1-2. 

84 ASFi, CRSGF 136 n. 79, cc. 5s, 113d, 2015; n. 67, cc. 55d, 93d, 120v, 123r; n. 72, cc. 471, 
48v, 52v, 53r. 

#5 Marabottini (1988 p. 249 n. 92), vede come improbabile per il dipinto dell'Empoli una data- 
zione precedente al 1615 -1618. 


364 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 





di questo soggetto*°. Tra 1625 e 1626 abbiamo i pagamenti per un ammontare di 
325 scudi, a Domenico Passignano: la sua Caduta della Manna firmata e datata 
1626* (fig. 16), fu in quell’anno collocata al posto che avrebbe dovuto essere 
occupato dalla Cena in Emmaus a sinistra dell’altare. 

Dopo il 1626 Giuliano si dedicò all’arredo della nuova casa di Via Buonfanti 
e della villa di Rovezzano: acquista dall’Empoli due tele con frutta e animali*, 
una Storia di Noè e una Pietà”. Tra 1631 e 1633 fa eseguire da Francesco Curradi 
una tela per la sala grande con la storia di Rinaldo e Armida”, ma è soprattutto il 
fratello di Curradi, Piero, anch'egli pittore che lavora tra gli anni Venti e Trenta 
per Giuliano, non solo realizzando diversi dipinti ma anche come impresario, 
una sorta di factotum, per l'allestimento della casa di Via Buonfanti?!. 

Negli stessi anni Giuliano si avvale di Francesco Curradi per le due tele delle 
pareti Lidi della cappella di San Marco, la Cena in Emmaus (fig. 17) e la Mol- 
tiplicazione dei pani (fig. 18), realizzate rispettivamente nel 1631-1633 e 1634- 
1637°. Nella Cena è evidente l’ispirazione dal soggetto dell’Allori - pur ripor- 
tando la scena principale nel primo piano - nell’ambientazione d’interno, nella 
disposizione e nella precisa citazione di alcune figure, come il coppiere a sinistra. 
De dipinto è conosciuto un bozzetto a monocromo, conservato presso il Museo 
Horne?. 

Contemporaneamente, nel settembre 1631 iniziarono i pagamenti a Ludovi- 
co Salvetti per due delle quattro statue della cappella, San Marco e San Matteo” 
(fig. 19a-b). Nell’aprile del 1634, le statue vennero collocate nelle nicchie a fianco 
dell’altare, come si evince dal pagamento agli operai che ne curarono la posa”. 
Come ha notato il Pizzorusso?°, Salvetti opera sulle due sculture una semplifica- 
zione dei volumi che conferisce loro un carattere arcaico, neotrecentesco. Non 
soddisfecero il committente che non affidò al Salvetti le altre due statue, prefe- 
rendogli, diversi anni dopo, Domenico Pieratti. Si riservò di relegarle in seguito 
in una posizione più defilata sulla parete di fronte all'altare: così si esprime nel 
testamento: “in caso che al tempo di mia morte non siano finite interamente le 
due statue di marmo di due evangelisti di Scultura, che presentemente si fanno 





86 


Sulle repliche e la fortuna del soggetto si veda Spinelli 2004, pp. 191-192. 

87. ASFi, CRSGF 136 n. 79 c. 4s, 201d. 

88 ASFi, CRSGF 136 n. 79 cc. 88d, 94s. Si tratta probabilmente di due tipiche nature morte 
empolesche con esposizione di frutta e animali, non identificate. 

8 ASFI, CRSGF 136 n. 79 c. 261d. I due dipinti furono pagati in tutto novanta scudi. Non sono 
identificati. La Storia di Noè, probabilmente l'episodio dell’Ebbrezza, fu più volte replicato dall'artista 
in dipinti di piccolo e grande formato (Spinelli 2004, p. 206 n. 52). 

% Il dipinto alla morte del Serragli nel 1648 fu venduto a Carlo Gerini e secondo la Ingendaay 
(2015, I p. 162) potrebbe essere riconosciuto in quello di collezione privata fiorentina pubblicato da 
Bellesi (2009, I, p. 117 fig. 370) 

% Piero Curradi dal 1626 riceve pagamenti per numerosi allestimenti nella casa nuova del Serragli 
e nel 1629 realizza l’arme dipinta Serragli-Venturi (ASFi, CRSGF 136 n. 67 c. 158v e altrove). 

9 ASFi, CRSGF 136 n. 79 cc. 16, 313, 335; n. 80 cc. 34s. Alcune rate per i dipinti erano spesso 
pagate “in natura”, con olio e grano. Sulle due tele si veda Cuzzocrea 1985, p. 124. 

93. Cantelli 1968, p. 21 n. 16. 

% ASFi, CRSGF 136 n. 79 cc. 16d, 334, 367, 372. 

95. ASFi, CRSGF 136 n. 79 c. 334d. 

9% Pizzorusso 1989, pp. 32 -33; su di esse si veda anche De Luca Savelli 1990, p. 267. 


365 


Gioia Romagnoli 





dal Signore Domenico Pieratti celebre scultore devino operare e procurare (i Pa- 
dri Filippini), che quelle restino in ogni maniera totalmente finite e perfezionate 
dentro i termine d'anni due dal giorno di mia morte quale si devino metter nella 
detta Cappella a canto l’Altar grande con levare le due simili che vi sono e quelle 
mettere in piè di detta Cappella nelle due Nicchie, che vi sono al dirimpetto””. 

Nel 1638 Giuliano si affida a Giovanni Bilivert, cui furono accordati scudi 
200 e richiesto un bozzetto preparatorio, per la realizzazione dell'ultimo quadro 
della cappella, San Paolo resuscita Eutico (fig. 20), un episodio legato all’Eucari- 
stia, avvenuto durante una messa di San Paolo?*. La tela, molto apprezzata dal 
committente, fu collocata al suo posto “dirimpetto al Sacramento” nell’aprile 
1644”, anno che figura anche sotto la firma del Bilivert. 

Il 20 giugno 1645 furono condotti nello studio di Domenico Pieratti i marmi 
per gli altri due evangelisti, San Luca (fig. 21a) e San Giovanni (fig. 21b)!°; le due 
sculture furono compiute e collocate nelle nicchie a fianco dell’altare del Sacra- 
mento nel luglio 1649, quando Giuliano Serragli era morto da più di un anno. 
Il Pieratti ricevette un compenso di trecento scudi, le ultime rate dei quali gli 
vennero pagate dai Padri Filippini di San Firenze, tramite Ferdinando Tacca!®, 

Si concludeva così la vicenda della cappella e quella terrena di Giuliano Ser- 
ragli; nel suo testamento un'ultima volontà riguardava la cappella: di terminare 
il ciborio “con pietre commesse”, iniziato dal padre ai primi del Seicento e la- 
sciato incompiuto nel convento di San Marco!®. Il ciborio fu fatto portare nella 
bottega del Pieratti; dopo la sua morte, avvenuta nel 1656, il fratello Giovanni 
Battista!, scultore sid avvisava gli oratoriani che “si trova appresso di sé e 
nella sua bottega il d.o Ciborio nel grado lo lasciò d.o Domenico” e chiedeva 25 
scudi “per intera e totale satisfatione e pagamento di quello ha lavorato e ope- 
rato detto Domenico intorno al Ciborio di marmo che gli diede a fare la Beata 
Memoria del S. Giuliano Serragli”!°; liquidati i venticinque scudi nel 1661 gli 
oratoriani ritirarono il ciborio ma esso non fu collocato sulla bella mensa d’altare 
in marmo della cappella del Sacramento in San Marco. 





97 


ACOSENEFI, n. 35 Testamento di Giuliano Serragli, c. 15; si legga in proposito anche l’aned- 
doto riportato da Giovanni Cinelli, citato da Pizzorusso 1989, p. 32. 

98. ASFi, CRSGF 136 n. 80, cc. 132s, 133, 268, 276; n. 73, cc. 86r, 96, 161v, 162, 174. La tela, 
descritta dal Baldinucci (IV, p. 309; si veda anche Contini 1985, p. 53) fu rimossa dalla cappella per 
far posto al monumento Poniatowski ed è stata rintracciata arrotolata nelle soffitte del convento pochi 
decenni fa (Paolozzi Strozzi 1998, pp. 48 — 53). La tela si trova oggi esposta nel Museo di San Marco. 

9 ASFi, CRSGF 136 n. 73, cc. 165v — 166r. 

100 ASFi, CRSGE 136 n. 74, c. 46r. 

101 ASFi, CRSGF 136 n. 74, cc. 571, 75; n. 81, c. 58; n. 82 cc. 36, 42. Sull’artista, e con riferi- 
mento alle sculture Serragli, si veda Pizzorusso 1985, p. 35; C. Pizzorusso in // Seicento fiorentino, 1986, 
Biografie, p. 145; Pizzorusso 1989, pp. 32 -33, De Luca Savelli 1990, p. 267. 

!2 ACOSENEFI, n. 35 Testamento di Giuliano Serragli, c. 15. Dai registri sappiamo che già prima 
del 1611 furono acquistate a Roma due “colonnette” in alabastro per il ciborio della cappella (ASFi, 
CRSGF 136 n. 67, c. 3s). 

105 Su Giovanni Battista Pieratti si veda S. Blasio in Repertorio 1993, I, p. 57. 

10 ASFi, CRSGEF 136 n. 82, c. 35. 


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La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
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maggio 1987), 3 voll. (Pittura. Disegno/Incisione/SculturalArti minori. Biogra- 
fe), Firenze 1986 

SPALDING ]., Santi di Tito, New York-Londra 1982. 

SrineLLI R., Soggetti biblici, letterari e poetici nell'opera di Jacopo da Empoli, in 
Jacopo da Empoli 1551-1640 Pittore d'eleganza e devozione, catalogo della mo- 
stra (Empoli, Santo Stefano degli Agostiniani marzo-giugno 2004), Cinisello 
Balsamo, 2004, pp. 183-213. 

TeuBNER H., San Marco in Florenz: umbauten vor 1500 ein beitrag zum werk del 
Michelozzo, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 
XXIII, 1979, 3, p. 239-272, 

TRrEzzANI L., Quadri romani in una raccolta fiorentina. Dipinti inediti della colle- 
zione Gerini in “Paragone” 2003, ser. 3, nn. 635-637, pp. 155-168. 


370 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 








Fig. 1: Mirabello Cavalori, 1568, San Tommaso d'Aquino e i confratelli in adorazione della Trinità, Fi- 
renze, Oratorio di San Tommaso d'Aquino (temporaneo deposito presso Gallerie degli Uffizi, depositi) 


371 


Gioia Romagnoli 


Fig. 2: Goro Vasari il Giovane, Planimetria della chiesa e convento di San Marco, part. della chiesa con 
le cappelle del transetto, Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe A4861. 


372 





La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 








Fig. 3: Veduta del vestibolo della cappella Salviati, Firenze, San Marco. 


373 


Gioia Romagnoli 








Fig. 4: Interno della cappella del Sacramento, veduta verso l’altare, Firenze, San Marco. 


374 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 











Fig. 5: Ludovico Cigoli, Portale della cappella del Sacramento, Firenze, San Marco. 


375 


Gioia Romagnoli 








Fig. 6a e b: Ludovico Cigoli, 1595 circa, Progetti per il portale della cappella di Sacramento, Firenze, 
Gallerie degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe 2603A r e v. (su concessione del Ministero per i beni 
e le attività culturali e per il turismo) 


376 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 











Fig. 7: Ludovico Cigoli, 1595 circa, Progetto per il portale della cappella di Sacramento, Firenze, Gallerie 
degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe 2640A. (su concessione del Ministero per i beni e le attività 
culturali e per il turismo) 


377 


Gioia Romagnoli 








Fig. 8: Cerchia di Ludovico Cigoli, 1607 circa, Progetto per il portale della cappella di Sacramento, Firen- 
ze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe 2601A. (su concessione del Ministero per i beni e 
le attività culturali e per il turismo) 


378 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 








Fig. 9: Santi di Tito, 1599, Bernardino Poccetti, 1604-1606 circa, Cristo tra allegorie eucaristiche, volta 
della cappella del Sacramento, Firenze, San Marco. 


379 


Gioia Romagnoli 








Fig. 10: Giovanni Bilivert, Miracolo del pane di San Giacinto, Roma, Finarte 1988. 


380 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 


Fig. 11: Santi e Tiberio Titi, 1599-1610 circa, Comunione degli Apostoli, cappella del Sacramento, Firen- 
ze, San Marco. (su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo) 


381 





Gioia Romagnoli 








Fig. 12: Bottega di Tiberio Titi (attr.), 1612-1613, Ritratti di Ludovico, Lucrezia e Tommaso (Giuliano) 
Serragli, Londra, Bonhams 2004. 


382 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 








Fig. 13: Cristofano Allori, 1607-1610, Cena in Emmaus, Firenze, Gallerie degli Uffizi, depositi (inv. 
1890 n. 1507). (su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo) 


383 


Gioia Romagnoli 








Fig. 14: Cristofano Allori, 1607-1610, Cena in Emmaus, Firenze, Galleria Palatina (inv. Palatina 1912 
n. 303). (su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo) 


384 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 








Fig. 15: Jacopo da Empoli, 1618-1626, Sacrificio d’Isacco, cappella del Sacramento, Firenze, San Marco. 
(su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo) 


385 


Gioia Romagnoli 








Fig. 16: Domenico Passignano, 1625-1626, Caduta della manna, cappella del Sacramento, Firenze, 
San Marco. (su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo) 


386 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 








Fig. 17: Francesco Curradi, 1631-1632, Cena in Emmaus, cappella del Sacramento, Firenze, San Marco. 
(su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo) 


387 


Gioia Romagnoli 








Fig. 18: Francesco Curradi, 1634-16 Moltiplicazione dei pani, cappella del Sacramento, Firenze, San 
Marco. (su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo) 


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La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 








Fig. 19a, b: Ludovico Salvetti, 1631-1634, San Marco, San Matteo, cappella del Sacramento, Firenze, 
San Marco. 


389 


Gioia Romagnoli 








Fig. 20: Giovanni Bilivert, 1638-1644, San Paolo resuscita Eutico, i del Sacramento, Firenze, San 
Marco. (su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo) 


390 


La costruzione e decorazione della cappella del Sacramento 
in San Marco a Firenze e i suoi committenti 











Fig. 2la, b: Domenico Pieratti, 1645-1649, San Luca, San Giovanni, cappella del Sacramento, Firenze, 
San Marco. 


391 


“Lappeggio è bello e buono: è il centro, è il soglio 
Delle delizie: e dirlo un paradiso”. 
Famigli e familiari nella quadreria del cardinale Francesco 


Maria de’ Medici 





RICCARDO SPINELLI 


Ubicata su un dolce declivio delle colline prossime al borgo di Grassina, aftac- 
ciata sulla valle del torrente Ema, la villa di Lappeggi (fig. 2) - in antico di pro- 
prietà Bardi, poi Gualtierotti, Bartolini Salimbeni, infine Ricasoli, passata da pa- 
trimonio mediceo per l'acquisto operato nel 1569 da Francesco I° - fu residenza 
preferita di almeno tre eminenti personaggi della famiglia granducale di Toscana. 

Il primo fu il principe Mattias di Cosimo II (1613 — 1667) che la occupò a 
partire dal 1640? fino alla morte, provvedendo anche ai primi restauri della strut- 
tura, ai decori e agli arredi interni, arricchendola convenientemente secondo il 
peculiare gusto mediceo'*. 

Il secondo esponente della famiglia Medici che ebbe la ventura di abitare la 
villa fu il principe-cardinale Francesco Maria (1660-1711; fig. 1), secondogenito 
di Ferdinando II e di Vittoria della Rovere, il quale, avutane la disponibilità dal 
fratello granduca per ben quarant'anni, dal 1670 alla scomparsa, la elevò a vera 
e propria reggia quale la tramandano gli inventari degli arredi, le vedute sette- 
centesche degli esterni e dei giardini, quello che rimane, oggi, dei decori murali 
interni dovuti ai principali artefici fiorentini attivi tra lo scorcio del XVII secolo 
e il primo decennio del successivo?. 





1 G.B. Fagiuoli, ed. in G. Palagi La villa di Lappeggi e il poeta Gio. Batt. Fagiuoli, Firenze, 
1876, p. 38. 

2 G. Palagi La villa di Lappeggi, cit., pp. 6, 10 e nota 2; I. Lapi Ballerini, Le ville medicee. Guida 
completa, Firenze, 2003, pp. 100-102. L'aspetto dell’edificio allo scorcio del Cinquecento lo si veda in 
una delle lunette dipinte da Giusto Utens per il salone della villa ‘La Ferdinanda’ ad Artimino; cfr. D. 
Mignani, Le Ville Medicee di Giusto Utens, Firenze, 1993, pp. 40-41, 82-85. 

3. Palagi, La villa di Lappeggi, cit., p. 7; E. Gavilli, Lappeggi, luogo di delizie del serenissimo principe 
Mattias, in “Arte Musica Spettacolo. Annali del Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo”, I, 
2000, p. 257; R. Spinelli, Un ritratto mediceo di Giovan Battista Vanni, Signa, 2013, p. 7. 

4 Sulla villa al tempo di Mattias e sul suo arredo, cfr. Palagi, La villa di Lappeggi, cit., p. 8 e nota 1; 
Gavilli, Lappeggi, luogo di delizie, cit., pp. 257-286; R. Spinelli, Lettere su una committenza Niccolini a 
Rutilio Manetti (e note d'archivio sul collezionismo mediceo di pittura senese del Sei e Settecento), in “Arte 
Musica Spettacolo. Annali del Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo dell’Università degli 
studi di Firenze”, III, 2002, pp. 179-202; N. Barbolani di Montauto, Un principe guerriero, in Fasto 
di Corte. La decorazione murale nelle residenze dei Medici e dei Lorena, volume II, L'età di Ferdinando II 
de’ Medici (1628-1670), a cura di M. Gregori, Firenze, 2006, pp. 221-222; R. Spinelli, Angelo Michele 
Colonna e Agostino Mitelli in Toscana e in Spagna (1638-1663), Pisa, 2011, pp. 30, 32, 49; Spinelli, Un 
ritratto mediceo, cit., pp. 1-32. 

° Sulla villa al tempo del principe-cardinale, cfr. di G. Palagi, La villa di Lappeggi, cit., passim; N. 


393 


Riccardo Spinelli 





Il terzo abitante mediceo di Lappeggi fu la Gran Principessa Violante Beatrice 
di Baviera (1673 - 1731), vedova dell'erede al trono Ferdinando di Cosimo III 
e di Marguerite Louise d'Orléans (morto nel 1713), cui la assegnò in uso il suo- 
cero granduca, grazie alla quale la residenza vide ancora un periodo di splendore 
dovuto all’intelligenza e alla raffinatezza della ‘tedeschina’ — come la chiamavano 
i fiorentini — e dell'ambiente culturale che le faceva da corona”. 

Dei tre personaggi sopra elencati, quello che tuttavia utilizzò maggiormente e 
più a lungo la villa, impiegando nel suo mantenimento e miglioramento somme 
ingenti, fu il dna che la elesse da subito residenza favorita rispetto 
all'appartamento in suo utilizzo in Palazzo Pitti, al Palazzo mediceo di Siena — 
città della quale il principe era governatore dal 1683” —, alle residenze di famiglia 
a Roma, il Palazzo Madama e la Villa Medici al Pincio. 

Il suo interesse per Lappeggi fu infatti precoce: appena decenne lo vediamo 
soggiornare in villa accompagnato dalla madre — che almeno fino alla maggiore 
età ne controllò le spese, pagando per suo conto fatture e conti poi conguagliati 
tra le due amministrazioni — e da uno stuolo di gentiluomini, così come acqui- 
stare le prime opere d’arte per arredarla, piante e fiori per la sistemazione dei 
giardini”. Dotato fin da bambino di ampie rendite ecclesiastiche e pensioni — già 
nel 1666, a sei anni d’età, ottenne il priorato dell'Ordine Gerosolimitano di Pisa 
— il principe ricevette una ferrea preparazione ad opera d’uno stuolo di educatori 
diretti dall’“aio” conte Filippo Pannocchieschi d’Elci, ben articolata e d’alto profi- 
lo, comprendente lo studio delle scienze matematiche e fisiche, della storia, della 
geografia, delle lettere, delle lingue straniere (spagnolo e francese), di scrittura?, 


Barbolani di Montauto, La villa di Lappeggi: il Tempo e la Fama nelle stanze del cardinale, in Fasto di cor- 
te. La decorazione murale nelle residenze dei Medici e dei Lorena, volume III, L'età di Cosimo II de’ Medici 
e la fine della dinastia (1670-1743), a cura di M. Gregori, Firenze, 2007, pp. 141-161 (con bibliografia 
precedente); E. Masiello, La Villa Medicea di Lappeggi. Fasti e vicissitudini di un capolavoro umiliato, in 
“Medicea”, 5, 2010, pp. 30-39; R. Spinelli, / giardini di Lappeggi, di Lilliano e la pittura ‘di fiori” nelle 
collezioni del principe cardinale Francesco Maria de’ Medici, in “Bollettino della Accademia degli Euteleti 
della città di San Miniato”, n. 86, 2019, pp. 291-319 (con bibliografia precedente), 

6 Cfr. Palagi, La villa di Lappeggi, cit., pp. 78-83. Un’attenta e puntuale disamina degli interessi 
culturali della principessa, teatrali e non solo, si deve a L. Spinelli, // principe in fuga e la principessa 
straniera. Vita e teatro alla corte di Ferdinando de’ Medici e Violante Beatrice di Baviera (1675-1731), 
Firenze, 2010. Si vedano inoltre, sulla principessa, la monografia di D. Balestracci, Violante Beatrice 
Gran Principessa di Baviera. Vita e storia di una donna di confine, Siena, 2010; L. Spinelli, Violante di 
Baviera e gli ultimi divertimenti di una dinastia, in “Valori tattili”, V, nn. 3-4, 2014, pp. 114-125 [atti 
del Seminario di studi Ferdinando di Cosimo III de’ Medici, Gran Principe di Toscana, e Violante Beatrice 
di Baviera (Firenze, Biblioteca degli Uffizi, 25 gennaio 2014), a cura di R. Spinelli]; S. Benassai, ra le 
carte di Violante. Note sul mecenatismo della Gran principessa di Toscana, ivi, pp. 80-112. Per un breve 
periodo la villa fu anche residenza della granduchessa Marguerite Louise d'Orléans, moglie di Cosimo 
III, avanti il suo ‘divorzio’ dal sovrano e il suo rientro a Parigi; cfr. H. Acton, Gli ultimi Medici (London, 
1932), ed. Torino, 1962, pp. 84-85. Sulla principessa si veda adesso V. Lagioia, «La verità delle cose». 
Margherita Luisa d'Orléans donna e sovrana dell’ancien régime, Roma, 2015; R. Spinelli, Giovan Battista 
Foggini, Zhe Portrait of Marguerite Louise of Orléans Grand Duchess of Toscany, Trinity Fine Art, Seggiano 
di Piontello, 2019. 

7. M.P Paoli, Medici, Franceso Maria, voce in “Dizionario biografico degli italiani”, 73, Roma, 
2009, p. 53. 

8 Cfr. Spinelli, / giardini di Lappeggi, di Lilliano, cit., p. 293 (con bibliografia precedente). 

° Tra questi, Filizio Pizzichi fu il maestro di francese; Giovan Battista del Vertaglia di spagnolo, 


394 


“Lappeggio è bello e buono: è il centro, è il soglio. Delle delizie: e dirlo un paradiso”. 
Famigli e familiari nella quadreria del cardinale Francesco Maria de Medici 





forgiandone così i molteplici interessi!’ 

Alcuni di questi, in conseguenza della formazione avuta, trovarono sfogo nel 
teatro — praticato anche a Lappeggi dove si ha notizia di continui 2. così 
come di fondali e costumi per la loro messa in scena nel teatrino appositamente 
costruito!! - facendo diventare il principe il patrocinatore di diversi sodalizi di 
teatranti non solo fiorentini, come quello degli Affinati che si riuniva ed operava 
nel Casino Mediceo a San Marco, ma anche di altri, attivi in numerosi centri 
toscani!?. Oppure nella passione per la scienza e, in particolare, per il mondo ve- 
getale che lo portò ben presto a dar vita a solenni giardini formali circostanti Lap- 
peggi e il ‘casino’ di Lilliano, e ad organizzare in villa un’attrezzatissima ‘fonderia’, 
un'officina specializzata nella quale uno stuolo di lavoranti, diretti e sovrintesi dal 
principe - che vi si impegnava personalmente — manipolavano fiori, frutta, radici, 
tuberi per ricavarne profumi, medicamenti, alimenti e altro!!. 

La natura godereccia di Francesco Maria, sulla quale concordano tutte le fonti 
contemporanee!“, il carattere faceto e pronto allo scherzo, la passione per la ta- 
vola, l'indole disincantata, il gradimento pieno dell’agiatissima vita che la con- 
dizione ecclesiastica gli permetteva — nel 1686 al principe venne concesso anche 
il galero cardinalizio da papa Innocenzo XI Odescalchi”, dignità che lo rese ben 
presto potentissimo in curia quale protettore delle corone d'Austria, di Spagna, 
di Francia, degli ordini servita e vallombrosano!° — consentirono la pronta cre- 
azione, a Lappeggi, d'una corte composita e molto articolata della quale fecero 
parte anche personaggi particolari nei modi e nei caratteri, ricercati dallo stesso 
principe, scanzonati e pronti alle burle, fedelissimi del loro protettore che era 
solito coprirli di gratificazioni, fossero questi i mozzi di stalla, i giovani che lo 
accompagnavano a prendere i bagni nel vicino Arno o nelle cacce che duravano 


Valerio Spada si incaricò invece della calligrafia; cfr. Spinelli, ivi, p. 305 e nota 133. Sugli educatori del 
principe, cfr. anche Paoli, Medici, Francesco Maria, cit., p. 53. 

!° Su questo, cfr. Paoli, Medici, Francesco Maria, cit., pp. 53-55. 

!! Palagi, La villa di Lappeggi, cit., pp. 49-50; Acton, Gli ultimi Medici, cit., p. 228. Nello ‘Stan- 
zone dei vasi’ della villa risultavano presenti un palco da commedie con vari scenari e fondali dipinti da 
Francesco Botti e da Giuseppe Del Moro, e una tenda di mano del Faini; cfr. ASFi, CCSGB, IV serie, 
n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, Botteghe e Giardini, attenenti al già 
Serenissimo Principe Francesco Maria di gloriosa memoria 1710 ab Inc” (l'inventario inizia il 28 febbraio 
1711 stile comune), c. 1071, n. 1490. 

S. Vuelta Garcia, Accademie teatrali nella Firenze del Seicento. L'Accademia degli Affinati o del 
casino di San Marco, in “Studi secenteschi”, XLII, 2001, pp. 357-376; E. Fantappiè, «Un garbato fratello 
et un garbato zio». Teatri, cantanti, protettori e impresari nell’epistolario di Francesco Maria de Medici 
(1680-1711), Tesi di Dottorato in Storia dello Spettacolo, Università degli Studi di Firenze, 2004; E 
Fantappiò, Per una rinnovata immagine dell'ultimo cardinale mediceo. Dall'epistolario di Francesco Maria 
de Medici (1660-1711), in “Archivio Storico Italiano”, CLXVI, 3, 2008, pp. 495-531; Paoli, Medici, 
Francesco Maria, cit., pp. 53, 55; F. Fantappiè, Dalla corte agli impresari. Giovan Battista Tamburini: 
strategie di carriera di un contralto tra Sei e Settecento, in “Musica e storia”, XVII, 2, 2009, pp. 293-352. 

1. Su questo, sulla ‘Fonderia’ deputata alla manipolazione dei vegetali, cfr. Spinelli, / giardini di 
Lappeggi, di Lilliano, cit., pp. 303-305; cfr. anche Acton, Gli ultimi Medici, cit., pp. 230-231. 

1 Fagiuoli in Palagi, La villa di Lappeggi, cit., passim, e la sintesi della storiografia antica fatta da 
Acton, Gli ultimi Medici, cit., pp. 227-235. 

5 Paoli, Medici, Francesco Maria, cit., p. 54 (nel corso del concistoro del 2 settembre). 

!6 Ivi, p. 54; Acton, Gli ultimi Medici, cit., pp. 227, 235. 


395 


Riccardo Spinelli 





intere giornate!” 

D’alcune di queste figure, in genere basso personale di servizio, tuttavia ap- 
prezzato dal principe per la spontaneità dei modi e la semplicità dei comporta- 
menti, ci ha lasciato saporite descrizioni il poeta Giovan Battista Fagiuoli che 
fu uno degli intellettuali facenti parte della corte ‘alta’ di Francesco Maria — suo 
‘Aiutante di Camera"!* -, solito trovarsi in villa se vi soggiornava il cardinale, 
talvolta ospite della sua tavola, gradito “per la continua festività della sua conver- 
sazione”, pronto a ‘cantare’, con autorevolezza, le delizie di questa mirabolante 
residenza voluta dal cardinale!?, a scrivere per lui commedie, scene improvvisate, 
componimenti che scatenavano il riso e il divertimento degli ospiti presenti?0. 
Ospiti che venivano spesso fatti oggetto di burle e tiri mancini da parte del prin- 
cipe, scherzi ben orchestrati che tuttavia avevano comunque un lieto fine. 

Celebre quello fatto a dei “cavalieri forestieri” in visita a Lappeggi per vedere 
la villa e, soprattutto, i sensazionali giardini, già famosi al tempo per la straordi- 
naria raccolta di piante d’agrumi, una delle quali, più grande e rigogliosa delle 
altre, attirava sempre l’attenzione dei presenti a danno dei tanti altri alberi che 
venivano inevitabilmente ignorati. Il cardinale, osservando la scena di nascosto, 
risentito da tanta preferenza ordinò a un suo “mozzo di camera”, tale Bista — il 
Bista (Battista) di Spaurito del quale si vedeva in villa anche un ritratto di mano 
del pittore parmense Antonio Ugolini?! - d’abbatterla creando sconcerto nei giar- 
dinieri che, accorsi sul posto, temettero l’ira del cardinale che aveva per quella 
pianta “l’occhio diritto”. Comparsi in sua presenza, discolpandosi tra le lacrime 
di quanto avvenuto, sentirono candidamente confessare il principe, sornione e 
compiaciuto, d'essere stato lui il colpevole di tale misfatto nato dalla troppa bel- 
lezza della pianta, bellezza che minimizzava il pregio delle altre??. 

Non meno spassosa la burla dell’asinello hw cucinare dalle abili mani dei 
cuochi della villa per i cortigiani presenti tra i quali sedevano quel giorno, oltre 
al principe, due senatori e un consigliere di Stato — e per dei preti ghiottoni di 
Firenze, indicati in proposito dal cappellano di Francesco Maria, Lorenzo Ben- 
cini -, cortigiani che, in ossequio alla piaggeria di corte e all’ospitalità ricevuta, 
mostrarono di gradire (inconsapevoli) le pietanze servite, meno quando si videro 
posare sulla tavola, tra le battute del cardinale e le risate dei pochi che erano al 
corrente dello scherzo, la testa e i piedi sanguinolenti dell’asinello che si erano 
appena ingurgitato?: tra i commensali era anche il Fagiuoli che prese spunto per 
raccontare, in versi, l'episodio del quale era stato divertito testimone?*. 

Tali scherzi, orchestrati dal cardinale, avevano come vittime privilegiate il per- 
sonale ‘basso’ di casa, quella schiera di servi variamente impiegati, tutti disposti 





7 Fagiuoli, ed. in Palagi, La villa di Lappeggi, cit., pp. 22-23; Acton, Gli ultimi Medici, cit., p. 
228. 
Palagi, La villa di Lappeggi, cit., p. 10. 
Fagiuoli, ed. in Palagi, La villa di Lappeggi, cit., pp. 12-14. 

20. Ivi, pp.9 e nota 2, 23-24, 49-50; Acton, Gli ultimi Medici, cit., p. 228. 

2! Cfr. Spinelli, Note sul collezionismo del principe-cardinale, cit., pp. 100-101 note 47-61. Su 
questo personaggio particolarmente caro al cardinale, cfr. anche Acton, Gli ultimi Medici, cit., p. 230. 

22 Palagi, La villa di Lappeggi, cit., pp. 17-18; Acton, Gli ultimi Medici, cit., p. 232-233. 

23 Palagi, La villa di Lappeggi, cit., pp. 32-34. 

2 Ivi, pp. 34-36. Acton, Gli ultimi Medici, cit., pp. 231-232. 


396 


“Lappeggio è bello e buono: è il centro, è il soglio. Delle delizie: e dirlo un paradiso”. 
Famigli e familiari nella quadreria del cardinale Francesco Maria de Medici 





a farsi dileggiare per qualche scudo, consapevoli che la benevolenza del princi- 
pe avrebbe sempre garantito loro un pasto e un alloggio nelle dipendenze della 
villa. Sembra di Li inorridire ai tiri del principe: ad esempio nell’aprire un 
armadio “tinto di nero e tocco d’oro” - quindi un mobile d’un certo pregio, forse 
contenente qualche oggetto prezioso che erano soliti trafugare?? — messo ad arte 
per suscitare la loro curiosità e cupidigia, e trovarvi dentro, invece, un diavolo?°. 

A Lappeggi si faceva il possibile per svagarsi e rendere la permanenza amena: 
ai pranzi luculliani di cui s'è detto, che vedevano partecipe anche la ‘brigata’ 
ki cardinale, sabbinavano altri eventi ludici, i pretesti per i quali erano quanto 
mai vari: il compleanno del principe e la ricorrenza del santo cui era dedicata la 
cappella del borghetto limitrofo alla villa — Maria Maddalena de’ Pazzi — porta- 
vano a Lappeggi gran folla dal circondario per partecipare alla fiera, ammirare i 
burattinai, gli astrologhi, i suonatori di vari strumenti lì convenuti, la corsa dei 
cavalli — un palio -, il gran ballo finale?7. 

Ma anche nel corso dell’anno i divertimenti in villa non mancavano; in gene- 
re, dopo il pranzo, si era soliti passeggiare nei giardini ammirandone l'elegante 
disegno e se il cardinale era impossibilitato a partecipare a queste camminate per 
i suoi annosi problemi fisici, si limitava ad osservare dal terrazzo della villa lo 
sciamare degli ospiti. In questa circostanza il divertimento del principe era quello 
d’attizzare alla rissa i lacchè, i servi, i contadini ai quali gettava, nel corso degli 
scontri, manciate di scudi incitandoli a una sempre maggiore ferocia, ridendo a 
crepapelle?8. Altre volte, se in salute, Francesco Maria partecipava invece ai loro 
divertimenti giocando a pallone e a palloncino, alla palla a corda, finendo poi la 

iornata in villa, per le Lie al trucco e alla bassetta??, creando così quella fami- 
Farità - pur tra ceti sociali ben diversi - che lo porterà a volere, sulle pareti della 
villa, le effigi di parecchi di questi curiosi personaggi. 

Di tanti di loro, come s'è detto in altra occasione?9, si conservavano infatti a 





2. Forse non diverso da quello ricordato nella “stanza dipinta che passa nella libreria”, segnata n. 


9, contenente preziosi oggetti in cristallo, in pietra, profumiere, bicchieri e altro; ASFi, CCSGB, IV 
serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., c. 7. Sui continui ladrocini 
operati dai servi in villa, accettati con bonarietà dal cardinale, cfr. Acton, Gli ultimi Medici, cit., pp. 
229-230. 

26. ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
c. 81v, Camera n. 58, n. 1073. 

2. Palagi, La villa di Lappeggi, cit., pp. 54-62. 

28. Palagi, La villa di Lappeggi, cit., p. 46; Acton, Gli ultimi Medici, cit., pp. 228-229. 

2 Palagi, La villa di Lappeggi, cit., pp. 46-50. 
Cfr. Spinelli, Note sul collezionismo del principe-cardinale Francesco Maria de’ Medici. Nuovi 
documenti su Andrea Scacciati, Pietro Dandini, Francesco Corallo, Antonio Ugolini, Livio Mehus, Niccolò 
Cassana, Balthasar Permoser, Gaetano Giulio Zumbo e altri, in “Predella”, n. 8, 2013, pp. 89-90. Una 
prima indicazione relativa a questa particolare attività del pittore è in S. Meloni, La Collezione Iconogra- 
fica, in Gli Uffizi. Catalogo generale, Firenze, 1980, p. 601, ripresa e puntualizzata da L. Sebregondi, in 
San Lorenzo. I Tesori Nascosti. Testimonianze di Arte, Storia, Devozione, catalogo della mostra (Firenze, 
Sotterranei di San Lorenzo, 25 settembre - 12 dicembre 1993) a cura di L. Bertani, E. Nardinocchi, L. 
Sebregondi, Venezia, 1993, pp. 220-222, n. 5.9, che pubblica anche uno stendardo dipinto con ‘Estasi 
di San Francesco’ (oggi presso la Curia vescovile di Firenze) realizzato dall’artista nel 1700 su incarico 
del cardinale e da questi donato, nel 1703, alla Compagnia delle Stigmate in San Lorenzo della quale il 
prelato era protettore dal 1699. 


30 


397 


Riccardo Spinelli 





Lappeggi e nelle dipendenze i ritratti che simmaginano resi ancora più pittore- 
schi dagli abiti come dalle caratteristiche o. che trovavano riscontro 
nell’uso, tutto italiano, e toscano in pena di etichettare le persone con no- 
mignoli o soprannomi alludenti alle particolarità del corpo, oppure legate all’im- 
piego solitamente prestato in corte: oltre il già ricordato Bista, 0 d’un servo 
o contadino detto ‘Lo Spaurito”, si vedevano appesi in villa il duplice ritratto (di 
mano di un certo Berti) di ‘Cecchino e di Selim - il secondo, probabilmente 
un convertito - mentre il nucleo più importante di effigi di questi coloriti perso- 
naggi risultava appeso nella ‘sala degli Staffieri’ di Lappeggi. In questa stanza si 
censivano infatti il Ritratto di Riccio “sportarolo”, quello del Menabuoni, quelli 
con il Lungo e il Panone, con Borraccinio e Catastino, tutti dovuti al pennello 
dell’Ugolini?. 

All’artista di origine parmense, particolarmente apprezzato da Francesco Ma- 
ria”, l'inventario assegnava anche altre tele sempre visibili in questa stanza: quella 
con un ‘Cacciatore che dava del pane ai cani’? — si ricorda che in villa si praticava 
un'intensa attività venatoria, artefice il cardinale con ospiti e parenti tra i quali 
il nipote Gran Principe Ferdinando, suo coetaneo (nato nel 1663) e compagno 
di tante bisbocce?’ e l’altro nipote Giovanni Gastone, e che esisteva un canile 
per i cani da caccia” -, altre quattro genericamente individuate come ritratti 
dei “venturieri della corte”, infine un “Turco in atto di mangiare del riso’ e un 
‘Armeno a sedere’, anche se questi due ultimi dipinti non è certo raffigurassero 
personaggi del composito seguito del principe — al pari di un ‘Ritratto di uno 
schiavo’, sempre di mano dell’Ugolini, appeso nella Caffehous?, e di un'altra 
tela con un ‘Armeno’ - trattandosi forse soltanto di tele con soggetti variamente 





31 ASFIi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
n. 58. 

82 Ivi, rispettivamente nn. 787, 794 (quello con Bista, abbinato nella tela a Michele Fratini), 795, 
796, 797. Il Catastino (al secolo Pier Antonio Catastini) ebbe anche modo di figurare come comparsa, 
insieme ad altri staffieri e lacchè medicei, in opere in musica fatte recitare dal Gran Principe Ferdinando 
nella villa di Pratolino: ne // tiranno di Colco, su libretto di Giovanni Moniglia e musiche di Giovanni 
Maria Pagliardi (1688), e nel Marco Aurelio, con testo di Matteo Noris e musiche probabilmente di 
Pagliardi (1691). Su questo, cfr. L. Spinelli, Cantar fuori porta. Storia, spettacoli e protagonisti del teatro 
mediceo di Pratolino (1679-1710), Firenze, 2020, pp. 136, 145. 

3 Per una prima ricognizione sull’attività del pittore per il cardinale Francesco Maria cfr. R. Spi- 
nelli, Note sul collezionismo del principe-cardinale, cit., pp. 89-90. 

3 Dipinti con alcuni ritratti di personaggi della corte del Gran Principe Ferdinando in veste 
di cacciatori (Alberto Tortelli, Giuliano Baldassarini detto ‘“Zigolino’, Ferdinando Ridolfi, il cantante 
Cecchino de Castris) vennero da questi richiesti nel 1694 al pittore Niccolò Cassana; cfr. V. Conticelli, 
in // Gran Principe Ferdinando de’ Medici (1663-1713). Collezionista e mecenate, catalogo della mostra 
(Firenze, Galleria degli Uffizi, 26 giugno - 3 novembre 2013) a cura di R. Spinelli, Firenze, 2013, p. 
360, n. 86. 

8 Acton, Gli ultimi Medici, cit., p. 158. 

36 Ivi, p. 198. 

8. Cfr. Spinelli, / giardini di Lappeggi, di Lilliano, cit., pp. 295, 301-302. 

38 ASFIi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
rispettivamente ai nn. 786, 790-793, 788, 798. 

39. Ivi, n. 1489. 

4° Ivi, n. 245. 


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“Lappeggio è bello e buono: è il centro, è il soglio. Delle delizie: e dirlo un paradiso”. 
Famigli e familiari nella quadreria del cardinale Francesco Maria de Medici 





‘esotici’, ben presenti, peraltro, nelle collezioni granducali”!. Con questa valenza 
non è escluso si debbano considerare anche altre quattro tele dovute al pennello 
del “Cavalier Farella” - il napoletano Jacopo Farella (1624-1706), presente nelle 
raccolte cardinalizie con altre opere‘ — che vedevano raffigurati degli schiavi in- 
tenti a tagliar tabacco, fare il caftè, fare le calze e scrivere, censite in una camera al 
piano terreno della residenza”. 

In villa, nel seguito del principe, non potevano certo mancare i nani: si ha 
infatti notizia della presenza, in effige, del “Minnelli” dipinto dal Berti e del 
“Bortolino” dovuto invece al pennello di Atanasio Bimbacci”? - altro artista pre- 
ferito dal principe“° -, così come di un gruppo di dipinti analoghi nel soggetto per 
i quali resta però ambigua la loro identificazione quali ritratti di personaggi reali, 
presenti a Lappeggi, a fronte di quella, più probabile, di tele ‘di genere’: in questa 
condizione si ricordano un dipinto con un ‘Nano a sedere che nutre una cerva”” 
e una serie di cinque dipinti, di “incerto autore”, sempre raffiguranti dei ‘nani’8, 

In villa si vedevano poi altri ritratti di personaggi che gravitavano, o aveva- 
no gravitato attorno a quei membri di Casa Medici che abitarono Lappeggi: al 
tempo di Mattias sembrano collegabili una serie di effigi dovute al pittore senese 
Giuliano Periccioli — attivo per il principe’ - tra le quali una con “Valentino 
Gonfia e i suoi compagni bicchierai” ritratti all'opera, un dipinto con “Musici e 
suonatori”, un altro con “Due donne musiche e un suonatore”, infine un ritrat- 
to della “Cice musica” — questo di autore incerto?! -, a evidenza una delle virtuose 
ben presenti nell’enzourage mediceo del tempo, ad esempio quello del fratello di 
Mattias, il cardinale Giovan Carlo”. 


4! Su questo e, più in generale, sui ritratti di personaggi ‘diversi’ d’etnia, di rango sociale o con 


caratteristiche psico-fisiche particolari si veda A/ servizio del granduca, catalogo della mostra (Firenze, 
Palazzo Pitti, Sala Bianca, 24 luglio-21 settembre 1980) a cura di S. Meloni Trkulja, Firenze, 1980, pp. 
14, 27, 33-35, 45. Più recentemente cfr, Buffoni, villani e giocatori alla corte dei Medici, catalogo della 
mostra (Firenze, Palazzo Pitti, Andito degli Angiolini, 19 maggio — 11 settembre 2016) a cura di A. 
Bisceglia, M. Ceriana, S. Mammana, Livorno, 2016. 

4 ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, c. 32r, nn. 312 (“Un quadro che rappresenta un ammalato 
con medico che li tasta il polso, alto braccia 2 e 1/2, largo 3 e 2/3 del cav.re Farella”), 313-315 (Altri tre 
quadri compagni al suddetto del suddetto Farella”). 

4. ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
nn. 83-86. 

“#  Tvi,n.57 

4 Ivi, n. 1142. 

46 Sulla preferenza accordata dal principe a questo artista, cfr. R. Spinelli, Livio Mehus, Pandolfo 
Reschi, Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo nelle collezioni del principe-cardinale Francesco Maria de’ 
Medici: nuove opere e inediti documenti, in corso di pubblicazione. 

47 ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
n. 1274. 

48. Ivi, nn. 246-250. 

9 Gavilli, Lappeggi, luogo di delizie, cit., p. 260. 

5% ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
rispettivamente ai nn. 354, 355, 356. 

51 Ivi, n. 357. 

2. Su quest’argomento si vedano W. Kirkendale, Zhe Court Musicians in Florence during the Prin- 
cipate of the Medici. With a Reconstruction of the Artistic Establishment, Firenze, 1993, pp. 651-654; T. 


Megale, // principe e la cantante. Riflessi impresariali di una protezione, in Per Ludovico Zorzi, a cura di 


399 


Riccardo Spinelli 





In villa si ricordavano poi i ritratti di altri personaggi in collegamento con quel- 
la corte, pur con ruoli non meglio specificati: quello d'una “signora Giacomini”, 
d’un certo Artimini e della moglie (questi due opera di Justus Suttermans)?f — 
l’uomo era probabilmente fratello di Maddalena Artimimi, moglie del grande 
ritrattista fiammingo dalla quale nel dicembre del 1680 Francesco Maria aveva 
comprato “due ritratti” di mano del maestro” -, di “Francesco Camerati”?, un 
collezionista i cui eredi, alla sua morte, vendevano al principe nel novembre del 
1680 una serie di dipinti?” tra i quali il ritratto in questione che veniva incornicia- 
to dall’intagliatore Antonio Montini nel maggio dell’anno successivo58?8. 

Vi comparivano inoltre alcuni autoritratti di pittori: di Andrea del Sarto59”, 
di Leonardo da Vinci (dipinto che sarà poi lasciato in eredità dal cardinale al fra- 
tello granduca), di Michelangelo Buonarroti, del Suttermans®, di Tiziano”, 
ben due di Livio Mehus® (altro artista particolarmente apprezzato da Francesco 
Maria), d’una misteriosa “donna pittora in atto di dipingere” sempre di mano 





S. Mamone, in “Medioevo e Rinascimento”, VI, n.s., III, 1992, pp. 211-233: T. Megale, Altre novità 
su Anna Francesca Costa e sull’allestimento dell'Ergirodo, in “Medioevo e Rinascimento”, VIII, n.s., IV, 
1993, pp. 137-142; S. Mamone, Serenissimi fratelli principi impresari. Notizie di spettacolo nei carteggi 
medicei. Carteggi di Giovan Carlo de’ Medici e di Desiderio Montemagni suo segretario (1628-1664), 
Firenze, 2003, pp. XLIV-LIV; S. G. Cusick, Francesca Caccini at the Medici Court: Music and the Cir- 
colation of Power, Chicago, 2008; L. Spinelli, Leonora Falbetti sulle scene di corte tra Firenze e Parigi 
(1654-1662), in “Drammaturgia”, XV, n.s., 5, 2018, pp. 39-54; L. Spinelli, Cantar fuori porta. Storia, 
spettacoli e protagonisti del teatro mediceo di Pratolino (1679-1710), Firenze, 2020, pp. 56-64; L. Spinelli, 
Il principe in fuga e la principessa straniera cit., pp. 209-218. 

9 ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
n. 281. 

54. Ivi, nn. 569-570. 

5. ASFi, CCSGB, IV serie, n. 155, Uscite, 1680-1681, anno 1680, n. 226, 9 dicembre 1680, per 
il prezzo di ventiquattro scudi. 

56 ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
n. 697. 

57. ASFi, CCSGB, IV serie, n. 155, Uscite, cit., anno 1680, n. 213, per il prezzo complessivo di 
novantotto ducati. 

58. Ivi, anno 1681, n. 85 (24 maggio 1681). 

9. ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
n. 460. 

6 Ivi, n. 481. Su questo, cfr. R. Spinelli, Cosimo III e l'eredità del cardinale Francesco Maria de’ 
Medici: nuovi documenti e riflessioni sulla donazione del principe al fratello, granduca di Toscana, in corso 
di pubblicazione. 

6! ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
n. 463. 

6 Ivi, n. 538. 

6 Ivi, n. 541. 

6 Ivi, nn. 383, 575. Uno dei due potrebbe essere quello oggi in collezione Corsini, pubblicato da 
N. Barbolani di Montauto, in Livio Mebus. Un pittore barocco alla corte dei Medici 1627-1691, catalogo 
della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, 27 giugno — 20 settembre 2000) a cura di M. 
Chiarini, Livorno, 2000, p. 64, n. 1bis. 

5.653, n. 573. Sul gradimento del pittore olandese da parte di Francesco Maria cfr. R. Spinelli, 
Note sul collezionismo del principe-cardinale, cit., pp. 91-92; R. Spinelli, Livio Mehus, Pandolfo Reschi, 
Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo nelle collezioni del principe-cardinale Francesco Maria de’ Medici: 
nuove opere e inediti documenti, in corso di pubblicazione. 


400 


“Lappeggio è bello e buono: è il centro, è il soglio. Delle delizie: e dirlo un paradiso”. 
Famigli e familiari nella quadreria del cardinale Francesco Maria de Medici 





del Suttermans®° - oltre Artemisia Gentileschi, gradita alla corte toscana”, ricor- 
do in questa sede la preferenza accordata dai Medici, da Vittoria come dal Gran 
Principe Ferdinando, a Margherita Caffi, ben presente nelle loro raccolte artisti- 
che°8 -, non sappiamo se qualcuno di questi poi entrato a far parte della collezio- 
ne di autoritratti di Galleria (a parte quello allora stimato si mano di Leonardo), 
così come molti ritratti più generici nella descrizione. 

Imponente il numero d’effigi medicee presenti a Lappeggi, sia delle genera- 
zioni precedenti quella del cardinale come dei famigliari più prossimi. Alcune di 

ueste tele dovettero essere già presenti in villa al tempo di Mattias: tra queste, 
La sicuramente la grande tela (cm. 400x438 circa) con il ritratto equestre 
del principe, opera a ‘tre mani’ dovuta ai pennelli di Borgognone (la scena di 
battaglia), Suttermans (la testa di Mattias), Giovan Battista Vanni (il resto della 
composizione), che aveva a pendant un altro dipinto di ugual misura, questo 
del solo Vanni, raffigurante il “Trofeo per l'incoronazione del granduca Ferdi- 
nando II””°, Altre effigi dovettero arrivare in villa dal Poggio Imperiale per eredità 
della madre del cardinale: tra queste sicuramente alcuni ritratti della granduches- 
sa Vittoria da giovane e le dodici tele con le eftigi “di diverse dame della princi- 
pessa” attribuite al padre teatino Filippo Maria Galletti”, altre ancora di donne 
ignote - non meglio identificate - così come alcuni ritratti di casate imparentate 
con i Medici, quella di Urbino”? e di Parma”). 

Nel caso delle effigi di membri della casa granducale, la maggior parte di que- 
ste risultavano assegnate nell’inventario della villa al Suttermans o citate come 
copia da originali dello stesso: alla diretta committenza cardinalizia saranno poi 
da imputare i ritratti dei genitori (Ferdinando II e Vittoria), del fratello maggiore 
Cosimo III (e della moglie Marguerite Louise), dei nipoti Ferdinando (e della 
moglie Violante Beatrice di Baviera), Giovanni Gastone e la prediletta Anna Ma- 
ria Luisa, effigiati sia su tela come, per alcuni di questi, in marmo nella serie degli 
otto busti pagati da Francesco Maria allo scultore granducale Giovan Battista 





6 ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
n. 668. 

9 Su questo, cfr. Artemisia, catalogo della mostra (Firenze, Casa Buonarroti, 18 giugno - 4 no- 
vembre 1991) a cura di R. Contini e G. Papi, Roma, 1991. 

6 Su questo, cfr. R. Spinelli, in Villa Medicea di Poggio a Caiano. Museo della Natura Morta. Ca- 
talogo dei dipinti, a cura di S. Casciu, Livorno, 2009, pp. 184-187, nn. 65a-b, 188-191, nn. 66a-b (con 
bibliografia precedente). 

9 ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
rispettivamente nn. 325, 324. Su questo, cfr. R. Spinelli, Un ritratto mediceo, cit., pp. 13-14. 

70 ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
n. 324. 

2 Ivi, n. 113. 

7 Ivi, nn. 378, “Un ritratto del Duca di Urbino da bambino con quaglia in mano, creduto del 
Barocci; 511, “Il Duca di Urbino nella zana da bambino, del Barocci (lasciato dal cardinale a Cosimo 
III; cfr. R. Spinelli, Cosimo III e l'eredità del principe-cardinale Francesco Maria de’ Medici, cit., ); 698, 
“Un Ritratto del principe Federico da Urbino da giovane, del Barocci”. 

7. ASFi, CCSGB, IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, cit., 
nn. 522, “Un ritratto del duca di Parma con rosa di nastro rosso in spalla, di Giusto”; 564, “Un ritratto 
del duca di Parma armato, di Giusto”. 


401 


Riccardo Spinelli 





Foggini tra il 1681 e il 168774, serie della quale fecero parte anche i ritratti di altri 
due cardinali di famiglia, Giovan Carlo e Leopoldo, che Francesco Maria volle in 
omaggio alla dignità ecclesiastica cui papa Innocenzo XI lo aveva elevato giusto 
in quel periodo (2 settembre 1686)”. 

Nella galleria iconografica che arredava la villa non potevano certo mancare, 
sempre in ottemperanza al rango curiale del suo occupante, ritratti di pontefici 
e di cardinali: ma, come presaghi del progressivo degrado cui sarebbe incorsa 
Lappeggi dopo la morte del principe-cardinale, quest'ultimi, già nel 1711, lan- 
guivano, abbandonati e “tutti rotti”, nelle soffitte della residenza. 


Fonti d’archivio 


Archivio di Stato di Firenze (ASFi) 

Congregazione di Carità di San Giovanni Battista (CCSGB) 

IV serie, n. 155, Uscite, 1680-1681. 

IV serie, n. 653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, 
Botteghe e Giardini, attenenti al già Serenissimo Principe Francesco Maria di glorio- 
sa memoria 1710 ab Inc. 





74 Sui busti cfr. R. Spinelli, La serie dei ritratti medicei di Giovan Battista Foggini: note d'archivio sulla 
committenza e la cronologia, in “Paragone”, LXX, Terza serie, n. 114 (831), 2019, pp. 40-54; Spinelli, 
Giovan Battista Foggini, Ze Portrait of Marguerite Louise of Orléans, cit., passim. 

? Paoli, Medici, Francesco Maria, cit., p. 54. 


402 


“Lappeggio è bello e buono: è il centro, è il soglio. Delle delizie: e dirlo un paradiso”. 
Famigli e familiari nella quadreria del cardinale Francesco Maria de Medici 





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1980, pp. 601-602. 


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R. SrineLLI, Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli in Toscana e in Spagna 
(1638-1663), Pisa, 2011. 


Il Gran Principe Ferdinando de’ Medici (1663-1713). Collezionista e mecenate, ca- 
talogo della mostra (Firenze, Galleria degli Uffizi, 26 giugno - 3 novembre 
2013) a cura di R. Spinelli, Firenze, 2013. 


R. SPINELLI, Note sul collezionismo del principe-cardinale Francesco Maria de” Me- 
dici. Nuovi documenti su Andrea Scacciati, Pietro Dandini, Francesco Corallo, 
Antonio Ugolini, Livio Mehus, Niccolò Cassana, Balthasar Permoser, Gaetano 
Giulio Zumbo e altri, in “Predella”, n. 8, 2013, pp. pp. 85-105. 

R. SPINELLI, Un ritratto mediceo di Giovan Battista Vanni, Signa, 2013. 

S. BENAssAI, 774 le carte di Violante. Note sul mecenatismo della Gran principessa di 
Toscana, in “Valori tattili”, V, nn. 3-4, 2014, pp. 80-114 [atti del Seminario di 
studi Ferdinando di Cosimo IMI de’ Medici, Gran Principe di Toscana, e Violante 
Beatrice di Baviera (Firenze, Biblioteca degli Uffizi, 25 gennaio 2014), a cura 
di R. Spinelli]. 

L. SPINELLI, Violante di Baviera e gli ultimi divertimenti di una dinastia, in “Valori 
tattili” V, nn. 3-4, 2014, pp. 114-125 [atti del Seminario di studi Ferdinando 
di Cosimo III de’ Medici, Gran Principe di Toscana, e Violante Beatrice di Bavie- 
ra (Firenze, Biblioteca degli Uffizi, 25 gennaio 2014), a cura di R. Spinelli]. 


404 


“Lappeggio è bello e buono: è il centro, è il soglio. Delle delizie: e dirlo un paradiso”. 
Famigli e familiari nella quadreria del cardinale Francesco Maria de Medici 





V. Lagoa, «La verità delle cose». Margherita Luisa d'Orléans donna e sovrana 
dell'ancien régime, Roma, 2015. 

Buffoni, villani e giocatori alla corte dei Medici, catalogo della mostra (Firenze, 
Palazzo Pitti, Andito degli Angiolini, 19 maggio — 11 settembre 2016) a cura 
di A. Bisceglia, M. Ceriana, S. Mammana, Livorno, 2016. 

L. SPINELLI, Leonora Falbetti sulle scene di corte tra Firenze e Parigi (1654-1662), 
in “Drammaturgia”, XV, n.s., 5, 2018, pp. 39-54. 

R. SPINELLI, Giovan BartIstA FoGGINI, Zhe Portrait of Marguerite Louise of 
Orléans Grand Duchess of Toscany, Trinity Fine Art, Seggiano di Piontello, 
2019. 

R. SPINELLI, / giardini di Lappeggi, di Lilliano e la pittura di fiori’ nelle collezioni 
del principe cardinale Francesco Maria de’ Medici, in “Bollettino della Accade- 
mia degli Euteleti della città di San Miniato”, n. 86, 2019, pp. 291-319. 

R. SPINELLI, La serie dei ritratti medicei di Giovan Battista Foggini: note d'archi- 
vio sulla committenza e la cronologia, in “Paragone”, LXX, Terza serie, n. 114 
(831), 2019, pp. 40-54. 

L. SPINELLI, Cantar fuori porta. Storia, spettacoli e protagonisti del teatro mediceo di 
Pratolino (1679-1710), Firenze, 2020. 


In corso di pubblicazione 


R. SpinELLI, Livio Mehus, Pandolfo Reschi, Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo 
nelle collezioni del principe-cardinale Francesco Maria de’ Medici: nuove opere e 
inediti documenti. 

R. SpiNELLI, Cosimo III e l'eredità del cardinale Francesco Maria de Medici: nuovi 
documenti e riflessioni sulla donazione del principe al fratello, granduca di To- 
scana. 


405 


Riccardo Spinelli 








Fig. 1: Giovan Battista Foggini, Ritratto del cardinale Francesco Maria de’ Medici, 1687, Cerreto Guidi, 
Museo della Caccia e del Territorio. 


“Lappeggio è bello e buono: è il centro, è il soglio. Delle delizie: e dirlo un paradiso”. 
Famigli e familiari nella quadreria del cardinale Francesco Maria de Medici 








Fig. 2: Giuseppe Zocchi, Veduta del giardino e della villa di Lappeggi, 1744. 


407 


La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni 
e di Lorenzo Ginori 





FABIO SOTTILI 


Il Casino della Mattonaia fu 46 antiguo una “casa da signore”, con “casa da 
lavoratore” e orto che andava ad occupare ampi appezzamenti di terreno a ridosso 
delle mura di Firenze, posti fra Porta a Pinti e Porta alla Croce,! come ci testimo- 
nia anche la Pianta i Buonsignori (fig. 1). Ne ebbe il possesso la famiglia dei 
Guardi fino agli inizi del XVIII secolo, quando passò allo Spedale degli Innocenti 
per volontà testamentaria di Branca di Bernardo Guardi, il quale nel 1509 aveva 
istituito nel suo testamento che, se si fosse estinta la casata, la proprietà alla Mat- 
tonaia sarebbe servita come luogo di ricreazione degli orfani. dr nel primo 
Settecento, invece di essere destinato ai piccoli sfortunati della città, l’edificio 
venne concesso a livello come residenza aristocratica. 

Dall’epoca rinascimentale quest'area della città non era cambiata, come pos- 
siamo appurare dalla Pianta di Firenze di Ferdinando Ruggieri del 1731 (fig. 2), e 
tale rimase fino all'Unità d’Italia, quando, in seguito Alb attimento delle mura, 
queste aree caratterizzate da ampi giardini, orti e frutteti, vennero lottizzate, di- 
ventando parte di un quartiere borghese elegante. 

L'edificio principale, allora come oggi, si affaccia su Via della Mattonaia, e 
non ha connotazioni architettoniche di pregio (figg. 3-4), con l’esclusione delle 
due porte di accesso, abbellite alla sommità della centina dal bambino in fasce, 
emblema dello Spedale degli Innocenti? (figg. 5-6). Per mezzo di un ampio por- 
tone posto a nord della struttura si accedeva ai locali adibiti a servizio agricolo e 
ai terreni coltivati di pertinenza, la cui estensione è attestata da una planimetria 
settecentesca? (fig. 7). La maggiore superficie della proprietà, infatti, era costituita 
dai campi con coltivazioni e orti, che costeggiavano le mura arnolfiane, e confi- 
navano con i possedimenti delle monache carmelitane dell'adiacente monastero 
di Santa Teresa. 

La qualità del casino era apprezzabile negli spazi interni, incentrati in un cor- 
tile porticato, e negli ambienti aperti sul giardino, il locus amoenus della casa. 





! Bargellini/Guarnieri 1977; Cinti 1997; Carrara 2003a; Cesati 2005; Paolini 2008; Paolini 
2009. Sul Casino della Mattonaia, l’unico che ha ricostruito in modo accurato la sua storia nel secondo 
Settecento è il raro testo di Ginori Lisci 1945. 

2 Unaltro stemma degli Innocenti arricchisce l'architrave lapideo nel portone di un edificio di 
Borgo La Croce che nel Settecento era proprietà dell’istituzione fiorentina. 

3. Si tratta del disegno ad inchiostro e acquarello su carta di dimensioni 380x480 mm, e con- 
servato presso l'Archivio dell'Ospedale degli Innocenti (da ora AOIF), 3891, n. 19, “Pianta dell’or- 
to della Mattonaia non compreso la casa del lavorante, e villa, e giardino etc”, disegno acquerellato, 
380x480mm. 


409 


Fabio Sottili 





Attraverso la planimetria individuata‘ (fig. 8) e l'inventario del giardino con- 
servato a Siena presso il Fondo Sansedoni,’ sappiamo che nel 1748 l’area verde 
era scompartita all’italiana in sei semplici aiuole divise da vialetti rettilinei, con 
otto piante di cedrati collocate a terra “ad uso di boschetto”; trentasei vasi con 
diversi agrumi e ventisei basi di terracotta punteggiavano i parterres, mentre due 
ti e dodici piccoli susini erano posti lungo le mura perimetrali. A con- 
cludere il giardino, prospetticamente di faccia al casino, troneggiava una grotta 
ad esedra di ordine rustico e timpano spezzato, con al culmine l'emblema dello 
Spedale degli Innocenti (fig. 17). 

AI fine di renderla appetibile ai nobili inquilini che l'avrebbero presa in af- 
fitto, la costruzione, ormai una “villa”, venne trasformata nel 1747 seguendo 
il progetto di un architetto ancora da individuare, ma i cui disegni si trovano 
presso l’Archivio dello Spedale. Volendo migliorare la distribuzione interna delle 
stanze, furono ideate varie soluzioni per il cortile interno e per la scala di accesso 
ai piani superiori, in modo da rendere funzionale la separazione fra gli ambienti 
destinati alla servitù e le sale aristocratiche. L'affaccio sul giardino, reso piacevole 
dalla grande terrazza del primo piano, venne abbellito attraverso proposte che 
Li la sua chiusura in un loggiato con archi ribassati, e la costruzione di 
un balconcino che guardasse anche su Via della Mattonaia” (figg. 9-16). 

Dal Marzo 1748 il casino fu il buer retiro di Orazio Sansedoni a Firenze. No- 
bile senese e mecenate illustre, Orazio (1680-1751) ebbe ruoli importanti nell’or- 
dine gerosolimitano di cui faceva parte, ma divenne anche alto funzionario nel 
governo granducale lorenese, avendo quindi necessità di stabilire la sua dimora 
a Firenze, che per quasi un trentennio (1722-1751) fu la Casa della Commenda 
a Ponte Vecchio.* Ad affermazione del rango raggiunto, per trenta ducati a se- 
mestre decise di affittare una seconda residenza in città, più ariosa ed appartata 
dell’altra, con ampi spazi verdi e silenzio, caratteristiche che possedeva il Casino 
della Mattonaia, il quale gli permetteva di avere anche una stalla con rimessa per 
la propria carrozza. 

All’interno della dimora non sappiamo se Orazio Sansedoni avesse raccolto 
una collezione d’arte non essendo stato individuato nessun documento specifico 
in merito. Alcune indicazioni presenti nell’inventario della sua casa di Ponte Vec- 
chio? ci informano soltanto li nel 1751 alla Mattonaia si trovavano otto carte 
geografiche, un “paravento” (porta?) dipinto dal pittore Francesco Gambacciani,'° 





4 —AOIE 3843, ins. XX, “Disegni attenenti alla villa di San Marco Vecchio anzi della Mattonaia”, 

n. 3 piante di cui una con disegno della “Grotta del giardino della Mattonaia”. 
Archivio del Monte dei Paschi di Siena, Fondo Sansedoni (si indicherà AMPS, Sansedoni), 2, 

n. 20. 

6 AOIE 3843, inss. XX (“Disegni attenenti alla villa di San Marco Vecchio anzi della Mattonaia”, 
n. 3 piante di cui una con disegno della “Grotta del giardino della Mattonaia”), XXXVII (“Disegno del 
cortile della villa della Mattonaia”). 

7. Purtroppo l’assetto di questa ala dell’edificio non è più visibile, essendo stato fortemente modi- 
ficato fra il 1780 e il 1790. 

8. Sottili 2017; Sottili 2019. 

°. AMPS, Sansedoni, 2, fasc. 1, Inventari e stime dello Spoglio dell’Ill:mo Sig:r Balj E Orazio Sanse- 
doni, 1751, cc. 4v, 9Ir-v, 11v. 

°° Sul Gambacciani, artista che lavorò continuativamente per i Sansedoni, si consulti Sottili 


410 


La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 





e tre tavole dipinte da piegarsi con funzione di parascintille per i camini, di cui 
una con caricature," soggetto giocoso prediletto dal mecenate senese, che, in- 
sieme al nipote, raccolse un cospicuo numero di Arlecchinate e di quadri in cui 
erano effigiate alcune delle famose burle del Pievano Arlotto.! 

Nel giardino del casino dal cavaliere senese vennero fatti piantare dei cedrati, 
peschi e albicocchi, che servirono anche per rifornire il giardino della villa del 
nipote Giovanni a Basciano, vicino Siena. Alcune di queste piante provenivano 
dal giardino di “Munsù le Coeur” a Malta, e gli erano state procurate dal fratello 
Giulio, anch'egli cavaliere gerosolimitano che viveva stabilmente in quell’isola." 

Il bavarese Ulrich Prucher, noto col nome italianizzato di Ulderico, venne 
assunto dal balio Orazio Sansedoni per il mantenimento del giardino del Casi- 
no della Mattonaia. Questi aveva uu nel famoso Cardio Botanico del 
principe Eugenio di Savoia a Vienna, e venne stipendiato dal marchese Carlo 
di Lorenzo Ginori (1702-1757) quale botanico e capo giardiniere del proprio 
giardino di Doccia (presso Sesto Fiorentino), impegno dopo il quale fu chiamato 
dalla Società Botanica Fiorentina a soprintendere Orto dei Semplici; nel 1756 
fu poi eletto capo giardiniere di Boboli (questa attività dopo la sua morte venne 
trasmessa al figlio Leopoldo), e dal 1761 si occupò nuovamente del giardino 
annesso al Casino della Mattonaia per volontà del nuovo locatario, Lorenzo di 
Carlo Ginori.' 

Nei tre anni in cui Orazio Sansedoni ne fu l’affitturaio, al giardino della Mat- 
tonaia lavorò anche il giardiniere Ignazio Becucci.” Dai documenti Sansedoni 
emerge pure il nome È un altro giardiniere: si tratta di Andrea Pratesi, che, 
insieme a Nicola Sgrilli, nel Marzo 1749 fu perito nella stima delle piante che si 
trovavano all’interno del giardino della “palazzina dello Spedale degli Innocenti, 
detto la Mattonaia”, redatta in occasione del contratto di affitto fra il Sansedoni 





2011b, p. 82 nota 43, al quale si rimanda per la bibliografia precedente. 

!! Già in altra sede (Sottili 2019, pp. 204-205 nota 19) ho lanciato l'ipotesi che possa essere in- 
dividuato nell’olio su tavola dipinto da Ferretti con Caricature della collezione Feigen di New York, che 
ripete una composizione di uno dei tre tondi su tavola di collezione privata realizzati sempre dallo stesso 
pittore (cfr. Baldassari 2002, pp. 240-241), che ho presentato in una recente esposizione (Sottili 2020, 

. 30, 68). 
sà 12 Sottili 2008; Sottili 2011a; Sottili 2011b; Sottili 2016; Sottili 2018; Sottili 2019; Sottili 2020. 
A integrazione di quanto finora noto e riportato nei suddetti testi, aggiungo che nella collezione di 
Alberto Sordi a Roma sono presenti due ulteriori repliche di Arlecchino pittore e di Arlecchino servo 
imbroglione. 

3. AMPS, Sansedoni, 61, Lettera di Giovanni Sansedoni a Orazio Sansedoni, da Firenze a Pisa, 11 
Aprile 1750, s. n.; AMPS, Sansedoni, 63, Lettera di Giulio Sansedoni a Orazio Sansedoni, da Malta a 
Firenze, 5 Febbraio 1751, s. n. 

14 Sottili 2016, p. 133. 

!5 Il Prucher, dopo la morte di Orazio, fu saldato con 29 lire nel Luglio 1751 dal nipote Giovanni 
(AMPS, Sansedoni, 2, n. 28). Per avere il lazzeruolo bianco da piantare nel pomario della villa di Bascia- 
no, Giovanni Sansedoni nel 1756 si rivolse sempre a Ulrich Prucher (AMPS, Sansedoni, 78, Lettera di 
Iacopo Maria Landini a Francesco Sansedoni, da Firenze a Siena, 26 Ottobre 1756, s. n.). Cfr. Sottili 
2016, p. 133 nota 100. 

!6 Ginori Lisci 1945, pp. 12, 34-35 nota 26. 

! AMPS, Sansedoni, 96, Lettera di Iacopo Maria Landini a Giovanni Sansedoni, da Firenze a 


Siena, 7 Giugno 1766, s. n. 


411 


Fabio Sottili 





e lo Spedale degli Innocenti.'8 
Nel 1749 l'amato artista Giovanni Domenico Ferretti realizzò modifiche alla 
“pittura del giardino della Mattonaia”," evidentemente un decoro parietale pre- 
esistente, forse dello stesso pittore. In mancanza di specifiche notizie dobbiamo 
immaginarci un affresco che andava ad abbellire, o la grotta del giardino, o una 
loggia che su di esso prospettava, nel quale l'artista fiorentino lavorò per quattro 
iorni alla realizzazione di figure, le cui fisionomie però non sempre trovarono 
cd dei committenti, che aspiravano a vedere “musetti belli e tiranni”.?0 
Con la morte di Orazio Sansedoni l'immobile tornò nella disponibilità dello 
Spedale degli Innocenti, e non sappiamo chi ne fece la sua residenza, fino al 1761 
quando fu locato a Lorenzo Ginori (1734-1791), figlio del marchese Carlo, che 
aveva ereditato dal padre la passione per le scienze naturali, e in particolare per 
la botanica.” Venne infatti eletto socio dell’Accademia dei Georgofili nel 1758 





#8. AMPS, Sansedoni, 2, n. 20, “Conto delle piante inserite nel giardino annesso alla palazzina 


dello Spedale degli Innocenti, detto la Mattonaia. 4 Marzo 1748”. Andrea Pratesi si pensa fosse espo- 
nente di una famiglia di giardinieri, di cui sono noti i nomi di Francesco Pratesi e di Gaetano Pratesi. 
Quest'ultimo fu operante nel 1765 nei giardini di palazzo Niccolini (Muccini/Sottili 2009, pp. 317- 
318) e nel giardino di palazzo Capponi, fra i più prestigiosi della Firenze settecentesca, ma non siamo 
a conoscenza di altri interventi su giardini concepiti da questo personaggio. Un certo Giovanni Pratesi 
nel Maggio 1750 vendette ai Niccolini due cedrati per il loro giardino di via de’ Servi (Firenze, Archivio 
Niccolini di Camugliano, Registri 152, “Quaderno di Cassa spettante all'abate Antonio e ai suoi fratelli, 
figli di Filippo di Lorenzo. 1742-1753”, c. 76a). Gaetano Pratesi potrebbe essere l'omonimo “Capo 
giardiniere dei Ducali giardini di Modena, Pentitorri, Rivalta e Sassuolo”, il quale, fra il 1782 e il 1783 
si occupò della risistemazione delle opere a verde nella Piazza d'Armi di Modena, su incarico di Ercole 
III d’Este, duca di Modena, secondo quanto riportato in Antonini 2004, p. 134. 

19. “Le dirò cosa che lei non doveva sapere, cioè che il Ferretti volendole fare la sorpresa di farli 
trovare megliorata e cambiata la Pittura del Giardino della Mattonaia, sono quattro giorni che vi lavora, 
e pensa Lunedì di darla finita; L'ho fatto servire da Francesco, che torna molto contento di quell’opera, 
non molto approvata dal Sig.r Senatore Rucellai, stato già a vederla” (AMPS, Sansedoni, 59, Lettera di 
Giovanni Sansedoni a Orazio Sansedoni, da Firenze a Lucca, 20 Settembre 1749, s. n.). Sugli impegni 
del pittore per i Sansedoni, cfr. Petrioli 2004; Sottili 2008; Sottili 2011a; Sottili 2011b; Sottili 2014a; 
Sottili 2014b; Sottili 2016; Sottili 2017; Sottili 2018; Sottili 2019; Sottili 2020. 

20. Orazio affermava che “Se Ferretti non consulta prima di metter mano il Ser.o mai farà cosa 
buona, stimo così difficile a lui il dipingere musetti belli e tiranni ed è nelle fisionomie che è latente e 
sereno, vedremo se m'inganno” (AMPS, Sansedoni, 59, Lettera di Orazio Sansedoni a Giovanni San- 
sedoni, da Lucca a Firenze, 22 Settembre 1749, s. n.), a cui il nipote replicava con le seguenti parole: 
“Lasciando queste materie uggiose, passo capitolo per capitolo alla replica delle sue lettere. E prima per 
quello che riguarda la Pittura del Ferretti, essendo questa terminata sino da ieri, che fui a vederla alla 
Mattonaia, non c'è da sperare di più; è senza dubbio molto megliore della volta passata, a gusto mio vi 
è del buono in gran parte, ma qualche poco ancora dell’inferiore, e particolarmente al solito nelle fisio- 
nomie” (AMPS, Sarsedoni, 59, Lettera di Giovanni Sansedoni a Orazio Sansedoni, da Firenze a Lucca, 
23 Settembre 1749, s. n.). 

21 Il padre Carlo manifestò questo suo interesse nella cura dimostrata per le piante del giardino 
della sua villa a Doccia, presso Sesto Fiorentino, dove, insieme al giardiniere Ulrich Prucher (lo stesso 
incaricato da Orazio Sansedoni della gestione del giardino della Mattonaia fino al 1751), introdusse la 
coltivazione di piante rare ed esotiche quali ananas e vaniglia. Anche se non abbiamo notizie sull’affit- 
tuario che prese a livello il casino prima del 1761, siamo venuti a conoscenza di una riunione dell’Ac- 
cademia Colombaria svoltasi lì prima di quella data. Infatti, attraverso la Cronistoria della Società 
Colombaria, sappiamo che la Mattonaia ospitò uno “stravizzo” letterario di soci colombi avvenuto in 
una data imprecisata fra il 1754 ed il 1755: “Solenne è questo lietissimo giorno in cui alla buon aria di 


412 


La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 





e della Società Botanica Fiorentina l’anno successivo, mentre nel 1762 divenne 
presidente della Società Botanica e d’Istoria Naturale Cortonese: pertanto dovet- 
te trovare congeniale trasferirsi nel Casino della Mattonaia dotato di una perti- 
nenza verde adatta a compiere sperimentazioni naturalistiche, e che, per rendere 
ancora più vasta, unì ad altri orti adiacenti, appartenenti alle monache di Santa 
Teresa, da lui presi in enfiteusi.?? 

Lorenzo Ginori fu cavaliere di Santo Stefano e ricoprì varie cariche: balìo di 
Senigallia, venne eletto senatore nel 1761, e fu ciambellano di Pietro Leopoldo 
nel 1765. Ma soprattutto si dedicò allo sviluppo della manifattura di porcellane 
voluta dal padre e promosse la produzione di lana leggera con i suoi greggi di 
capre d’Angora.” 

Il marchese Ginori dopo vent'anni riuscì ad entrare in possesso della residenza 
di Via della Mattonaia, e di quella data (1781) presso l’archivio di famiglia si 
conserva una planimetria” (fig. 20), che attesta le dimensioni del grande “orto” 
dalla forma triangolare irregolare, scompartito in quattro aree attraverso due viali 
rettilinei perpendicolari percorribili in carrozza, il più lungo a collegare gli edifici 
di uso agricolo del casino con Borgo la Croce (qui vi si trovava un cancello), 
mentre l’asse trasversale congiungeva l’accesso di Via della Mattonaia (presso il 
monastero delle monache) con la montagnola a “selvatico” posta a ridosso delle 
mura cittadine: questa, disposta a semicerchio, al centro raccoglieva le acque in 
un’ampia peschiera, sovrastata da un derceau, e sulla sommità la vista della pro- 
prietà era godibile da un belvedere colonnato. 

Il giardino fronteggiante la facciata sud del casino era già stato esteso in pro- 
fondità, con conseguente demolizione della grotta, per creare due piccole co- 
struzioni adibite a vari usi; inoltre era stato arricchito da un'uccelliera e da una 
limonaia nella zona di levante. 

Fra il 1781 ed il 1791 l’edificio principale fu ampliato e trasformato in un 
vero “casino di delizia” su progetto degli architetti Giulio Mannaioni e Niccolò 
Gaspare Maria Paoletti. 

I Mannaioni furono una famiglia fiorentina i cui esponenti fino dal Settecento 
si dedicarono all’architettura ed alla pittura, e fra loro spicca Giulio Mannaioni, 
pittore ed architetto operante dal 1741 al 1783 peri più facoltosi aristocratici di 
Firenze® (Panciatichi, Altoviti, Antinori, Martelli, Niccolini, Pucci, Rinuccini), 
ristrutturò il Teatro del Cocomero ed il Teatro della Pergola, terminò il Teatro 





campagna, al casino della Mattonaia, son volati in buon numero i soci colombari, ed hanno celebrato lo 
«stravizzo» letterario con gran piacere e sodisfazione. Prima di accostarsi a una sobria, ma molto pulita 
mensa e imbandigione si fecero vari eruditi discorsi concernenti il decoro e maggior vantaggio della 
Società.....Non è da tralasciare che la mensa fu renduta ancora più lieta e gustosa dal recitamento di 
brindisi estemporanei fatti dal Pacifico (Ant. M.a Biscioni), e dallo Svelato (balì Lorenzo Del Rosso), i 
quali festevolmente si corrisposero. Intervennero 16 soci”. Cfr. Dorini 1936, p. 89. 

2 Gli orti delle carmelitane scalze di Santa Teresa furono acquistati dal figlio Carlo Leopoldo 
Ginori soltanto nel 1810, il quale ingrandì ulteriormente i terreni entrando in possesso nel 1819 del 
podere della Badia, posto dall’altra parte di Via della Mattonaia. 

2 Passerini 1876, p. 94 e seguenti. 

2. Archivio Ginori Lisci (da qui si indicherà AGL), 49, n. 7. 

2 Notizie su Giulio Mannaioni si trovano in Floridia 1993, pp. 138-149. 


413 


Fabio Sottili 





della Pallacorda, e cooperò con Giuseppe Ruggieri nella ricostruzione della chiesa 
del Carmine. 

Più noto del Mannaioni fu il Paoletti (1727-1813), architetto dello Scrittoio 
delle Regie Fabbriche, e promotore del linguaggio neoclassico in molti palazzi 
cittadini, edifici pubblici, e nelle residenze granducali, fra le quali si distingue la 
costruzione della Palazzina della Meridiana a Pitti e l'ampliamento della Villa del 
Poggio Imperiale.? 

Con i lavori attuati, il nucleo del Casino della Mattonaia aperto sul giardino 
venne sopraelevato di un piano, come dichiarano anche le mostre delle finestre 
arricchite da volute e ghirlande secondo un lessico ornamentale testimone del 
trapasso dallo stile tardo barocco al rigore classicista. L'ala rivolta ad est è quella 
che subì maggiori trasformazioni con la costruzione di due piani nobiliari sopra 
lo “stanzone dei vasi”, definiti in testata da un monumentale fastigio settecente- 
sco di coronamento con orologio e campana (fig. 18). 

Attraverso gli inventari e i na redatti dal pittore Francesco Zipoli nel 
1778 e dagli architetti Paoletti e Salvetti nel 1792, Leonardo Ginori Lisci” riuscì 
a individuare l'aspetto delle sale voluto da Lorenzo Ginori, permettendoci di 
ricostruire la sequenza di ambienti ricchi di cineserie, decorazioni di porcellana, 
ingegnose ambientazioni naturalistiche e meccanismi stravaganti, che allietavano 
le visite dei nobili frequentatori, e fecero diventare questa residenza una casa del- 
le meraviglie, piena di “mille studiati schiribizzi eleganti messe in mostra”, un 
unicum in tutta Europa. 

Già nel Luglio 1778 questo assetto era definito, come testimonia Giuseppe 
Pelli Bencivenni, direttore della Galleria degli Uffizi: “Ho veduto stamane il ca- 
sino del senator Lorenzo Ginori alla Mattonaia sito basso, ed infelice, ma nel 
quale esso si balocca a fare delle spese per prepararsi un asilo delizioso. Infatti vi 
sono delle cose che più in grande, ed in un posto più ameno sarebbero graziose. 
Per esempio vi è una specula con un cammino che ha sopra una finestra difesa 
da un cristallo per la quale scaldandosi nell’inverno si vede la campagna. In un 
altro cammino simile si conta di far passare degli augelletti, di riporre dei fiori, di 
preparare con camere ottiche delle vedute LL città. Negli stanzini di comodo 
si sono collocati degli alveari in cassette di cristallo per divertirsi a veder lavorare 
quelli animaletti. Per gli ornamenti si fanno stucchi di gesso lavorati sulle forme 
estratte da opere pubbliche, e si sono fatti venire quelli che usano in Inghilterra 
di carta pesta. Nuova macchina per alzar l’acqua. Vi ha da essere un laboratorio 
chimico: s'immagina di poter tirar l’acqua dell'Arno con un strumento, o mac- 
china inventata negli Svizzeri. In somma il buon senatore, che non promette 
lunga vita, si balocca quanto può, e con spendere assai non fa però cosa di lunga 
durata”. 

Il Pelli Bencivenni nel Novembre 1782 visitò l’edificio nuovamente, e questo 





26. Su di lui si rimanda a Del Rosso 1813; Cresti 1987; Forlani 1989; Baggiani 2009; Ragazzini/ 
Spinelli 2018. 

27 Ginori Lisci 1945, pp. 13-20. 

28. Pelli Bencivenni 1759-1808, serie II, vol. XVI (1788), p. 3164v. 

2° “La macchina si è montata alla Zecca Vecchia nell’estate del 1779 ma con poca felice riuscita.” 

30. Pelli Bencivenni 1759-1808, serie II, vol. VI (1778), pp. 991r-v. 


414 


nl 


La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 





riportò: “Sono stato stamane al casino del senatore Lorenzo Ginori alla Mattona- 
ia a vedere una stanza che ha fatta di tutte lacche contornate con cornici intarsiate 
di madreperle, la quale a noi è cosa nuova, e bizzarra essendo la volta, le seggiole, 
il canapè, le tavole, la lumiera, i viticci alle cantonate assortiti al medesimo tuono, 
e con i lumi dà un brillante lugubre, non dispiacente. Ho veduti altri balocchi di 
questo buon gentiluomo, che meriterebbe di aver più salute, e qualche persona la 
quale custodisse le cose sue. Sempre immagina cose nuove, ed abbandona le vec- 
chie per noia, e per ripienezza, ma spiega non ostante un'anima che ha del genio, 
e del gusto, cosa che manca a tutt’i nostri presenti nobili, i quali hanno «l’anima 
semplicetta che sa nulla». Mi è assai piaciuto un camminetto che lascia osservare 
la campagna, e che tramezzo alla finestra porta lo spazio per un piccolissimo giar- 
dino, o per un uccelliera, o per qualche h. oggetto scherzoso”. 

Entrando dalla porta principale sulla strada, a destra si aprivano i salotti di 
ricevimento (fig. 19). Da una camera rivestita in stoffa con stampe alla cinese, si 
accedeva ad uno stanzino provvisto di una “sedia semovente”, antesignana dell’a- 
scensore, che portava alla stanza superiore e al torrino della specola, dotato degli 
strumenti per l'osservazione degli astri. Seguiva un salotto dalla volta affrescata 
con le allegorie delle quattro stagioni, e decorata con fregi a bassorilievo di por- 
cellana e con 36 quadretti di ciliegio che racchiudevano “figure in cera rappre- 
sentanti l’istoria dei Pittori”. Nel contiguo gabinetto ovale, ornato di stucchi, si 
apriva una finestra rivolta sul giardino, la quale, attraverso una doppia vetrata ed 
una cassa per le api sistemata nel vano della stessa, permetteva agli ospiti di poter 
studiare la vita dell’alveare dal suo interno. 

Oltrepassato il salotto affrescato ci si immetteva nella galleria aperta verso il 
giardino, con stucchi alle pareti a racchiudere quattordici medaglioni in marmo 
con le effigi di imperatori romani: in questo ambiente erano conservati sette vasi 
in porcellana con putti in bronzo dorato e un organo inglese da suonarsi a mano, 
per l'epoca una vera curiosità. L'ultima stanza di questo quartiere era una camera 
allietata da figure e medaglie in stucco colorato. 

Al primo piano l’ospite entrava in una camera interamente tappezzata di vec- 
chia lacca giapponese, racchiusa da un soffitto ornato con piatti provenienti dalla 
Cina ed elementi in ferro sempre in stile cinese, così come l’arredo costituito da 
mobili intarsiati soprattutto di madreperla: l’imbotte della finestra affacciata sulla 
strada formava “un piccolo gabinetto a cristalli con rapporti di bassorilievi di por- 
cellana”, e qui sbarcava la sedia/ascensore. Il salotto i veniva riscaldato da 
un camino in marmo sovrastato da uno specchio apribile a sportello, all’interno 
del quale i canarini potevano covare le uova. Un'altra sala, con ornato plastico a 
colori che riproduceva fiori, era totalmente dedicata alla botanica, infatti all’in- 
terno di ampolle di vetro, poste su mensole sovrapposte, venivano fatti crescere 
i bulbi di fiori nell'acqua. L'ultima stanza di questa parte della villa era rivestita 
di raso giallo con fiori e figure, e fra i mobili si distinguevano due sedie di color 
rosso Cina. 

Il quartiere nobiliare proseguiva sopra la limonaia, attraverso quattro stanze 
caratterizzate per la loro preziosa tappezzeria: le prime due esibivano una carta da 
parati “dipinta alla cinese” e un caminetto con cammei di porcellana, la terza era 





31 Pelli Bencivenni 1759-1808, serie II, vol. X (1782), p. 1898v. 


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Fabio Sottili 





rivestita da un “drappo bianco con velluto e figure cinesi in colori, detti anche 
quadretti di raso miniato”, mentre l’ultima, parata di damasco rosso, accoglieva 
un pappagallo dai colori vivaci (forse un ur legato ad una gruccia e educato a 
fare la riverenza. Queste quattro stanze prospettavano su una grande terrazza, che 
per metà era stata trasformata in una serra pensile con stufa in modo da avere il 
necessario vapore. 

La prima stanza era ricolma di invenzioni scientifiche, giochi magnetici e biz- 
zarrie Lie un pendolo “calamitato”, una bussola magnetica, un “palmgenisio”, 
il gioco di “ginotfe”, e un automa costituito da una testa grottesca in legno che 
girava gli occhi e apriva la bocca facendo uscire del fumo, il tutto mosso da puleg- 
ge, carrucole, corde, e tubi per il vapore nascosti sotto il pavimento. La i 
stanza era dedicata alla chimica con due armadi pieni di preparati predisposti dal 
chimico Giuntini. Nella terza si trovava invece un teatrino per burattini mecca- 
nici e un teatrino delle ombre. La quarta infine ospitava un grande organo, un 
canocchiale e un “ordigno tipografico”. 

In un camerino accessibile dalla scala che conduceva ai vari piani, a livello 
del pavimento, vi era una vasca di cristallo fatta realizzare a Venezia, che veniva 
riscaldata per coltivarvi delle piante esotiche. Ma ciò che veniva particolarmente 
ammirato in quest’ala della residenza fiorentina era il camino di una camera del 
secondo ba il quale poteva girare su se stesso per essere utilizzato anche dalla 
stanza adiacente. 

Poche sono le opere d’arte di cui si tramanda la memoria. In un grande salotto 
il soffitto accoglieva una tela di Alessandro Gherardini (l’artista realizzò molte 
pitture per il palazzo di famiglia in via de’ Ginori) e le quattro pareti esponevano 
dodici quadri dipinti a olio racchiusi in cornici a stucco, mentre un’altra sala era 
tappezzata da arazzi fiamminghi: in quest'ultima stanza una piccola porta na- 
scondeva uno stanzino trasformato in gabbia da uccelli. 

Sui tetti dal lato di Via della Mattonaia emergeva il piccolo torrino di forma 
ottagona, ad uso di specola o caffehaus, illuminato da quattro finestre e circonda- 
to da un ballatoio accessibile da quattro porte; sulla sommità era posto un “palo 
elettrico con campana che conduce fino al pozzo”. L’interno di questo ambiente, 
interamente decorato con ghirlande di fiori di porcellana, veniva riscaldato da un 
caminetto. Vi si poteva arrivare per mezzo della sedia/ascensore, oppure salendo 
una scala esterna, o con una piccola scala segreta dove si trovava un “acquarino” 
di porcellana e una piccola finestra adibita a gabbia per i canarini; tale scala si 
concludeva in una botola posta al centro del pavimento della specola. 

Non meno ammirevole era il giardino. Questo, allora come oggi, era delimita- 
to da un alto muro punteggiato da vasi in terracotta, ed era spartito all'italiana in 
otto aiuole. Nelle due più vicine al casino erano stati piantati a terra quattro ce- 
drati e due limoni, mentre nelle altre sei, racchiuse da siepi di bosso, si trovavano 
le viole mammole, la menta piperita e fiori di diverse specie i cui bulbi arrivavano 
anche dall’Olanda, oltre a vasi di agrumi posti su basi. Una spalliera di alloro, 
aranci, e viti di uva salamanna era posta lungo i muri laterali, dove trovavano 
alloggio anche mughetti e fiori delle varietà più nuove. 


3. Rispetto alla disposizione attestata nel 1747, nel giardino erano state create due ulteriori aiuole 


e un’aiuola circolare era stata posta fra queste. 


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La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 





Quale epicentro del giardino troneggiava una vasca di forma circolare, ritmata 
da otto statue, dove si allevavano pesci rossi. 

L'estensione del precedente giardino era stata ampliata in profondità per per- 
mettere la costruzione di due piccoli edifici disposti simmetricamente rispetto 
all’asse centrale (in uno di questi si svolgevano esperimenti di chimica), sormon- 
tati da due colombaie cupolate ricoperte da tegole a squame di terracotta smaltata 
realizzate a Napoli, colorate di giallo e di verde, e disposte in modo da formare 
disegni ornamentali secondo la tradizione partenopea. A proseguire l’assialità 
del giardino correva un vialetto che si concludeva col muro di confine del mona- 
stero di Santa Teresa, e forse è qui che venne dipinta ad affresco una prospettiva 
a simulare un cancello delimitato da pilastri e vasi in sommità dal quale si vedeva 
in lontananza un pergolato (fig. 20). 

In continuità col muro di levante del giardino era stata creata un'uccelliera 

er fagiani, pernici, pappagalli ed altri volatili, dopo la quale si apriva la grande 
imonaia, il cui piazzale antistante era orlato di panchine in pietra e statue. Qui 
durante l’inverno venivano ricoverate le piante rare e gli oltre cento agrumi, co- 
stituiti da limoni, cedri, ed aranci di varie specie. In un apposito ambiente riscal- 
dato crescevano perfino gli ananas e le vaniglie. 

Nel giardino erano piantate a terra alcune varietà di rose, ed erano ospitati 
anche vasi con varie tipologie di gelsomini, gerani, peonie e dittamo, e vi si col- 
tivava l'erba cedrina, una novità assoluta per Firenze dalla quale si ricavava una 
piacevole bevanda. 

Fra le altre rarità presenti alla Mattonaia vi era l’albero del pepe e le piante del 
pistacchio, e si riuscivano ad avere fragole, funghi e carciofi tutto l’anno. 

Per puro diletto degli ospiti, attigua alla limonaia era stato predisposto un 
piazzale in cui era stata montata una giostra con delfini e cavalli (due da montare 
sulla sella e due con i relativi cocchi), un’altra delle tante curiosità del luogo. 

Il resto del terreno era coltivato con ortaggi di tutte le sorti e alberi da frutto 
(viti, susini, peschi, meli, peri, fichi, ciliegi, albicocchi, giuggioli), ed era scom- 
partito da due lunghi viali, come precedentemente segnalato. 

Il tutto necessitava di un abbondante rifornimento di acqua: inizialmente 
questo era garantito da tre pozzi, ma rivelandosi insufficiente per tutte le coltiva- 
zioni ed i getti delle fontane, il senatore Ginori richiese al granduca il permesso 
di utilizzare l’acqua dell'Arno che era in eccedenza per la Zecca Vecchia. Insieme 
all’architetto Giuseppe Salvetti costruì una pompa idraulica, seguendo l'esempio 
della macchina ideata nel 1779 dallo svizzero Gaspar Wurz, che permetteva di 
portare l’acqua a qualunque altezza. Mise in piedi così un complesso sistema 
idrico che raccoglieva le acque dell'Arno, le conduceva in una grande stanza posta 
sulla sommità della torre della Zecca trasformata in cisterna, per poi di 
con tubature che correvano per 1500 braccia lungo le mura, fino alla peschiera 
collocata alla base della montagnola all’interno del podere della Mattonaia, e da 
qui alle varie vasche, fra le quali si ricorda la gamberia e quella “del montone”. 

In un tale ‘paradiso’, nel senso etimologico del termine, i frequentatori non 
mancarono, soprattutto fra gli studiosi e È esperti nelle scienze, che qui parte- 


8. Forse sono i due edifici con cupolette visibili in un dipinto di Fabio Borbottoni di fine ‘800 (fig. 


22), dove sono stati raffigurati malamente, perché visti come se fossero nella zona est del possedimento. 


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Fabio Sottili 





ciparono a riunioni e ‘conversazioni’: da Ottaviano Targioni Tozzetti all'abate 
milanese Carlo Amoretti, dal cavalier Felice Fontana al proposto Marco Lastri, 
fino al matematico Leonardo Ximenes solo per citarne alcuni. 

Divenuto accademico dell’Arcadia col nome di Teodomante Mantineo, Lo- 
renzo Ginori, nel suo casino ricevette gli altri membri arcadici, e fra questi si 
ricorda la nota poetessa Corilla Olimpica (pseudonimo di Maria Maddalena 
Morelli), con la quale aveva stabilito un'intensa amicizia, forse con risvolti sen- 
timentali e che alla Mattonaia si esibì in canti ed improvvisazioni poetiche che 
destarono l'ammirazione degli invitati alle sue cene.” 

Sposatosi nel 1786 con Francesca di Benedetto Lisci, la coppia si stabilì al 
piano nobile di palazzo Ginori nella via omonima, perciò il casino non fu più la 
scena di memorabili intrattenimenti, e con la morte del proprietario nel 1791 la 
proprietà iniziò a decadere, e ad essere affittata a facoltosi perlopiù stranieri, per 
Li passare ai Torrigiani nel 1878 per via ereditaria.» In questo modo i congegni e 
e amenità presenti vennero man mano smantellati, mentre il giardino mantenne 
il suo assetto. 

Con l'aumento demografico conseguente alla nomina di Firenze a capitale del 
Regno d'Italia, secondo IT piano del Poggi a partire dal 1865 iniziò l'edificazione 
del nuovo quartiere residenziale, che doveva occupare le aree verdi a ridosso delle 
mura. Parte dell’orto della Mattonaia quindi venne espropriato per formare le 
nuove vie Niccolini, Leopardi, e Manzoni, su cui far prospettare costruzioni che 
andarono a soffocare il casino, il quale in questa occasione il marchese Ginori 
Lisci fece ristrutturare dall’architetto Giuseppe Fabbri. 

Del secondo Ottocento sono due modeste vedute della proprietà dei Ginori 
prese dal lato est (riconoscibile il fastigio coronato dall’orologio) dipinte dal pit- 
tore Fabio Borbottoni, il cui scopo era di documentare il carattere dell’area del- 
la Mattonaia prima dell’esproprio e della demolizione delle mura (figg. 21-22). 
Attraverso questi dipinti si verifica quanto riportato nel testo di Giuseppe Conti 
del 1899: “in faccia al Vicolo della Mattonaia che metteva in Borgo la Croce si 
scorgeva il grazioso villino Ginori con le due cupolette a squamme gialle e turchi- 
ne, ed in quel punto delle mura esisteva un vuoto ad arco come una gran nicchia 
tutta nera, e piena d’una fuliggine lustra come unta. Quello era il luogo dove i 
verniciatori, i mesticatori e i ol andavano a far le vernici, poiché non era 
permesso di farle in città, a causa dei frequenti casi in cui scoppiavano i matracci, 
e che potevano esser causa d’incendi. In cotesta località, quasi deserta e fuori di 
mano, andavan pure i carradori a piegare i cerchioni delle ruote dei barrocci e 
dei carri; operazione che si faceva con sistemi molto primitivi, poiché facevano in 





3 Il Ginori commissionò a Giovanni Zanobi Weber una medaglia con il ritratto di Corilla in 


memoria della sua incoronazione poetica in Campidoglio, nella quale vi furono rappresentati alcuni 
selvaggi che scagliano frecce che ricadono su loro stessi, a simboleggiare i suoi denigratori all’interno 
dell'Arcadia. 

5 Inizialmente lady Eyer, il marchese bolognese Bevilacqua, sir Robert Ladbroche, la principessa 
Maria Antonia Carafa, il marchese Giuseppe De Silva, e Robert Lawley. Sappiamo che nel 1880 fu 
l'abitazione dell'americano Livingstone che qui aveva numerosi cavalli nelle ampie scuderie, e in quegli 
anni fu visitata anche da Vittorio Emanuele II, come testimonia una piccola lapide murata in un portico 
interno. 

36 


Sull’argomento vedi Carrara 2003b. 


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La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 





terra un gran cerchio di grandi scheggie fatte coll’ascia nel modellare il legname, 
e vi mettevano sopra i cerchioni, che con delle grosse morse piegavano quando il 
ferro era rosso”. 

I terreni annessi al Casino della Mattonaia erano già in precedenza stati presi 
in affitto dagli orticoltori Ferdinando Agati e Giovacchino Carraresi, ma dopo la 
riduzione della loro superficie conseguente all’urbanizzazione del Poggi, vennero 
prima locati, e in una seconda fase acquistati da Raffaello Mercadelli, per inse- 
diarvi il suo Stabilimento di Orticoltura, rinomato per le camelie e le azalee, e 
costruì una grande casa in stile neorinascimentale (figg. 23-24): era l'epoca in cui 
il vivaismo toscano aveva il primato su tutto il resto d’Italia, e tale rimase anche 
nel primo Novecento. 

Dell’antico splendore non sappiamo quanto sia rimasto, essendo la villa at- 
tualmente divisa in diverse unità immobiliari che non possono essere visitate. 
Non ci resta che sperare che siano sopravvissute le sale così descritte nel 1945 da 
Leonardo Ginori Lisci: “le uniche decorazioni ancora rimaste sono i medaglioni 
in marmo con l’effigie degli Imperatori romani in una sala del piano terreno, una 
volta affrescata con le allegorie delle quattro stagioni in un’altra sala, e qualche 
soffitto a stucco. Un quartiere del primo piano ha due stanze con pavimenti anti- 
chi formati da graziose mattonelle colorate di scagliola e ceramica”. 


87. Conti 1928, pp. 406-407. 
38. Ginori Lisci 1945, p. 39 nota 63. 


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Fabio Sottili 





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421 


Fabio Sottili 








Fig. 1: Stefano Buonsignori, Particolare dell'Orto della Mattonaia rappresentato nella Nova pulcherri- 
mae civitatis Florentiae topographia accuratissime delineata, incisione, 1594 


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La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 


La 








x ® 
LEISTIA SITA? 


1731 


incisione, 


i, Particolare della Pianta della città di Firenze, 


1er 


Ferdinando Ruggi 


Fig. 2 


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Fabio Sottili 











Fig. 4: Fronte sulla strada. Firenze, Casino della Mattonaia 





424 


La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 











Fig. 5: Porta sulla strada per l’ingresso della servitù. Firenze, Casino della Mattonaia 


425 


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Fig. 6: Particolare della porta dell'ingresso principale sulla strada con l'emblema dello Spedale degli 
Innocenti. Firenze, Casino della Mattonaia 


VENE 73 = 


MESITAAN SR ARZII ZZZ 





Fig. 7: Pianta dell’Orto della Mattonaia, disegno acquerellato, metà del XVIII secolo. Firenze, Archivio 
dello Spedale degli Innocenti (su concessione dell’Istituto degli Innocenti ed espresso divieto di ulterio- 
re riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


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La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 








Fig. 8: Pianta della Villa della Mattonaia, disegno, metà del XVIII secolo. Firenze, Archivio dello Spe- 
dale degli Innocenti (su concessione dell’Istituto degli Innocenti ed espresso divieto di ulteriore ripro- 
duzione o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


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Fabio Sottili 











Fig. 9: Disegno del cortile della Villa della Mattonaia nel modo da ridursi, disegno acquerellato, 1747. 
Firenze, Archivio dello Spedale degli Innocenti (su concessione dell'Istituto degli Innocenti ed espresso 
divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


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La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 








Fig. 10: Prima soluzione (progetto realizzato) della Pianta del cortile della Mattonaia, disegno acquerel- 
lato, 1747. Firenze, Archivio dello Spedale degli Innocenti (su concessione dell’Istituto degli Innocenti 
ed espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


429 


Fabio Sottili 





Ponta del Cortile dello Mattorrogi Da Rua 


A. TÉ, o principale > 

b. Lager da Padrone 5 
E. Cortile) 

D. Cappella > = 
E. TugreBo perla» Servitito A 
E Quartiere per la> Servitu 





Fig. 11: Seconda soluzione (non realizzata) della Pianta del cortile della Mattonaia, disegno acquerellato, 
1747. Firenze, Archivio dello Spedale degli Innocenti (su concessione dell'Istituto degli Innocenti ed 
espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


430 


La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 





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Fig. 12: Taglio e Pianta della nuova Scala da farsi nella Villetta della Mattonaia, disegno acquerellato, 
1747. Firenze, Archivio dello Spedale degli Innocenti (su concessione dell'Istituto degli Innocenti ed 
espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


431 


Fabio Sottili 








Fig. 13: Prima soluzione del Prospetto della Villa della Mattonaia che riesce sul Giardino, disegno acque- 
rellato, 1747. Firenze, Archivio dello Spedale degli Innocenti (su concessione dell'Istituto degli Inno- 
centi ed espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


432 


La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 








Fig. 14: Seconda soluzione del Prospetto della Villa della Mattonaia che riesce sul Giardino, disegno 
acquerellato, 1747. Firenze, Archivio dello Spedale degli Innocenti (su concessione dell’Istituto degli 
Innocenti ed espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


433 


Fabio Sottili 








Fig. 15: Terza soluzione del Prospetto della Villa della Mattonaia che riesce sul Giardino, disegno acquerel- 
lato, 1747. Firenze, Archivio dello Spedale degli Innocenti (su concessione dell’Istituto degli Innocenti 
ed espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


434 


La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 











Fig. 16: Quarta soluzione del Prospetto della Villa della Mattonaia che riesce sul Giardino, disegno ac- 
querellato, 1747. Firenze, Archivio dello Spedale degli Innocenti (su concessione dell'Istituto degli 
Innocenti ed espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


435 


Fabio Sottili 








Fig. 17: Grotta del giardino della Mattonaia, disegno acquerellato, 1747. Firenze, Archivio dello Spedale 
cr Innocenti (su concessione dell'Istituto degli Innocenti ed espresso divieto di ulteriore riproduzione 
o duplicazione con qualsiasi mezzo) 


436 


La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 








Fig. 18: Pietro Annigoni, // Casino di delizia della Mattonaia nella seconda metà del XVIII secolo, disegno, 
1945. Firenze, Collezione Ginori Lisci 





s SE 07, Beans ge 
MRS PAESE IMAA © OSATO 3 O CONA REA NINE 
Fig. 19: Niccolò Gaspare Maria Paoletti, Pianta del Casino di delizia detto La Mattonaia, disegno, 1791. 
Firenze, Archivio Ginori Lisci 


437 


Fabio Sottili 





Osservazionio 
di Fesrs' chiusi con ” 
Sergi 





Fig. 20: // possesso della Mattonaia dei Ginori, disegno, 1781. Firenze, Archivio Ginori Lisci 





Fig. 21: Fabio Borbottoni, L'antica Mattonaia, olio su tela, seconda metà del XIX secolo, Fondazione 
Cassa di Risparmio di Firenze 


438 


La Mattonaia, casino fiorentino di Orazio Sansedoni e di Lorenzo Ginori 








è 


Fig. 22: Fabio Borbottoni, Veduta del Casino Ginori e del vicolo della Mattonaia, seconda metà del XIX 
secolo, ubicazione ignota 


(Et 


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Fig. 23: Ingresso ottocentesco del vecchio Stabilimento di Orticoltura 


439 


Fabio Sottili 








Fig. 24: Attuale situazione del giardino in cui nell’Ottocento era sito lo Stabilimento di Orticoltura 


440 


Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 





CLAUDIA MARIA BUCELLI 


AII thoroughly representative of the seventeenth century Baroque manner at its best. 
Itis fu that buildings and gardens have been maintained in the form 

they were then given...those who ignorantly rail at Baroque 

as a debased and vicious style would do well to study 

the Villa Corsi-Salviati carefully before giving full rein to their prejudice. 


Harold Donaldson Eberlein, 1922 


Eminentemente rappresentativo, addirittura pacificatore nei riguardi del Ba- 
rocco'. Così affermava Harold Donaldson Eberlein descrivendo il giardino di 
Sesto subito dopo l’intervento di ripristino del conte Giulio Guicciardini Cor- 





1 Sintesi 


“Un giardino fra i più belli e deliziosi di quelli creati nel secolo xvii” segnalava Carocci nel 1906, 
“representative of the Baroque manner at its best” confermava alcuni anni dopo Donaldson Eberlein, 
poco dopo riecheggiato da Shepherd e Jellicoe. In realtà quel giardino di Sesto era stato restituito all’im- 
pianto storico nel primo ventennio del xx secolo dal conte Giulio Guicciardini Corsi Salviati, uno dei 
protagonisti della riproposizione identitaria e stilistica del giardino all'italiana in un contesto - la Firenze 
del primo Novecento - dominato da personalità angloamericane. Intervenendo risolutamente, quale 
proprietario, in restauro di ripristino su un impianto denso di stratificazioni storiche, il conte vi aveva 
ricalibrato formalismi classicisti affini al richiamato purismo del giardino all’italiana, ridisegnandolo 
tuttavia secondo l’impianto tardobarocco, ritenuto la forma più compiuta raggiunta dal giardino, tale 
tramandata dalla consistenza dei documenti di famiglia e dalle numerose preesistenze. Pur salvando in 
parte l'impianto romantico ottocentesco Giulio non esitò a sacrificare gran parte della prestigiosa realtà 
botanica esotica ivi ospitata, ricevuta in eredità dal nonno, il marchese Bardo. 


Abstract 

“A garden amongst the most beautiful and delightful of those created in the xvii'* Century” indi- 
cated Carocci in 1906, “representative of the Baroque manner at its best” confirmed few years later 
Donaldson Eberlein, and shortly after also Shepherd and Jellicoe. Actually, this garden in Sesto was 
returned to historical installation during the first two decades of the xx" Century by Count Giulio 
Guicciardini Corsi Salviati, one of the protagonists of both identity and stylistic revival of the Italian 
Garden in a context — the town of Florence at the beginning of the Nineteenth Century — dominated 
by Anglo-American personalities. By resolutely intervening, as landlord, in a restoring renovation over 
an installation thick with historical stratifications, the Count recalibrated there classic formalism related 
to the called back purism of Italian style garden, though he restyled it over the ancient late baroque 
design, considered the most complete shape of the garden, because so handed down by the consistency 
of family documents and persistence. Even if saving in part the nineteenth-century romantic structure, 
Giulio did not hesitate to sacrifice the prestigious exotic botanical reality therein accommodated, passed 
on to him from his grandfather Marquis Bardo. 


441 


Claudia Maria Bucelli 





si Salviati, accreditandovelo esplicitamente in un passo poi ripreso in personale 
compiaciuta traduzione dallo stesso conte Giulio: “coloro che ignorantemente 
mettono al bando il Barocco come uno stile senza fondamento e pieno di difetti 
farebbero bene a studiare la villa Corsi-Salviati attentamente prima di abbando- 
narsi al loro pregiudizio” (Guicciardini Corsi Salviati, 1937:56). 

Già alcuni anni prima Guido Carocci, da cui lo stesso Eberlein tradurrà alcu- 
ne descrizioni condividendone l’attribuzione, illustrava questo giardino di villa 
a Sesto Fiorentino come “fra i più belli e deliziosi di quelli creati nel secolo xvii” 
(Carocci, 1906:311). 

Tre anni dopo Eberlein anche John C. Shepherd e Geoffrey A. Jellicoe — dan- 
do nel 1925 alle stampe /talian Gardens of the Renaissance di cui copia con de- 
dica di Shepherd a Giulio Guicciardini Corsi Salviati è ancora conservata nella 
biblioteca di famiglia della villa di Sesto — datavano il giardino sestese fra il 1637 
e il 1660, accennando inoltre, in sintonia sia con Carocci che con Eberlein, alle 
trasformazioni che “after centuries of slowly increasing importance, bursting into 
the splendid fancies of Baroque” avevano dato vita a quel segreto spazio da loro 
percorso, studiato e ammirato nell’intensa suggestione del forte contrasto fra l’as- 
solata e polverosa strada di accesso e il fresco ricetto del giardino nascosto dietro 
il lungo muro intonacato, “from the hot and dusty road outside to the glories 
within, is a true ‘Arabian Nights transformation” (Shepherd, Jellicoe, 1925:56). 

In verità se Carocci aveva camminato in un ri sar e variegato giardino 
reso esuberante in varietà di diverse specie ai dal marchese A Corsi 
Salviati che ne aveva fatto anche un laboratorio di acclimatazione e produzione di 
piante esotiche — una preziosa collezione quella del marchese Bardo, che inizierà a 
scomparire appena un anno dopo la sua morte con l’avvio del processo di restau- 
ro ad opera del nuovo proprietario, suo nipote, il conte Giulio Guicciardini Corsi 
Salviati - quando sia Donaldson che Shepherd-Jellicoe percorrono il giardino di 
Sesto le ‘trasformazioni da mille e una notte’ da loro menzionate in riferimento 
ad un presunto originale impianto barocco risultavano essere recente opera dello 
stesso conte Giulio, che aveva loro concesso sia una prima visita che i successivi 
accessi per il tempo necessario al rilievo metrico, grafico e fotografico. 

E si trattava di trasformazioni più che attuali — protrattesi, anche a causa della 
parentesi di immobilità della prima guerra mondiale, per più di 15 anni, dal 
1907 al 1922 — e dunque all’epoca da poco terminate. 

Erano, quelli, gli anni in cui nell’effervescente ambito culturale in dominanza 
anglofona affioravano a Firenze e nelle colline attorno ripristini di contesti evoca- 
tivi del Rinascimento italiano che proprio in quei luoghi era nato e fiorito. Dopo 
l’emblematico ‘restauro’ d'inizio secolo che aveva visto la riprogettazione dei giar- 
dini di Villa Gamberaia, dove le aiuole in precedenza a roseto e ortaggi (Cazzato, 
1991:48) erano state sostituite con quattro vasche d’acqua, molti altri seguirono, 
fra cui a Villa I Tatti, dove nel 1907 Bernard Berenson ricostruiva con il supporto 
progettuale di Geoffrey Scott e Cecil Pinsent i giardini in stile italiano, mentre a 
Villa Medici di Fiesole nel 1915 lo stesso Scott, che ne era il proprietario, ripristi- 
nava in sintonia professionale con il collega e amico Pinsent i giardini all’italiana, 
in particolare il cosiddetto ‘Ìmodern garden’ del terrazzamento inferiore. 

Attivo in questo contesto internazionale, informato delle più recenti tendenze, 
studioso attento e consapevole in dialogo nel contemporaneo dibattito di restauro 
e progettazione del giardino, Giulio Guicciardini Corsi Salviati persisteva, seppur in 


442 


Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 





ambito diverso, nell’atteggiamento indagatore e umilmente prono alla continuità 
dello studio del nonno Bardo, erudito botanico. In biblioteca di villa a Sesto conser- 
vava numerosi testi, volumi e riviste anche in lingua inglese, aggiunti ai numerosi già 
presenti, quel corpus internazionale ottocentesco del nonno cui affiancò opere a Tui 
care di saggistica in architettura del giardino, di cui molte sulla storia in generale e sul 
revival del giardino formale cosiddetto all’italiana, nonché sui relativi orientamenti 
compositivi tanto di moda al tempo. Volumi quali Reginald Blomfield, 7he formal 
pass in England, 1891, Georg Sitwell, Ar. essay on the making of gardens del 1907, 
Harry Higgott Thomas, Zhe seal garden del 1910 e Ze garden at home del 1912 e 
Inigo Triggs, Garden Craft in _. del 1913 su cui in particolare il conte Giulio, 
perfettamente bilingue e affine anche per parentela al mondo anglofono, si formò da 
autodidatta come landscape architect e restauratore di giardini. 

Sostenuto dunque da una meticolosa preparazione teorica, Giulio aveva stu- 
diato sia i documenti storici che rilevato e disegnato lo stato di fatto della sua 
amata proprietà di Sesto, per poi successivamente vigilare lungo tutto il processo 
di ripristino da lui stesso posto in essere. In questo atteggiamento integrato di 
ricerca delle fonti, supportata da lunghe letture sia su carte antiche che su tratta- 
tistica contemporanea e di personale ponderata reinterpretazione, il conte si era 
poi trovato in assonanza con un famoso paesaggista statunitense. 

Un propugnatore del ripristino del giardino in stile sulla base di fonti archi- 
vistiche e artistiche ad esso afferenti, ma anche nel supporto di descrizioni con- 
temporanee, di immagini desunte da testi e relative ad altri esempi di giardini, 
affiancate ad eventuali tracce originali pervenute dall’antico: proprio quel Harold 
Donaldson Eberlein che il conte aveva incontrato di persona, concedendogli più 
di una visita nel suo giardino di famiglia. 

Donaldson Eberlein vide il giardino di Sesto nel 1921, con i lavori di restauro 
in parte ancora in corso d'opera, riportandone nella sua pubblicazione un disegno 
a schizzo privo di quelle parti non ancora terminate, le aree cioè verso l’antico 
selvatico e la zona di gusto paesaggistico di levante, dove mancavano ancora, oltre 
agli spartimenti quadrati introdotti da Giulio in collegamento alla facciata della 
villa, sia il teatro che il tennis. Probabilmente - e la pubblicazione del giardino 
di Sesto nel suo volume, accanto ad altre prestigiose quali Villa Cetinale e Villa 
Garzoni, e, a Firenze, Villa La Pietra, lo dimostra - Eberlein riscontrò una vici- 
nanza nella metodologia applicata a Sesto dal conte Giulio con le proprie teorie, 
di seguito esemplificate in sintetica enumerazione tratta dal suo volume Villas of 
Florence and Tuscany: “Fortunately, be recourse to certain reliable sources, we can 
pretty accurately envision the villa garden as they were prior to the late sixteenth 
century or the beginning of the seventeenth. These sources include (1) contem- 
porary descriptions and specific literary allusions; (2) contemporary paintings; 
(3) the text and illustrations of fifteenth and sixteenth century books treating 
in some measure of the art of garden design; (4) the body of general knowled- 
ge concerning Classical allusions to garden matters and asc descriptions of 
gardens; and, (5) finally, the remnants of early garden work still remaining to 
us” (Donaldson Ebelein, 1922:6). La sua attribuzione del giardino di Sesto al 
periodo barocco va quindi probabilmente interpretata anche come assonanza con 
l'orientamento restaurativo applicato dal conte Giulio che, sulla struttura storica 
di giardino effettivamente pervenuta nelle ultime trasformazioni barocco-rococò 
— la vasca, le ex-voliere, le limonaie, le fontane, gli spartimenti, la statuaria — vi 


443 


Claudia Maria Bucelli 





ricollocava, declinandole agli stilemi dell’epoca considerata ‘classica’ del giardino 
italiano, quindi in modalità semplificativa di linee e decorazioni convergente al 
‘purismo’ del giardino all’italiana allora declamato, quelle forme e varietà di vege- 
tazione ritenute le più appropriate al giardino sestese in quanto autoctone e aftini 
al suo periodo di maggior splendore. 

Nessuna delle trasformazioni poste in essere a Sesto era del resto stata affi- 
data al caso. Giulio le aveva sovrintese sotto ogni aspetto, suftragandole da at- 
tenti studi sulle carte dell'archivio di famiglia e da personali approfondimenti 
relativamente a orientamenti compositivi e progettuali coevi, puntigliosamente 
documentandole inoltre negli stati di avanzamento fino al risultato finale con 
ricostruzioni descrittive di schizzi, rilievi, ricomposizioni planimetriche e asso- 
nometriche - splendida la sua mano nel disegno tecnico e a mano libera, lui che 
era sia figlio che marito di pittrice e pittore a sua volta? - e affiancando alla testi- 
monianza grafica e descrittiva degli eventi e della propria modalità di intervento 
anche una ricca documentazione fotografica, proiezione più che mai realistica nel 
vivo fattuale del processo sia nel fieri che una volta concluso. 

Una preziosa testimonianza di rigorosa metodologia di restauro e illumina- 
ta interpretazione documentaria era dunque divenuto il giardino di Sesto tanto 
nella sua viva realtà quanto nel documento riassuntivo dell’intero processo di 
ripristino, ofterto dal conte nel 1937 alla comunità scientifica e al vasto pubblico 
di cultori e appassionati, attivi e operanti nella vibrante realtà cosmopolita del 
contesto fiorentino: la pubblicazione presso la storica casa editrice Leo S. Olschki 
di Firenze del raffinato volumetto dal titolo La Villa Corsi di Sesto. 

Con il giardino della villa di famiglia a Sesto Fiorentino il conte Giulio aveva 
in realtà non iniziato bensì proseguito - dopo le esperienze nelle avite proprietà di 
Lucignano e Gargonza in cui, riprendendo i contemporanei formalismi cosiddet- 
ti ‘classici’ del giardino all'italiana aveva ridisegnato spazi di semplicità geometri- 
ca, assialità e perpendicolarità di direttrici, vegetazione autoctona di sempreverdi 
con aree prative perimetrate da siepi topiate in bosso e cipresso e vasi di agrumi 
disposti in Ml e mezzeria dei segmenti formali delle aiuole - un’illuminata 
stagione di valorizzazione del patrimonio di famiglia (Bucelli, 2020: 130-132 ). 

Ma più coraggiosa e innovativa dei primi due esperimenti sul campo risultò 
essere l’approccio e la modalità di restauro nel giardino di Sesto, un restauro ben 
più complesso a causa dell’altrettanto complessa stratificazione storica del sito. 
Un intervento conseguentemente attentamente ponderato dal conte, teso a resti- 
tuire negli intenti il ritenuto primitivo splendore dell'impianto barocco - a suo 
giudizio reso disorganico e stilisticamente svilito dalle successive trasformazioni 
e superfetazioni, specialmente tardo ottocentesche - che aveva a suo tempo reso 





2. Figura ancora storiograficamente inesplorata, sensibile pittore, figlio di una pittrice, Francesca 


Corsi Salviati, che lo aveva introdotto al disegno dal vero educandolo alla disciplina nelle arti, e sposato 
ad una pittrice, Eleonora Pandolfini, formatosi umanisticamente con laurea in italianistica, affascinato 
dall’Umanesimo toscano e dalle arti rinascimentali, Giulio coltivò le sue doti artistiche applicandole 
alla contemplazione di luoghi della Toscana e proprietà di famiglia a lui care, come il castello di Gar- 
gonza, più volte ritratto, e all'opera del suo giardino di Sesto Fiorentino, la sua più nota, in cui applicò 
il proprio personale distillato di metodologia di restauro in dipendenza ma anche critica distanza da 
quell’ondata di revival classicista che soprattutto nel primo ventennio del Novecento veicolava i ripristi- 
ni del cosiddetto giardino all’italiana. 


444 


Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 





celebre il luogo, tra l’altro includendolo fra i siti rappresentati nelle Vedute di 
ville, e altri luoghi della Toscana di Giuseppe Zocchi i il conte Giulio prenderà 
a riferimento nel restauro, volutamente ripristinando quello che la stampa dello 
Zocchi raffigurava, cioè la villa ed il giardino proprio quando, grazie alle mi- 

liorie intraprese dal suo antenato marchese Antonio “avevano raggiunto la loro 
La più ricca e compiuta” (Guicciardini Corsi Salviati, 1937:34) È 

In questa finalità, proprio nella eletta prima residenza di famiglia della piana 
sestese era iniziata, immediatamente dopo la presa di possesso del conte Giulio 
Guicciardini Corsi Salviati, la dismissione Li giardino botanico del nonno, il 
Marchese Bardo Corsi Salviati/. 

Una dismissione lenta, talvolta dolente per gli splendidi altifusti, non ritenuti 
idonei al nuovo impianto, che vennero estirpati, circa la quale Giulio espresse 
chiaramente le proprie posizioni, consapevolmente sacrificando alla propria scel- 
ta un ingente, prezioso patrimonio botanico. 

Come egli stesso infatti puntualizzava, “nel 1907 alla morte del Marchese Bar- 
do Corsi Salviati, mio nonno, la villa di Sesto passò in mia proprietà. Ben presto 
intrapresi la trasformazione del giardino - per riportarlo, ove fu possibile, al suo 
stato primitivo, e il ripristino della villa, continuato in seguito con la collabora- 
zione di mia moglie, Eleonora Pandolfini”, dichiarando apertamente come “con 
la scorta della pianta del 1868 furono ricostituite, più fedelmente che si poté, le 
aiuole di bossolo. Quasi tutte le palme in piena terra furono tolte; quelle in vaso 
e gran parte delle piante da serra vennero sostituite con piante di limone” (Guic- 
ciardini Corsi Salviati, 1937:42). Per potere procedere con il restauro di ripristino 
Giulio aveva infatti continuato a smantellare, gradatamente ma ineluttabilmente, 
il ricco giardino esotico creato da Bardo, rimuovendo quasi tutte le palme inter- 
rate — lasciandone solo alcuni esemplari monumentali — e sfoltendo gli alberi nel 
perimetro del parterre. L'azione di diradamento raggiunse il culmine nel 1925 — 





3. In Vedute di ville, e altri luoghi della Toscana che registrano piante e vedute del Granducato in 


continuità da una parte con la tradizione toscana e in recezione dall’altra di stimoli esterni declinati 
dalla vedutistica nordica e da Gaspar Van Wittel. Firenze all’epoca non risultava ancora inserita nel 
Grand Tour dei viaggiatori interessati alle cose d’arte. Dalla committenza del marchese Andrea Gerini, 
interessato a far conoscere ed apprezzare la bellezza dei propri luoghi, scaturiscono immagini di Firenze 
e dintorni basate sulle architetture di un prestigioso passato, ma anche dell’epoca contemporanea, rap- 
presentando — in strutturazione in fasce orizzontali, segmentazione del paesaggio, impostazione a largo 
respiro - la struttura urbana e paesaggistica, il tessuto connettivo degli splendidi monumenti, un invito 
al viaggiatore. Cfr. La Toscana granducale del Settecento tra Medici e Lorena nelle vedute e nelle piante, in 
Città ville e fortezze nella Toscana del xviii secolo, Firenze, Cassa di Risparmio di Firenze, 1978, p. 8. 

4 All'epoca la proprietà di Sesto, come del resto la nobile casata, non si chiamava ancora Corsi 
Guicciardini Salviati. Fu Amerigo Corsi (1788-1860) che sposando sua cugina Giulia - il cui padre 
Francesco Antonio, fratello dello stesso Amerigo, aveva fin dal 1796, per estinzione del ramo maschile, 
unito al proprio cognome quello dei Salviati con autorizzazione del Magistrato Supremo — estese al 
proprio figlio e successore Francesco Antonio il cognome Corsi Salviati. Morto poi Francesco Antonio 
(1814-1878), figlio di Amerigo e Giulia, con il figlio di lui, marchese Bardo Corsi Salviati (1844-1907), 
veniva ad estinguersi una seconda volta il ramo maschile della famiglia. La sua unica figlia Francesca, 
sposata al conte Lodovico Guicciardini, diede alla luce Giulio Guicciardini (1887-1958) che nel 1911 
ottenne con patente reale di aggiungere al proprio cognome quello materno dei Corsi Salviati. Egli 
ereditò dal nonno Bardo, oltre ad altre estese proprietà, la villa di Sesto, che da quel momento assunse 
il nome di Villa Guicciardini Corsi Salviati. 


445 


Claudia Maria Bucelli 





proseguendo dunque anche dopo la fine dei lavori di restauro stilistico gli ultimi 
grandi abbattimenti - con il taglio di alcune palme di proporzioni eccezionali, 
di un Liriodendron tulipifera e di un platano secolare. Dove fu liberato lo spazio 
si procedette poi alla ricostituzione del prato, che presso la ripristinata galleria a 
levante richiese l'abbattimento di grandi esemplari di cedri deodara?. 

Consapevole tuttavia di come l'identità del giardino si fondasse sulla strati- 
grafia delle modifiche succedutesi nei secoli, pur perseguendo un'armonia clas- 
sicheggiante nell’alternanza di ariosi spazi e volumetrie in vegetazione autoctona 
- scelta peculiare del conte Giulio che vuole ripristinare il giardino originale, in 
evidente personale reinterpretazione legata alla cultura del momento, anche nella 
sua componente vegetale, utilizzando alloro, cipresso, leccio, bosso e rose — volu- 
tamente preserva “anche il giardino romantico, corrispondente pure esso ad uno 
stile e meritevole di essere mantenuto anche da un punto di vista storico artistico” 
(Guicciardini Corsi Salviati, 1937:45) rispettando dunque le preesistenze e sal- 
vando con parte del giardino ottocentesco anche il laghetto e l’isola. 

Un'azione restaurativa sensibile e ponderata dunque, affine a concetti di tutela 
e di conservazione definiti e approfonditi solo in anni successivi, interrotta durante 
la prima guerra mondiale dopo l’intervento sul parterre, ricostruito in piano con 
siepi geometriche di bosso. Un disegno diverso, quello ivi proposto, che semplifica 
la linea barocca originaria in lineare, misurata, geometria. L'approccio del conte è 
evidentemente slegato dalla pedissequa riproposizione del ii storico originale 
nella giustificazione di una maggiore attinenza con l’architettura di villa, e in questa 
rinnovata attitudine proprio nei pressi del parterre Giulio riprenderà i lavori nel 
1921. Qui modificherà il bosco dei lecci - un tempo il selvatico — orientandolo in 
geometria volumetrica regolare su disegno di griglia a maglie quadrate, rettifican- 
done i vialetti tortuosi e squadrandone anche le dini “ebbi cura di raccordare le 
linee con quelle dei fabbricati e di meglio collegare il giardino a bossolo alla villa con 
la parte del bosco all'inglese rimasta intatta” (Guicciardini Corsi Salviati, 1937:45). 
Un esplicito ricongiungimento di linee e volumi non solo all’architettura ma anche 
alle geometrie del parterre, pur mantenendo una potatura sfumata agli altifusti per 
ottenere una saldatura graduale fra le linee sagomate e le libere chiome delle querce 
in ricucitura formale verso le forme più naturalistiche del giardino all'inglese. 

Ripristinando poi la galleria a statuaria al posto della serra esotica a levante e 
rimuovendo inoltre la serra delle orchidee, esplicitamente costruita dal marchese 
Bardo presso la Loggia del Bacchino per le sue splendide collezioni, Giulio ancora 
intervenne in maniera decisa, ricollocando nei pressi il lastrico a terra così come 
dalla stampa dello Zocchi, mentre tutte quelle parti a giardino paesaggistico ca- 
ratterizzate da boschetti e aiuole collinose, marginate da recinzioni rustiche a sco- 
glio - che includevano anche una grotticina con vegetazione idrofila - venivano 
man mano mitigate, poi dismesse, e gradualmente le specie esotiche sostituite 
con quelle autoctone e con limoni in vasi di terracotta®. 

Quella famosa pianta ottocentesca datata 1865 da lui menzionata che costituì il 
supporto ui a guida del suo perseguito processo restaurativo era stata redat- 





?. Osservazioni desunte dagli studi dei reportages fotografici del conte Giulio Guicciardini Corsi 


Salviati, AGCS album fotografici 1919-1922, 1924-1927 e album fotografico senza data e non rilegato. 
6 Osservazioni desunte dagli studi dei reportages fotografici del conte Giulio Guicciardini Corsi 


Salviati, AGCS album fotografico 1899-1902. 


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Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 





ta assieme ad altre proprio dal conte Guicciardini Corsi Salviati sulla scorta, oltre che 
dei personali rilievi, di planimetrie in suo possesso risalenti al xviii e xix secolo. 

Un nutrito corpus di raffinati disegni planimetrici e assonometrici erano infat- 
ti stati eseguiti da Giulio — si tratta di attente ricostruzioni delle trasformazioni 
del giardino succedutesi nei secoli e da lui riportate graficamente sulla base degli 
studi sui documenti di famiglia - testimonianza del suo impegno nel ripercor- 
rere e comprendere gli eventi e i cambiamenti che avevano interessato il luogo. 
Un'operazione colta e lungimirante, evidentemente debitrice del contemporaneo 
dibattito sui giardini storici. 

Già Percier e Fontaine, che nel 1809 avevano pubblicato a Parigi la Choix 
des plus célèbres maisons de plaisance de Rome et de ses environs, prima raccolta 
organica di PIECE di ville e giardini italiani, affrontando il tema della resti- 
tuzione grafica nell’illustrazione di giardini di e attorno a Roma, deploravano 
la mancanza di planimetrie e dettagli di residenze e giardini romani dagli autori 
precedenti, fra cui Falda e Piranesi, e sottolineavano Î importanza di rilievi plani- 
metrici in scala, ben più esplicativi di vedute soggettive ad effetto. Un approccio 
scientifico era quello da loro scelto e applicato, sistematico alla restituzione dello 
stato di fatto dei giardini: “fedeli al principio precedentemente illustrato, abbia- 
mo ritenuto opportuno dover presentare ke cose come ci è sembrato siano state 
immaginate nella primitiva disposizione, disegnando solo quella parte di giardi- 
no che a nostro avviso presentava qualcosa di significativo” (Cazzato, 1990:42). 

Un'esortazione, questa, ampiamente raccolta dal conte Giulio, probabilmente 
nel filtro della lettura del Triggs, che assieme ad altri autori farà riferimento a Per- 
cier e Fontaine nei propri scritti, sottolineando come là ove l'illustrazione grafica 
dei giardini si concentrasse su modalità prevalentemente pittoriche tali luoghi di 
delizia non potrebbero essere adeguatamente compresi nel loro disegno, esten- 
sione e caratteri. Emergeva quindi come essenziale che fotografie ed eventuali 
opere pittoriche fossero integrate da precisi rilievi in scala, così permettendo una 
trasmissione di informazioni corretta, utile per il progettista (Cazzato, 1990:43). 

Un problema, quello di un preciso rilievo e restituzione grafica, e di una paral- 
lela accurata ul di dati documentari - cui il conte Giulio dedicherà tempo 
ed energie per Sesto - che era evidentemente sentito già dagli inizi del Novecento 
non i come momento di conoscenza, ma anche come attitudine precipua- 
mente progettuale. Un orientamento manifesto anche nel volume di Shepherd e 
Jellicoe, che nell’ottica del disegno implementarono con innovazioni importanti, 
di eleganti planimetrie, alzati e sezioni, frutto di attenti rilevamenti eseguiti sul 
campo e restituiti graficamente in raffinata modalità incline all'ipotesi ricostrutti- 
va: “disegnate in maniera eccellente e presentate in una scala opportuna, indicata 
di volta in volta, sicché le singole parti possono essere oggetto di misurazioni”. 
Una scientificità che si coniugava dunque intrinsecamente con il ‘restored plan’, 
dichiarato o sottinteso (Cazzato,1990:42, 45, 46). In maniera analoga il conte 
Guicciardini Corsi Salviati - su supporto di una personale ricostruzione storica 
fin dai primissimi anni del xvi secolo, quando la famiglia Corsi entrò in possesso 
della proprietà di Sesto — documentò tutte le vicende occorse nell’arco di più di 
quattro secoli”, procedendo alla restituzione degli stati di fatto antecedenti il pro- 


7. Per una più approfondita conoscenza delle trasformazioni succedutesi nel giardino di Sesto 


dall’acquisto in poi si rimanda ai contributi riportati in bibliografia. 


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prio intervento di ripristino. In ultimo aggiunse una planimetria e due splendide 

rospettive a volo d uccello dell'intero complesso dopo i restauri, una presa da 
Lui e una da ponente, corredando quindi la puntuale relazione dei di di 
cantiere di dettagliate tavole di propria mano a rappresentazione dello stato di 
fatto finale, dove incluse anche l'inserimento paesaggistico della maglia dei campi 
attorno e della ragnaia, incremento immancabile in relazione a un contesto di 
villa che proprio dal paesaggio circostante trae la propria sussistenza e dinamica 
identitaria. 

Un restauro dunque annunciato fin dai primi disegni di rilievo, rappresentan- 
do lo stato antecedente ritenuto più significativo, la “Lema più ricca e compiuta” 
(Guicciardini Corsi Salviati, 1937:34), per citare nuovamente il conte Giulio, 
quello stato dunque che si voleva recuperare restaurando. Un'immagine quasi 
ideale, il sito nel momento del suo massimo splendore, anteriore alle trasforma- 
zioni più recenti e alle eventuali perdite sopravvenute (Cazzato,1990:43). 

Tutti documenti, i disegni del. Conte, conservati in villa a Sesto. In particolare 
quattro tavole che riproducono lo stato del giardino nel 1644, nel 1704, nel 1868 
e negli anni ’20, quest'ultima una veduta a volo d’uccello di villa e giardino inne- 
stato alla trama del paesaggio circostante, con in particolare la splendida ragnaia 
bagnata incernierata sul confine di villa a sud ovest. Una veduta che inquadra 
l’intero ripristino sullo stile cosiddetto all'italiana operato dal conte, seguita nel 
1935 da una planimetria che riproduce anche (ii ricostruita davanti all’in- 
gresso principale della villa sul lato nord. Anche questi disegni, prezioso corredo 
alle notizie storiche emerse dalle lunghe ricerche sulle carte di famiglia, verranno 
pubblicati da Giulio nel volume edito nel 1937. 

Sia Donaldson che Shepherd e Jellicoe avevano incluso alla descrizione di Se- 
sto un rilievo del sito nella sua intima, essenziale connessione al paesaggio agrario 
circostante, sottolineando l'aggancio del lungo viale dei pini e di quello dei ci- 
pressi che fronteggiavano dai campi coltivati del “podere sopra il palazzo”, quello 
a settentrione, proprio davanti l’ingresso principale della villa sulla via Maestra 
di Sesto, attuale via Antonio Gramsci, controparte al lungo, maestoso asse della 
ragnaia e ai suoi limitrofi percorsi di passeggio sul ‘podere del palazzo’, quello 
cioè dirimpetto il fronte meridionale dove il muro di cinta del giardino dialoga 
nei suoi accessi e statuaria con il paesaggio dei campi coltivati a sud. Shepherd 
e Jellicoe avevano inoltre affiancato un reportage fotografico* al loro raffinato 
rilievo planimetrico acquerellato nella cui didascalia specificavano come solo il 
labirinto e il teatro fossero all’epoca opere di recente realizzazione — là dove Giu- 
lio era invece intervenuto ampiamente nel suo restauro di ripristino su tutto il 
giardino, aggiungendo poi ex novo il teatro di verzura e il tennis — concessione 
alla componente Mu... della famiglia, usa agli sport del tennis e della vela, 
ma anche alla moda dell’epoca - ma ricostruendo con il labirinto, seppur in libe- 
ra interpretazione formale per mancanza di documentazione storica, quello che 
effettivamente a Sesto era esistito. Il conte Giulio aveva poi anche proceduto alla 
ricollocazione dell’emiciclo davanti all'ingresso principale della villa sulla cosid- 





8 Le fotografie pubblicate dai due autori, più altri scatti di documentazione dell’opera di rilievo 


sono presenti in copia presso l'archivio di famiglia in villa a Sesto e raccolte in AGCS, Album Fotogra- 


fico 1923-1924. 


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Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 





detta ‘strada militare’, da lui descritta come “la via maestra che incurvandosi tra 
due muretti, a semicerchio, in corrispondenza della villa, se ne distaccava, così da 
lasciare dinanzi a questa un piazzale a completamento e maggior vaghezza della 
facciata” (Guicciardini Corsi Salviati, 1937: 38) in riferimento allo stato di fatto 
riportato in una planimetria del 1644 e ricomparsa nel disegno di Shepherd e Jel- 
licoe con nota autografa che cita: “the curved approach to the house was destro- 
yed fifty years ago”. Un emiciclo all’epoca non ancora ricostruito, probabilmente 
specificato loro a voce dal conte, che nel breve ne porrà in essere la ricostruzione 
sulla base di precise descrizioni documentarie e personali rilievi. 

Trasposizione di un modello appartenente alla memoria del Barocco, integra- 
zione riallacciata alla tradizione del giardino secentesco di villa, che di sovente 
annovera il teatrino di verzura, il teatro nel lato est del giardino fu un intervento 
a lungo ponderato dal conte Giulio. Lo testimonia il ricco materiale di studio, fo- 
tografie, rilievi, schizzi, relativo a teatri storici dei giardini toscani — quelli di villa 
reale a Marlia, di villa Gori a Siena, quest'ultimo considerato un modello ideale 
da copiare e manipolare - ma anche del Teatro Niccolini in Firenze, per verificare, 
come annotato a penna, “le proporzioni del teatro nel giardino di Sesto”. Co- 
struito sullo spazio davanti alle serre di levante ripristinate in galleria di statuaria 
riportato a prato rettangolare liberandolo dagli alti cedri che vi avevano dimora, 
proprio sul terrapieno di quella vicina montagnola da cui si generava il torrente 
che alimentava il lago della parte paesaggistica del giardino, il teatro di verzura 
prese luogo seguendo il disegno desunto da una stampa contenuta in Garden 
Craft in Europe che riproduceva il giardino di Mirabell a Salisburgo. Proprio da 
questo fu inoltre tratto lo spunto per erigere le scalette laterali che collegano il 
palcoscenico alla platea. Ad ulteriore conferma del rapporto casa giardino, questa 
realizzazione ludico-estetica si collocava proprio sull’asse prospettico con la fac- 
ciata est della villa, quella che volge verso il prato. 

“Il teatro all'aperto è diventato ormai un'istituzione”, si leggeva sulle pagine 
di una rivista americana degli anni venti, e quello di verzura era solo una delle 
possibili soluzioni a disposizione del progettista di nuovi giardini Oltreoceano 
(Cazzato 1995: 226). Erano, quelli, gli anni in cui i modelli italiani, soprattutto 
del senese e della lucchesia, erano oggetto di particolare attenzione, soggetto di 
contributi storiografici e fonte di ispirazione costante nella riproposizione in in- 
numerevoli declinazioni compositive del modello del giardino italiano e dei suoi 
elementi costitutivi, essendo probabilmente “una delle tante risposte (...) (alla) 
vita condotta al giorno d’oggi da una ricca famiglia americana in una residenza di 
campagna, che ricorda i dell’aristocrazia italiana ai tempi del Rinascimento; 
e questo lo dimostra nel modo più evidente il fatto che il palazzo e il giardino 
italiani rispondono appieno alle esigenze dell'alta borghesia moderna americana 
(Cazzato, 1995: 228, 230). 

Di ritorno, seguendo gli orientamenti all’epoca influenzati anche dalla comu- 
nità angloamericana e dalle proprie personali [iure da autodidatta - vedi Triggs, 
che citando il teatro di Villa Gori aggiungeva “così caratteristico e di dimensioni 
così modeste, potrebbe facilmente essere impiantato in qualche moderno giardi- 
no e costituire un’attrattiva che ben ripagherebbe dei costi per la sua realizzazione 
(Iriggs, 1906: 89, 90) - anche Giulio ne traccia numerosi schizzi di studio in 
funzione della proposta collocazione di un teatro di verzura nel proprio giardino. 
Luogo già designato dal xviii al xix secolo a rappresentazioni teatrali, feste e ce- 


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rimoniali mondani, venne ripresentato anche nel xx secolo, che dedicò un’atten- 
zione tutta particolare al teatro di verzura là dove le quinte verdi riproponevano 
il procedimento tipicamente barocco di doppia finzione del giardino A imita il 
teatro, che a sua volta imita la natura. Il teatro di vive quinte verdi come un’opera 
d’arte fine a se stessa dunque, una virtuosistica esercitazione nell’ambito dell’ars 
topiaria (Cazzato, 1995: 13, 15). Una novità mai apparsa prima a Sesto e che il 
Conte inserisce, assieme al tennis, ex novo, così come, potremmo dire, il labirin- 
to, pur esistito e citato nei documenti, ma per il quale, non conoscendo né forma 
né collocazione dell’originale, Giulio inventa collocazione, forma e dimensioni in 
adeguamento al sito e in omaggio alla moda del tempo. 

È interessante osservare l'atteggiamento del conte Giulio Guicciardini Corsi 
Salviati. Studia vari esempi di teatro - e così farà per le sistemazioni paesaggistiche 
del tennis e del labirinto - fissando spunti in note di propria mano e schizzando 
varie ipotesi progettuali. E lo fa non limitandosi ad una pedissequa riproposizio- 
ne di stilemi e dimensioni codificate dalla letteratura - |. del resto ben conosce 
- ma progettando, nel senso più ampio del termine, in preciso riferimento al 
sito e in costante confronto di documentazione grafica e fotografica che oggi, 
dall’archivio di Sesto, si rivela particolarmente preziosa, consentendo di cogliere 
i passaggi del restauro fino a compimento dei lavori. 

Giulio documenta anche le fasi preliminari di studio, con schizzi e reportages 
dai teatrini di villa Reale a Marlia, di Villa Gori a Siena e con disegni per i lavori 
di realizzazione del teatro di verzura nel prato est della villa, dove l’attiva presenza 
del giardiniere Eugenio Ragionieri si offre, nel sorreggere la canna metrica du- 
rante le procedure di misure per il collocamento della statua, davanti all'obiettivo 
dio del padrone per uno scatto così didascalizzato: “La statua di Apollo 
per la piantagione del teatro”?. 

La collocazione del teatro venne scelta dal conte Giulio - affiancandosi alle in- 
dicazioni del Triggs - sull’asse di simmetria del lato a levante della villa davanti al 
quale si apriva l'ampio spazio erboso liberato dai cedri deodara del nonno, cosicché 

il pubblico non dovesse incomodarsi a uscire di casa, in quanto il palcoscenico è 
visibile nella sua interezza dalla finestra del primo piano” (Iriggs, 1906:58). 
Una prima ipotesi di progetto aveva previsto la collocazione di una statua 
reco-romana raffigurante il dio Apollo al centro dell’ aiuola prativa delimitata ai 
Gi da basse siepi di bosso a ridosso della cavea teatrale, punto focale di mediazio- 
ne prospettica che consentisse una misurata percezione dello spazio fin dal salone 
della villa. Successivamente la sistemazione dii vide la statua collocata die- 
tro la platea, in fondo allo spazio erboso sopraelevato del palcoscenico, racchiusa 
in nicchia e circondata da cortine sagomate di tasso e cipresso - spalleggiate da 
esemplari colonnari - e quinte di bosso, e con la buca del suggeritore mascherata 
da una calotta ricoperta di edera. La lunga distanza prativa - il palcoscenico e 
la villa enfatizzava l’effetto prospettico amplificando ulteriormente la percezione 
fra edificio, giardino e spazio teatrale. Pochi anni, tuttavia, e la platea verrà sman- 
tellata, relegando il teatro a mero fondale scenografico contrapposto all'edificio. 
Nonostante lo studio e l’impegno profusivi, non sarà il teatro realizzato dal 


° Le fasi della costruzione del teatro di verzura a Sesto sono documentate dalle fotografie del 


conte Giulio, ordinatamente raccolte in album, cfr. AGCS Album fotografico 1921-1922. 


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Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 





conte nel suo giardino sestese quello che, fra i vari teatri di verzura ricostruiti e 
riprodotti nelle pubblicazioni di inizi Novecento, otterrà particolare riconosci- 
mento. Anzi, forse proprio quello di Villa Guicciardini Corsi Salviati a Sesto 
Fiorentino sarà l’unico a non riscuotere apprezzamento, venendo brevemente 
citato solo da Shepherd e Jellicoe: “Il teatro, al pari del labirinto, è realizzazione 
moderna” (Shepherd e Jellicoe 1925: 57). 

Immediatamente dietro i volumi sempreverdi del teatro di verzura, quasi ce- 
lato nel giardino paesaggistico, venne realizzato un campo da tennis per il quale 
Giulio tracciò, accanto ad un rilievo del sito dove era destinato, numerosi schizzi 
e disegni esecutivi completi di tutte le dimensioni. Non escluse neanche l’ipote- 
si di una consistente siepe circuitale con affiancati piccoli parterres de broderie, 
ipotizzando una i. collocazione, precedente a quella infine prescelta, nel 
prato davanti alla ripristinata galleria. 

Concedendo una suppletiva libertà al rigore filologico del restauro, fu in tan- 

enza al muro perimetrale che venne inserito un labirinto di bosso. Di un “la- 
na a bossolo” (Guicciardini Corsi Salviati, 1937:46) si aveva traccia storica 
nel giardino, documentata tra il 1733 e il 1740. Era stato dopo breve tempo 
soppiantato da un pomario, al quale si accedeva da quattro entrate del muro di 
confine. “Non restando indicazioni dell’antico laberinto, mi ispirai al laberinto 
del Castello Reale di Hampton Court presso Londra, in quanto è del tipo che 
chiameremo a false piste o cammini chiusi, che ne rendono difficile il percorso, 
mentre il tracciato dell’altro tipo di laberinto, che è forse quello più comune, 
è dato da un unico sentiero, seguendo il quale si arriva senza fallo al centro e 
da questo si torna immancabilmente all'uscita, leggermente modificandolo per 
adattarlo alle proporzioni dello spazio disponibile” (Guicciardini Corsi Salviati, 
1937:46). 

Con il completamento nel 1922 di questi ultimi episodi il restauro del giardi- 
no di Sesto poté considerarsi concluso. La reputazione e la notorietà acquisite dal 
conte Giulio Guicciardini Corsi Salviati nel suo ruolo di progettista di giardini 
venne successivamente suggellata dalla ‘Mostra del giardino italiano’ tenutasi a 
Firenze nel 1931!° - del cui comitato esecutivo Giulio fu membro permanente 
- che aprì il 24 aprile 1931 occupando oltre cinquanta sale di Palazzo Vecchio. 

Se quindi numerosi erano stati i rilievi di giardini italiani da parte dei fellows 
dell’Accademia Americana di Roma, tanto che nel catalogo della mostra Ugo 
Ojetti deplorava come: “oggi, fuori d’Italia, specie nel init con l’osten- 
tato ritorno alla ragione nell’architettura, il giardino all’italiana torna di moda, e 
la Mostra viene perciò all’ora opportuna; (...) architetti stranieri vengono in folla 
a studiare i nostri giardini e le nostre ville anche là dove della ubi non 
restano che poche reliquie. I pochi accurati disegni e rilievi moderni delle nostre 
ville, esposti nella mostra, sono di architetti americani” (Cazzato,1990:45), era 
anche vero che l’intervento di restauro operato a Sesto dal conte Giulio - una 
delle poche voci nazionali a veicolare la riproposizione identitaria e stilistica del 
giardino all'italiana in un contesto signoreggiato da personalità angloamericane 
- offriva un corpus grafico particolarmente nutrito. Fra l'apparato documenta- 


1° Cfr. Mostra del giardino italiano, Catalogo della Mostra, a cura di U. Ojetti, (Firenze, Palazzo 


Vecchio 1931) Firenze, 1931. 


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rio che arricchiva questo prestigioso evento fiorentino, che tanta influenza avrà 
sui restauri operati negli anni successivi, imponente risultava infatti il materiale 
relativo al parterre neobarocco della fiorentina Villa Corsi Guicciardini Salviati. 
Furono circa sessanta i disegni, compresi alcuni teatri di verzura, esposti relati- 
vamente a Sesto in occasione della mostra (Cazzato,1995:248), ospitati in due 
stanze nella sezione “Giardini e ville di Firenze e dintorni”, dove trovarono la 
loro collocazione anche i disegni della villa pubblicati a suo tempo da Shepherd 
e Jellicoe e quelli preparati Ullihico H. Manceau, fellow dell’Accademia 
Americana di Roma nel 1925. Fu dunque il giardino Corsi Guicciardini Salviati 
di Sesto Fiorentino quello più documentato, grazie anche al lavoro di ricerca svol- 
to anni prima dal conte i vi incluse né mappe, planimetrie, prospettive 
a volo d'uccello, particolari decorativi e naturalmente la collezione di fotografie 
della villa a partire dal 1888 e quelle relative ai dipinti e affreschi custoditi sia 
dentro che fuori la villa!!. 

Pur avendo operato in relativa libertà legislativa, senza vincoli di natura norma- 
tiva relativi al tema del giardino — solo nel 1909 (e successive integrazioni nel 1912 
e 1922) entrò infatti in vigore la legge sulle Antichità e Belle Arti per la protezione 
di opere di interesse artistico, archeologico e storico, comprendente anche gli ele- 
menti vegetali che concorressero a definire la bellezza di paesaggio, tuttavia man- 
cando esplicita menzione ai giardini storici - la sensibilità del conte Giulio recepì 
il problema e in un periodo Li di dibattiti culturali in materia di restauro offrì 
un approccio personale, ponderato, esaustivo e sperimentato. Una metodologia 
attuale e innovativa, anticipatrice in alcuni passaggi delle parole di Cesare Bandi 
“il restauro è il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella 
sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica in vista della tra- 
smissione al futuro” che sembrano riecheggiare quelle del conte Giulio, che aveva 
riconosciuto il giardino come opera d’arte, esplicitamente dichiarandolo: “l’arte 
di questo e dei giardini settecenteschi non è soltanto forma abile e ricca quanto si 
voglia, ma forma e non altro. È arte invece, proprio attraverso le architetture fanta- 
siose, le piante costrette a vegetare dove e come si vuole, le acque ridotte a scorrere, 
a cadere, a zampillare captive, è arte non meno di altre umana” (Guicciardini Corsi 
Salviati, 1937:97). Un’opera d’arte che può essere restaurata secondo l’istanza stori- 
ca o estetica — o entrambe, come a Sesto - in base alla coscienza e alla sensibilità del 
professionista, e dove le aggiunte effettuate nel corso dei secoli - che abbiano però 
acquisito valore di unità con il contesto - non devono essere eliminate, pena l’al- 
terare l’unità stessa dell’opera. Vanno invece mantenute come testimonianza della 
cultura del periodo che le ha prodotte. 

Capace di dialogare con la stratificazione storica e di percepire il giardino 
come entità diacronica integrata, in cui procedere con interventi risolutivi ma 
meditati in consapevole riflessione, il conte Giulio Guicciardini Corsi Salviati 
continuò a lavorare ai fini di integrare la preservazione dell’opera da lui por- 
tata a termine, la ‘liberazione’, tale era il suo sentire, del giardino di Sesto. Nel 
1947, dopo gli accadimenti della guerra che ne ferirono alcune parti a seguito 
dei bombardamenti, procedette dunque nel tentativo di vincolare anche ai sensi 


!! Perl’elenco completo delle opere presentate alla mostra, specificamente per il materiale offerto 


dal conte Giulio Cfr. Mostra del giardino italiano, cit., pp. 114-115. 


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Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 





della legge 1089 del 1939 “Tutela delle cose d’interesse artistico 0 storico” questa 
proprietà a lui e a tutta la famiglia particolarmente cara'?. Richiese dunque alla 
Soprintendenza di Firenze le copie del primo atto di tutela, da lui richiesto nel 
lontano 1913, che fu il primo passo in questo spirito di salvaguardia, con il quale 
la villa in interno ed esterno veniva dichiarata di importante interesse e quindi 
sottoposta alle disposizioni di tutela. Il giardino verrà poi vincolato con DM del 
27.8.1966 e la ragnaia con un'integrazione del 31.7.1988. 


Appendice 


Vincolo artistico sulla Villa di Sesto 


Soprintendenza ai monumenti delle Provincie di Firenze, Arezzo e Pistoia 
Palazzo Pitti, Firenze 24 novembre 1947 


Conte Giulio Guicciardini Corsi Salviati 

Prot. N. 3/34 Class A1028 

Risp. a lettera in data 20 novembre 

Oggetto: Sesto Fiorentino — Villa Corsi Salviati 


A richiesta della S.V. si trasmettono due copie dell’atto di notifica per importante 
interesse artistico relativo alla villa in oggetto. 

Il Soprintendente 

Prof. Armando Vené 


Ministero della Istruzione Pubblica 
Visto l'art. 5 della legge 20 giugno 1909, n. 364 


Sulla richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione le sottoscritte messe comu- 
nale di Firenze, ho notificato al signor Conte Giulio Guicciardini Corsi Salviati 
domiciliato in Firenze: 

che la Villa Corsi Salviati, era di sua proprietà, nel comune di Sesto Fiorentino, 
tanto all’esterno quanto nel suo interno ed annessi, per quelle che rifletta l’arte e 
la storia; ha importante interesse ed è quindi sottoposta alle disposizioni conte- 
nute negli articoli: 5,6, 7, 13, 29, 31, 34 e 37 della citata legge e nell’art. I della 
legge 23 Giugno 1912 n. 681. 

E affinché abbiasi di ciò conoscenza a tutti gli effetti di legge ho rilasciata copia 
della presente all'indirizzo di cui sopra, consegnandola ll mani di: Dei Luigi, 
Portiere 


18 Luglio 1913 
Il Messo Comunale 
(firma illeggibile) 


Per copia conforme all'originale, il soprintendente Prof. Armando Vené 


12 Per il documento di vincolo cfr. AGCS, Filza ‘Patrimonio’, Cartella ‘Vincolo artistico della 


Villa di Sesto’ e il testo integrale, riportato in appendice. 


453 


Claudia Maria Bucelli 





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AGCS - Archivio Guicciardini Corsi Salviati nella villa di Sesto Fiorentino. 


Ringraziamenti 


Ringrazio il Dott. Corso Aloisi de Larderel e tutti i membri della famiglia per 
avermi permesso l’accesso ai documenti presso l'archivio della Villa Guicciardini 
Corsi Salviati a Sesto Fiorentino. Sono inoltre amichevolmente debitrice alla gen- 
tilezza del Dott. Antonio Mazzinghi che ringrazio per le preziose informazioni, la 
disponibilità e il professionale supporto accordatomi durante le fasi della ricerca. 


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Claudia Maria Bucelli 





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Fig. 1: Harold Donaldson Eberlein, disegno a schizzo eseguito a Sesto nel 1922 a p. 399 privo di quelle 
aree del giardino ancora non ripristinate dal conte Giulio, cioè, gli spartimenti quadrati a sud-est in 
collegamento alla facciata della villa e l’area mantenuta a gusto romantico, il labirinto, il teatro e il 
tennis a levante. 


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Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 








Fig. 2:J. Shepard e G. Jellicoe, rilievo del giardino di Sesto, in Italian gardens of the Renaissance, 1925, p. 
57. L'elegante planimetria del disegno, frutto di precisi rilievi eseguiti sul campo e restituiti graficamente 
in raffinata modalità, riporta quanto non ancora riscontrato da Donaldson Eberlein, cioè gli spartimenti 
e il labirinto e il teatro, nel frattempo realizzati, ma non ancora il tennis. 


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Claudia Maria Bucelli 








Fig. 3: L'impianto del parterre davanti alla villa nell’opulenza esotica e multispecifica voluta dal Marchese 


Bardo Corsi Salviati in Album Sesto, 1888, AGCS, inv. AfA.02. 


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Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 









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Fig. 4: L'impianto del parterre davanti alla facciata della villa declinato dal conte Giulio Guicciardini 
Corsi Salviati agli stilemi ‘classici’ del giardino italiano, in semplificazione di linee e varietà botaniche 
in affinità al ‘purismo’ del giardino all'italiana, in Album Fotografie di Famiglia, 1924-1927, AGCS, 
inv. AfG.13. 


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Claudia Maria Bucelli 





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Fig. 5: Particolare delle aiuole in bosso ridisegnate dal conte Giulio davanti alla facciata della villa 
declinato in semplificazione e affinità agli stilemi ‘classici’ del giardino italiano, in Album Fotografie di 


Famiglia, 1924-1927, AGCS, inv. AfG.13. 


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Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 








Fig. 6: Giulio Guicciardini Corsi Salviati, schizzo planimetrico del teatro di verzura per il giardino 
di Sesto previsto dal conte Giulio sul lato est del giardino, nello spazio davanti alle serre di levante, 
riportato a prato rettangolare con l'abbattimento di alcuni alti cedri, e realizzato in asse alla facciata est 
della villa seguendo il disegno desunto dal teatro del giardino di Mirabell. Matita su carta in AGCS, 
Fascicolo Sesto. Progetti e lavori alla villa, giardino, ecc, carte sciolte. 


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Claudia Maria Bucelli 





Fig. 7: Giulio Guicciardini Corsi Salviati, studio dei prospetti del fronte principale per il teatro di 


verzura pe il giardino di Sesto. Matita, china e acquerello su carta in AGCS, Fascicolo Sesto. Progetti e 
lavori alla villa, giardino, ecc, carte sciolte. 


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Un esempio di restauro fra storia e interpretazione. 
Il Giardino Guicciardini Corsi Salviati a Sesto Fiorentino 









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Fig. 8: Giulio Guicciardini Corsi Salviati, Prospettiva a volo d’uccello del giardino Guicciardini Corsi 
Salviati di Sesto Fiorentino rappresentativa dello stato di fatto finale dopo i lavori di ripristino operati 
dal conte Giulio con l'inclusione del contesto paesaggistico della maglia dei campi coltivati del ‘giardino 
campagna’ attorno, e dell’innesto della splendida ragnaia bagnata incernierata sul confine a sud ovest, 
1922 ca, matita su carta, Villa Guicciardini Corsi Salviati, Sesto Fiorentino, da Pettena G. Pietrogrande 


P. Pozzana M.C., (1998, a cura di): 49. 


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Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 





FEDERICO GEGCANTI 


“E Scornio sol, gli Orti d’Armida ha vinto”! con questo verso che da solo 
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basta a riassumere lo splendore raggiunto nel quinto decennio dell'Ottocento, 

uando ebbe compimento, il giardino Puccini presso Pistoia, appunto nel luogo 
Lo Scornio, con i suoi prati e boschi, le ben ordinate e curate coltivazioni, le 
piante e i fiori rari, i laghi e i ruscelli, i romantici manufatti neomedioevali e le 
fabbriche classiche, godeva già da tempo di vastissima notorietà ed era meta am- 
bita di ricchi e colti visitatori. 

Perduta la sua continuità fisica per un intervento infrastrutturale già poco più 
di un decennio più tardi, diviso successivamente fra diversi proprietari, danneg- 
giati o scomparsi molti manufatti, completamente modificato nella copertura 
arborea e, soprattutto, per quanto riguarda la parte pubblica, inserito in uno 
squallido contesto di periferia urbana che ne altererebbe la percezione anche se si 
trovasse ancora in intrinseche buone condizioni, ha perso quasi del tutto l’antico 
fascino che solo alcuni particolari tra loro sconnessi e disarticolati riescono anco- 
ra in qualche modo e in qualche caso ad evocare. 

Un elemento che lo contraddistingueva ulteriormente e che forse più di tutti 
gli altri contribuiva a renderlo unico era dato da una ricca serie di monumenti 
ai Grandi Italiani fatti erigere da colui che ne era stato, di fatto, i creatore, il 
nobiluomo pistoiese Niccolò Puccini, notissima figura di filantropo e mecenate, 
con l'intento di suscitare sentimenti di amor di patria e stimolare il desiderio del 
riscatto nazionale attraverso la vista delle loro effigi e l'illustrazione in sintetici, 
ma significativi scritti, delle loro virtù. Andati oggi quasi tutti perduti, di quei 
busti e statue e di quelle epigrafi sono testimonianza e ricordo le incisioni dei 
primi e le trascrizioni delle seconde pubblicate nel volume celebrativo intitolato 
Monumenti del Giardino Puccini, che porta la data del 1845°, l’anno cioè in cui il 





1 


Rispetti cantati dal popolo la sera di mercoledì 2 agosto [1843] in Vajoni presso la Torre di Catilina 
1843, p. 69. Il lungo titolo riportato prosegue ancora con queste parole riferite alla Torre: Edificata 
nell'estrema e più elevala parte del Giardino, a ricordare il più grande avvenimento di Roma che ci racconta 
Sallustio, e che si dice dalla tradizione popolare avvenuta in questi monti, dove l'avvenimento accennato 
era la battaglia combattuta nei primi giorni del 62 a.C. che vide la sconfitta e la morte dell’uomo poli- 
tico romano ricordato appunto dalla torre fatta costruire alcuni anni prima per ricordare l'evento. 

2 Monumenti del Giardino Puccini 1845, ma 1846. Per quanto la data 1845 compaia sul fronte- 
spizio di tutti gli esemplari del volume, lo stesso non avviene sempre sulle diverse versioni della coper- 
tina. In quella di maggior pregio su cui è l’incisione denominata La Carità educatrice compare invece 
quella dell’anno successivo, il 1846, quando effettivamente, nel febbraio, i primi esemplari furono di- 
stribuiti dal Puccini, non prima di averne inviati due rilegati “con legatura degna di chi le deve ricevere” 
(Biblioteca Comunale Forteguerriana di Pistoia, d’ora in poi BCFPt, Archivio Martini, Cass. 46, ins. 
230, Lettere dell’abate Jacopo Jozzelli al conte Damiano Caselli, Parte I 1833-1847, Pistoia, 2 febbraio 
1846, n. 64), e cioè il granduca Leopoldo II e la sua consorte Maria Antonia. 


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Federico Ceccanti 





grandioso impianto poté dirsi, praticamente, concluso?. 

Rispetto a tutti gli altri innalzati ciascuno a ricordo di un singolo personag- 
gio‘, il monumento del quale di seguito si riferisce esaltava invece contempora- 
neamente la memoria di un pittore e di uno scultore: Raffaello Sanzio e Antonio 
Canova. Tra i più imponenti, essendo i busti fittili dei due artisti portati da altret- 
tante colonne di pietra serena, con relativi capitelli compositi, impostate su pie- 
distalli in muratura rivestiti di bozze lapidee a loro volta sorgenti da uno zoccolo 
comune, anch'esso lapideo, che li riuniva in un unico basamento, già prima del 
disastro occorso durante la violentissima tempesta di vento che La primissime 
ore del 5 marzo 2015 che determinò anche la caduta delle colonne, il monumen- 
to era privo dei due busti? e delle epigrafi, la mancanza delle quali ultime toglieva 
già allora l'eventuale riferimento temporale esplicito e diretto, che solitamente le 
accompagna, all’anno della sua erezione. 

Le trascrizioni sul ricordato volume di tali epigrafi, separatamente e singo- 
larmente elogiative dei due artisti, apposte sulle facce anteriori dei piedistalli di 
ciascuna delle colonne, portano in calce, in numeri romani, la data 1832 che 
tuttavia in un caso, quello del Canova, non risponde a verità: l'erezione delle due 
colonne avrebbe avuto luogo sette anni più tardi, mentre risalente a quel 1832 
è la realizzazione di una memoria dell’Urbinate, senza dubbio più modesta, per 
quanto non precisamente descrivibile per essere stata intenzionalmente distrutta 
e sostituita dalla nuova eretta congiuntamente a quella al grande scultore veneto. 

Il dato temporale riportato nei Monumenti [...] aveva indotto in errore un paio 
di decenni fa anche una studiosa pistoiese, Giuliana Bonacchi Gazzarrini, la quale 
coll’affermare in un suo saggio sui rapporti fra Niccolò Puccini e Giacomo Leo- 
pardi, delle due scritte laudative apposte al monumento doppio autore di quella 
del pittore, riferendosi al busto che raffigurava quest'ultimo: “Impostato insieme 
a quello di Canova (con l'iscrizione di Giordani) su due colonne «gemelle» dai 


3... Dopo questa data furono eretti solo alcuni altri monumenti celebrativi, come si rileva dal lavo- 


ro degli ingegneri Corsini, Giacomelli, e Gamberai che ne elencano quattro, al Petrarca (cfr. Archivio 
di Stato di Pistoia, d’ora in poi ASPt, Istituti Raggruppati, Nuovo deposito, 840, Descrizione e stima 
del vasto possedimento, con villa e parco denominato di Scornio già spettante al fù sig.” Niccolò Puccini e dal 
medesimo lasciato in eredità con Testamento del dì 1° Gennaio 1847 all’Orfanotrofio di Pistoia, manoscrit- 
to di P. Corsini, D. Giacomelli, A. Gamberai, c. 75r), al Goldoni, a Tito Vespasiano e a un non meglio 
precisato Catone (ivi, c. 72v.), della cui effigie, una statua in pietra, è detto essere “ora caduta in pezzi” 
(ibidem), che non compaiono tra quelli indicati nel volume celebrativo del giardino: cfr. Monumenti del 
Giardino Puccini 1845, ma 1846, p. 8. Probabilmente l’ultimo monumento doveva essere già pesan- 
temente danneggiato a metà degli anni Quaranta e per questa ragione non inserito nell’appena detto 
elenco. 

i È, per l’esattezza, da ricordare che altri due monumenti erano stati eretti in onore di altrettanti 
grandi personaggi, ma non italiani, Gutenberg e Linneo, per avere essi con la loro opera contribuito al 
progresso dell’umanità e alcuni altri ancora per celebrare aspetti delle attività e dei rapporti umani, quali 
le belle arti, l'industria o l'amicizia. 

?. Di quello del pittore ne era stata segnalata l’esistenza ancora una ventina di anni fa con queste 
parole: “Scomparsa la lapide, il busto di Raffaello sopravvive nella destinazione impropria di un giardi- 
netto privato nell’ex “palazzina dei promessi sposi” (Bonacchi Gazzarrini 2001, p. 215, nota 58) e alcuni 
anni più tardi la stessa studiosa ne pubblicava anche l’immagine sempre indicandone la “collocazione 
impropria” (Bonacchi Gazzarrini 2004, p. 94, fig. 9). 


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Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 





capitelli corinzi”°, lasciava intendere appunto che i due artisti fossero stati celebrati 
congiuntamente fin dall’inizio, cioè da quando, come ella stessa ricordava in quel 
suo lavoro, il poeta di Recanati aveva composto la sua celebre ed ammirata epigrafe: 


RAFFAELE D’URBINO 
PRINCIPE DE’ PITTORI 
E MIRACOLO D’INGEGNO 
INVENTORE DI BELLEZZE INEFFABILI 
_ FELICE PER LA GLORIA IN CHE VISSE 
PIU FELICE PER L'AMORE FORTUNATO IN CHE ARSE 
FELICISSIMO PER LA MORTE OTTENUTA 
._ NEL FIORE DEGLI ANNI 
NICCOLO PUCCINI QUESTI LAURI QUESTI FIORI, 
SOSPIRANDO PER LA MEMORIA DI TANTA FELICITA. 
MDCCCXXXIT. 


Tale scritta era stata incisa e collocata invece inizialmente su un altro, e soli- 
tario, supporto, nelle sue forme non descrivibile per essere poi stato smantellato, 
evidentemente al momento dell'erezione delle due colonne gemelle e per non 
essere di esso nemmeno rimasta documentazione alcuna, in quello stesso anno 
o, al più, all’inizio del successivo, come appare da una lettera inviata dal Puccini 
a Giovan Pietro Vieusseux il 15 marzo 1833, riportata anche dalla Bonacchi 
Gazzarrini nel suo ricordato saggio, con la quale lo informava anche dell’apprez- 
zamento, oltre che suo personale, di tutti Luo che avevano nel frattempo avuto 
modo di leggerla. Gli scriveva precisamente in quella sua: 


Tu ben sai, che, fra le mie mani, le cose vanno a vapore. L'iscrizione arcibella 
di Raffaello è già scolpita in marmo, murata, ed ammirata da ogni genere di per- 
sone, e massime dal popolo che studia d’intenderla, poichè è innamorato della 
chiusa. Vedi il vantaggio di simili cose, quando non fossero cose rare. La variante 
di poca entità parmi che non meriti che si distrugga il lavoro; pure, quando l’a- 
mico lo voglia, lo farò®, 


inducendo con la parte finale di questo messaggio a far pensare che fosse stato 
il ginevrino il tramite con il poeta per la fornitura di quel testo a cui il poeta me- 
desimo doveva avere suggerito in un secondo momento, ormai a cose fatte, una 
certa, a detta del Puccini minima, modifica. Che quel 15 marzo, poi, l’epigrafe 
fosse stata messa al suo posto già da qualche tempo sembra essere testimoniato da 
alcune annotazioni di spesa, le quali tutte, pur non essendolo in maniera esplicita 
ed incontrovertibile, sono con tutta probabilità da riferirsi anche a quel lavoro; si 
tratta, più precisamente, di quella del 9 maggio 1832 che attesta, congiuntamen- 
te a forniture di diverso genere ad altro soggetto, un pagamento di 40 lire e 10 





6. Bonacchi Gazzarrini 2001, p. 215. Come si è già in precedenza detto, i capitelli definiti dall’au- 


trice “corinzi” erano in realtà compositi: cfr. in proposito le immagini 3, 4, 9 e 10. 

7 Monumenti del Giardino Puccini 1845, ma 1846, p. 353. 

8 Questo passo della lettera, conservata presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Fondo 
Vieusseux, Cass. 84, n. 101 di N. Puccini a G.P. Vieusseux, Scornio (Dal Castello) 15 Marzo 1833, è 
riportato in Lettere di Niccolò Puccini pubblicate per le onoranze resegli in Pistoia nel Settembre 1889 1889, 
p. 28. 


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Federico Ceccanti 





soldi fatto «al Capecchi p[er] Piedistalli»?, dell'altra del 20 di quello stesso mese 
che ne documenta uno di “£ 76. 3.8 a Monumenti, e Decorazioni”!° e, partico- 
larmente, dell’altra ancora del 19 gennaio del successivo 1833, in cui è riportato 
quello di 49 lire “A Franco Pagnini p[er] diverse Iscrizioni”!!. 

Dalle parole del Puccini al Vieusseux niente traspare riguardo all’effigie del 
“principe de’ pittori” che senz'altro a un certo punto fu posta su quel basamento 
al quale era stata affissa la lapide con la scritta leopardiana, ma non è ben chiaro 
se ciò fosse avvenuto fin dall’inizio, se si considera che lo scultore e fornaciaio 
fiorentino esecutore dell’effigie medesima, Luigi Zini, ne chiedeva il pagamento 
solo alla fine del 1836. Scrivendo precisamente al Puccini in una sua del 24 no- 
vembre di quell’anno a proposito di un nuovo manufatto ordinatogli: 


Sarei p[er] pregarlo se quando mi manda questo disegnio mi accomoderebbe 
quel poco che importa il Raffaello e me ne servirò p[er] una parte di spese p[er] 
fare la nota statua, se questo non lo gradisce mi mandi il disegnio e faccia lei!?, 


sembra infatti di potersi intendere che esso fosse stato eseguito solo di recente, 
anche se appare strano che il monumento avesse avuto il compimento con la col- 
locazione del busto con tanto ritardo così come, di converso, altrettanto strano 
appare che se tale collocazione fosse avvenuta fin dall’inizio il Puccini avesse ritar- 
dato di così tanto tempo il pagamento di una somma sostanzialmente modesta. 

In ogni modo dalle parole dello Zini appare indubitabile che nello scorcio di 
quel 1836 il busto era a Scornio e doveva essere stato collocato sull’appena ricor- 
dato basamento al quale era affisso il marmo con l’epigrafe. 

Lo spostamento di quest'ultima al piede di una del e colonne gemelle a fare il 
paio con l’altra elogiativa del grande scultore veneto composta, come ricordava 
anche la Bonacchi Gazzarrini, da Pietro Giordani, così riportata anch'essa nel 
volume celebrativo del giardino Puccini: 


ANTONIO CANOVA SCULTORE 
NACQUE IN POSSAGNO IL PRIMO NOVEMBRE 1757 
NICCOLO PUCCINI 
VOLLE PORRE DUREVOL MEMORIA DI QUEL GIORNO 
CHE TUTTI I SECOLI VORRANNO SAPERE. 
MDCCCXXXII.!3 





° ASPr, Istituti Raggruppati, 820, Registro di Entrata, e Uscita d[e]lla Nobil Casa Puccini, Inco- 
minciato questo di 3 Dlicem]b[r]e 1827 (nel documento è omessa la numerazione delle pagine per essere 
le varie voci individuabili attraverso le date di registrazione). 

10° Ibidem. 

!! Ibidem. 

!?  BCFPt, Raccolta Puccini, Cass. XX, 4. lettere a Niccolò Puccini di Zini, Luigi, 2. [Firenze], 
24. X. 1836, dove il mese è erroneamente indicato, essendo in realtà novembre: cfr. in proposito, oltre 
che la chiara notazione “N:bre” in testa alla lettera, il timbro postale della medesima. In questa e in altre 
successive citazioni sono state operate alcune integrazioni al fine di renderle più comprensibili, mentre 
le espressioni palesemente scorrette dal punto di vista grammaticale sono state riportate tali e quali senza 
segno alcuno di evidenziazione al fine di non rendere, con la loro troppo frequente ripetizione, la lettura 
faticosa. 

1 Monumenti [...], cit., p. 353. 


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Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 





avvenne, nonostante questa data che, senza dubbio, nel perduto originale in 
marmo non compariva, nel 1839, come attestato da una nutrita serie di docu- 
menti incontrovertibili ai quali di seguito si fa riferimento per ricostruirne la 
vicenda. 

A tal proposito, prima di passare a parlare dell’erezione delle colonne, è oppor- 
tuno dui a passero di incisione di questa scritta. Della conformazio- 
ne fisica del marmo che ne riportava il testo è data una essenziale descrizione in 
un piccolo conto presentato il 27 aprile 1839 a Niccolò Puccini da tal Fioravante 
Berti“, l’artigiano che l'aveva eseguita, con il quale quest'ultimo chiedeva il pa- 
gamento di 9 lire: “Per U[n] pezzo di Marmo Lungho B.? 1. 4 Largho soldi 15. 
[s ]quadrato e ar[r]otato e Lustrato”! e di altre 11 “per N.° 137 Lettere Disegnate 
e incise grande e picchole!°.” 

La perfetta compatibilità delle dimensioni della lastra di marmo con quelle 
degli alloggiamenti predisposti sui piedistalli delle due colonne!” già di per sé co- 
stituisce la prova dd fatto che detta lastra fosse proprio quella destinata ad essere 
apposta a quello di una di esse; che si trattasse poi dell’epigrafe del Canova è data 


conferma dall’analisi della seconda delle due voci appena riportate. L'iscrizione, 
infatti, tolta la data che, nella peraltro forma erronea “MDCCCXXXII”, con 


tutta evidenza compariva solo nella versione riportata nei Monumenti [...], è 
composta da 135 lettere che, con il punto posto in chiusura e con l’accento sulla 
“o” finale del nome del proprietario di Scornio, evidentemente considerato come 
segno a sé stante, salgono alle “137” ricordate dal Berti; inoltre, che essa fosse la 
tavola marmorea destinata alla colonna del Canova e non a quella di Raftaello 
appare chiaro da una ulteriore voce di quel medesimo conto, l’ultima, relativa alla 


richiesta del pagamento di un’altra piccola somma, una lira, 13 soldi e 4 denari, 





14 


La disposizione di pagamento di quel Conto Di Lavoro Fatto Da me Fioravante Berti AUTI[.] 
mo Sigl[.J Niccolò Puccini (ASPt, Istituti Raggruppati, 758, /839/] Puccini Niccolò[.] Corredi 
d'amminist[razione], n. 322) dal manifattore datata con chiara grafia “Adi: 27: Aprile 1839.” (ibidem) 
risulta, scritta in modo altrettanto chiaro in calce al “Conto [...]” medesimo , essere stata data, dallo 
stesso Niccolò Puccini il giorno precedente, cioè il 26 di quello stesso mese di aprile del 1839 (cfr. ibi- 
dem): si era trattato evidentemente di una svista da parte di uno dei due. Quel che è certo è che il totale 
di quanto il Berti aveva chiesto in pagamento, che ascendeva comunque a 24 lire, 3 soldi e 4 denari, 
era stato indicato in maniera un po’ pasticciata e il Puccini, solito a fare la tara su quanto gli veniva 
domandato, aveva stabilito che gli fossero corrisposte solo 24 lire (cfr. ibidem). 

5° Ibidem. 

10° Ibidem. 

Per essere posti sul complesso basamentale delle colonne, sola porzione del monumento rima- 
sta integra, tali alloggiamenti, niente altro che semplici cavità rettangolari profonde rispetto al rustico 
piano delle facce anteriori del detto complesso basamentale pochi centimetri, pressoché pari a quello 
che doveva essere lo spessore delle lastre di marmo su cui erano incise le due iscrizioni, sono tuttora ben 
individuabili e misurabili. 

18. AI momento dell’erezione del monumento, e per qualche tempo ancora, ad un frequentatore 
e conoscitore del giardino tale data sarebbe apparsa palesemente falsa, mentre alcuni anni più tardi, 
quando essa fu pubblicata nel volume celebrativo, ad un lettore poco informato delle vicende di Scornio 
ciò sarebbe sembrato logico e normale e lo sarebbe stato ancor più ad un conoscitore della circostanza 
della predisposizione della scritta leopardiana, come è testimoniato dall’errore in cui è incorsa in tempi 
più recenti Giuliana Bonacchi Gazzarrini, del quale si è precedentemente detto. 


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Federico Ceccanti 





per aver dedicato “2/3 di giornata peracomodare La Scrizione Vecchia”!, eviden- 
temente quella collocata sul basamento del precedente monumento a Raffaello, 
da posizionarsi ora sul nuovo, dalle cui dimensioni era derivata quella per il Ca- 
nova da lui allora predisposta. 

I piedistalli delle colonne ai quali sarebbero state apposte le iscrizioni, alla data 
della presentazione del conto del Berti erano, come si vedrà meglio tra poco, già 
stati costruiti. La decisione di realizzare questo nuovo monumento distruggendo 
contemporaneamente un altro esistente, ulteriore segno dell’assenza di si pre- 
figurazione generale, da alcune studiose supposta, del giardino?° e al tempo stesso 
della praticità e del pragmatismo a lui connaturati con i quali Niccolò Puccini 
operava, risaliva all'anno precedente ed era stata da lui presa cogliendo una occa- 
sione tutta particolare, connessa agli importanti lavori di restauro in corso in quel 
periodo, e dal 1836, nel principale edificio religioso della città di Pistoia, la Cat- 
tedrale di San Zeno, tra i quali quelli della riconfigurazione in chiave neoclassica 
della tribuna realizzata quasi due secoli e mezzo prima da Jacopo Lafri, progettati 
e diretti da Giovanni Gambini, l'architetto pistoiese che del Puccini era amico e 
al quale successivamente al compimento di detti lavori sarebbe stata affidata an- 
che la ricostruzione della Cappella del Crocifisso, posta circa a metà della navata 
destra della Cattedrale stessa: poco tempo prima della solenne inaugurazione del 
rinnovato tempio, il 5 giugno 1839, i canonici Alessandro Bernardini e Francesco 
Trinci avevano trasmesso al gonfaloniere di Pistoia Giuseppe Cellesi 


una memoria del 0) della Massa relativa alla ricostruzione della Cap- 
pella del SS[.]mo Crocifisso unitamente al disegno fattone dal Sig[.]! Giovanni 
Gambini ed alla Perizia dei Capi-Maestri Muratori Giuseppe, e Torello Niccolai?!. 


Nonostante che la cappella a quella data fosse ancora da ricostruire, da diversi 
mesi, a seguito evidentemente del già predisposto progetto di rinnovamento, era 
stato operato lo spostamento del suo antico accesso dalla navata della chiesa dove, 
addossate alle teste del muro in cui essa era praticata, come è dato conto in una 
pianta generale della chiesa stessa connessa col documento appena citato??, erano 
due colonne delle quali pertanto si era resa necessaria la rimozione; non essendo 
evidentemente di tali ii previsto il reimpiego, ne era stata decisa la vendita. 
Infatti l'11 dicembre 1838 il pittore Ferdinando Marini”, amico anch'egli di vec- 





9 ASPr, Istituti Raggruppati, 758, /839/.] Puccini Niccolò[.] Corredi d’amminist[razione], n. 322. 

2° È troppo complesso, rimandando la cosa ad un più articolato e vasto lavoro sul giardino Puccini 
in corso di ultimazione, poter confutare in poche righe tale teoria formulata in Lanatà 2002, p. 42 e ri- 
presa in Dominici 2010, p. 147, nota 75 e basata fondamentalmente sul fatto che alla Torre di Catilina, 
costruita nel 1840, è fatto cenno in una pianta incisa in rame in un momento non precisato, tuttavia 
successivo a tale data, ma indicato invece generalmente assai precedente, in un caso il 1827, nell’altro il 
1828. 

2! ASPt, Comunità Civica di Pistoia, II, Atti di corredo alle deliberazioni dal 1° Gennaio al 31 
Dicembre 1839, 69, c. 245. 

2 Cfr. ivi, c. 253. 

2. Di costui, buon pittore pistoiese molto attivo nella sua città nella prima metà dell'Ottocento, 
si sa pochissimo; i repertori biografici degli artisti non lo registrano e si ignora dove e come sia avvenuta 
la sua formazione. 


470 


Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 





chia data di Niccolò Puccini?" e che era allora impegnato nei restauri dei dipinti 
della tribuna”, riferendosi proprio a quelle, gli aveva scritto: 


Le Colonne sono liberate per £ 60. e non meno: io non le trovo care, ma 
mi conviene avere da Lei decisa facoltà per acquistarle, levarle dal Duomo e fare 
accomodare i Capitelli come le accennai coll’ultima mia. 

Sia cortese di replica acciò possa far quanto sopra ec.?9 


E il Puccini doveva essersi risolto ad acquistarle piuttosto rapidamente, dal 
momento che a metà della primavera successiva era già stata realizzata la struttura 
basamentale sui cui sarebbero state innalzate, come è attestato dalla 


Nota di oplerJe dà muratore è manovale Spese fatte da Santino Vannini pler] il 


Nobile Sig. Niccolò Puccini à Scornio aj monumenti di raffaello è canòva Dal. 8. al. 
20 aprile 18397, 


compilata in quest'ultima data, da cui risulta che le prestazioni del capomastro 
assommavano a 77 lire e 5 soldi?8 e che il costo dell'intera opera, comprendendo i 
rimborsi per anticipazioni di spesa fatte dal capomastro medesimo, era asceso com- 
plessivamente a 130 lire e 19 soldi??. Nel documento di amministrazione di Casa 
Puccini denominato Conti del Boccaccini dall'anno 1838 al 1840, infatti, alla data 
del 24 giugno, quando le colonne erano già a Scornio, è registrato il pagamento di 
60 lire “Alla Comunità di Pistoia p[er] due Colonne”, la provenienza delle quali 
dal Duomo di Pistoia è indicata nella disposizione all’effettuazione del pagamento 
medesimo data dal Puccini quello stesso giorno, essendovi infatti i. 


Il Boccaccini pagherà alla Comul[ni]ta di Pistoia Lire Cinquanta Valuta di 
due Colonne levate dalla Cattedrale, e Lire Dieci a Pietro Parri p[er] trasporto, e 
Caricatura di d[ett]Je Colonne, e cosi in tutto Lire Sessanta5!, 


e confermata dalle due ricevute fatte due giorni più tardi, una da tal canonico 
Fiorineschi: 


Dall’Ill[ustrissi]mo Sig.° Niccolò Puccini lire cinquanta tante paga il S[.]° Nic- 
colò Tagliasacchi per l'Opera dei S. Giovanni e S. Zeno £ 50 —#2, 





24 Per lui appena ventenne il Marini aveva decorato l'appartamento personale nel palazzo di fami- 


glia in via del Can Bianco a Pistoia: cfr. Ceccanti 2004, pp. 76-77. 

5. Gambini 1839?, p. 12. 

26. BCFPr, Raccolta Puccini, Cass. XVII, 4. lettere a Niccolò Puccini di Marini, Ferdinando, 24. 
Di casa, 11. XII. 1838. 

7. ASPr, Istituti Raggruppati, 758, 1839/.] Puccini Niccolò[.] Corredi d'amminist[razione], n. 392. 

28. Cfr. ibidem. 

2 Cfr. ibidem. 

30. ASPr, Istituti Raggruppati, 821, Conti del Boccaccini dall'anno 1838 al 1840, N° 135= Dal 24 
Giugno al Primo Luglio 1839=. 

31 ASP, Istituti Raggruppati, 758, 1839/.] Puccini Niccolò[.] Corredi d’amminist[razione], n. 389. 

3 Ibidem. 


471 


Federico Ceccanti 





l’altra da Giovanni figlio di Pietro Parri: 


Dal Nobile S[.]° Niccolò Puccini ricevo io Infratto$ Lire Dieci pl[er] il Trasporto, e 
Caricatura di due Colonne di Pietra Levate dalla Chiesa Cattedrale, e vendute al S[.]° 
Puccini p[er] Lire come sopra”. 


Indicando poi tra le voci dei lavori pagatigli il 24 giugno la seguente: “Per un 
op[er]a di raffiello nenciolini à fare i Buchi per i Pergni alle colonne [£] 2. 13. 
4°34, il Vannini dava a vedere che tutto a quella data era predisposto per la loro 
erezione, che dovette avvenire di lì a poco, se il successivo 11 luglio fu annotato 
un altro pagamento “A Santino p[er] due Conti che uno al Romitorio, l’altro 
p[er] due Colonne”?. 

Il monumento e il luogo in cui esso era posto furono succintamente descrit- 
ti per due volte in anni non molto lontani da quello dell'erezione, una prima 
da Luigi Ciampolini nello scritto La isoletta del Lago pubblicato nel ricordato 
volume celebrativo del compimento del giardino, una seconda alcuni anni più 
tardi dai tre ingegneri Paolo Corsini, Domenico Giacomelli e Angiolo Gamberai 
nell’ambito dell'incarico a loro affidato dopo la morte del Puccini, avvenuta il 13 
febbraio 1852, per la stima del valore del possedimento. Questi ultimi in propo- 
sito avevano scritto: 


In mezzo ad un rosaio presso alla colonna [della Stampa] vi sono due colonne 
binate di pietra sopra piedistalli rustici con epigrafi in marmo, e busti di terra 
cotta imbiancati, dedicate a Canova ed a Raffaello Sanzio8° 


ripetendo nella sostanza quanto già detto dal Ciampolini, il quale in aggiunta 
aveva fatto cenno anche al motivo della scelta fatta da Niccolò Puccini di cele- 
brare, unico caso, come già si è ricordato, nel giardino, contemporaneamente 
due artisti che, oltre ad aver operato in altrettante, per quanto “sorelle”, distinte 


discipline?”, erano appartenuti a epoche tra loro distanti: 


Ver mezzodì tra un boschetto di rose, quasi simbolo dell’Eliso, ergonsi due colonne 
di pietra co’ busti in vetta di Raffaele Sanzio e di Antonio Canova, il quale fu nella 
scultura per la grazia quello che il Sanzio nella pittura erasi dimostrato?8. 


Le due colonne non si trovavano, come sembra di potersi intendere dalle 
parole del Ciampolini “tra un boschetto di rose”, all’interno di questo, così come 
più esplicitamente avrebbero più tardi affermato anche i tre ingegneri nel loro 





3. Ibidem. 

3 Ivi, n. 392. 

®.ASPtr, Istituti Raggruppati, 821, Conti del Boccaccini dall'anno 1838 al 1840, N° 137 Dal Pri- 
mo all’8 Luglio 1839= Anzi Dal 8 Al 15 Luglio 1839=. 

36. ASPr, Istituti Raggruppati, Nuovo deposito, 840, Descrizione e stima del vasto possedimento, 
con villa e parco denominato di Scornio già spettante al fù sig” Niccolò Puccini e dal medesimo lasciato in 
eredità con Testamento del dì 1° Gennaio 1847 all’Orfanotrofto di Pistoia, manoscritto di P. Corsini, D. 
Giacomelli, A. Gamberai, c. 70r. 

87. Cioè la pittura e la scultura, insieme all’architettura le tre arti del disegno. 


38. Ciampolini 1845, ma 1846, p. 442. 


472 


Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 





ricordato lavoro, i quali le collocavano, come si è visto, “in mezzo ad un rosaio”, 
bensì dietro ad esso, in un angolo, esattamente sul confine della proprietà di 
Niccolò Puccini. Di questa collocazione, oltre che dalle carte topografiche stori- 
che, prima fra tutte la pianta del giardino allegata al volume celebrativo, si ha 
contezza anche da un particolare del monumento, precisamente dai capitelli su 
cui erano posti i busti dei due artisti, nei quali le fo fi di acanto e le volute erano 
compiutamente scolpite solo su circa tre quarti della loro superficie, mentre nel 
restante quarto erano appena abbozzate. La sommaria lavorazione da questa parte 
era giustificata dal rimanere nella collocazione originaria pressoché invisibili per 
essere accostate alle spalle del vano di accesso alla cappella; l’aver posto il monu- 
mento sul confine, provvedendo a collocare la parte non rifinita dei capitelli verso 
la proprietà altrui, determinava una situazione in tutto analoga, quella, cioè, di 
lasciare di fatto anche in questo caso pressoché invisibili dette parti ad un visi- 
tatore che avesse osservato, come di fatto avveniva, il monumento dal giardino. 
Nessuno infatti, a differenza di quanto lasciava intendere la Bonacchi Gazzarrini 
coll’affermare che il monumento posto 


in posizione isolata costituiva uno dei primi elementi di percezione per il 
visitatore che provenisse dall’attuale via Dalmazia, attraverso i prati luminosi a 
est del lago”. 


sarebbe invece mai potuto entrare da quella parte”! e avrebbe quindi potuto 
osservare la parte non rifinita dei capitelli, non essendovi per tale ragione stata 
necessità di fel come aveva suggerito il Marini nella sua precedentemente ricor- 
data, “accomodare”, cioè far rifinire le foglie d’acanto appena abbozzate e incidere 
le spirali sulle facce delle volute incompiute. 

Per quanto riguarda i busti da collocarsi sui capitelli, se quello di Raffaello 
esisteva ormai da alcuni anni, quello del grande scultore veneto fu realizzato al 
tempo dell'erezione delle colonne, come attesta una lettera inviata il 31 agosto 
1839 a Niccolò Puccini da Luigi Zini, nella quale questi, che si diffondeva anche 
su particolari tecnici per l'esecuzione dell’imbiancatura del busto per mezzo della 

uale si sarebbe simulato il marmo, avvertiva il nobiluomo del prossimo arrivo 
del piccolo manufatto: 


Lo avviso che Lunedì della prossima settimana riceverà il suo ritratto di Ca- 
nova, dal med[esi]mo Barocciajo che portò il Leone[.] osserverà che al detto bu- 
sto gli è stato dato l'olio cotto, avendone non dato ad altri lavori e nell[']istesso 
tempo si è creduto bene di dargli tre mani anche al suo lavoro, p[er] ciò potrà 





3 Monumenti [...], cit., p. 7. 

‘0. Bonacchi Gazzarrini 2001, p. 215. 

4 È impensabile che un visitatore “che provenisse dall’attuale via Dalmazia”, cioè dall’antica via 
Modenese, anziché percorrere i comodi e curati viali del giardino, nel caso specifico il viale dei Platani 
e quello delle Acacie, che lo avrebbero portato nei pressi del roseto in fondo al quale il monumento era 
posto si sarebbe avvicinato a questo passando “attraverso i prati luminosi a est del lago”, che in realtà 
erano i campi coltivati di proprietà altrui posti poco oltre i bordi dei due appena ricordati viali e, pe- 
raltro, non a est, ma a ovest dell’invaso lacustre: campi oltretutto a lui non facilmente accessibili per la 
particolare configurazione del sito, posti com'erano ad una quota superiore rispetto ai due tracciati viari, 
se non assolutamente interclusi dalla più che probabile esistenza di recinzioni. 


473 


Federico Ceccanti 





ordinare che gli sia dato subito la biacca senza dargli avanti l’olio come sogliono 
usare a gli altri lavori*?. 


Il monumento ebbe quindi il suo compimento solo dopo l’inizio di settem- 
bre, dato che “Lunedì della prossima settimana” era il 2 di quel mese. Un mese 
ancora più tardi, precisamente il 6 ottobre di quel 1839, Niccolò Puccini det- 
te la seguente disposizione: “Il Boccaccini paghi al Sig[.) Federigo Bacci Lire 
quarantanove”5, dove quel “Sig[.] Federigo Bacci” era un modellatore in creta 
che operava a stretto contatto con Luigi Zini e che da questo momento in poi 
si ritroverà come esecutore di diversi altri dei lavori fittili destinati al giardino di 
Scornio; egli, a seguito della corresponsione della somma, su quello stesso bigliet- 
to, precisando peraltro il motivo dell’effettuazione di quel pagamento, avrebbe 
scritto: “Io Federigo Bacci ricevo lire quarantanove p[er] un Busto di Terracotta 
a me paga contanti di £ 49”, in tal modo chiudendo definitivamente tutta la 
vicenda dell'erezione del monumento a Raffaello e al Canova. 


XA 


Nelle prime ore di quel 5 marzo 2015 il vento portò via anche da uno dei più 
significativi edifici del giardino Puccini, il Ponte Napoleone, un piccolo elemen- 
to decorativo, a quanto è dato di sapere, mai descritto e neppure segnalato, ma 
documentato da alcune immagini fotografiche risalenti a poco più di una decina 
di anni fa: un ligneo e consunto serpente che si morde la coda campeggiante al 
centro del timpano della facciata principale. Di esso, sempre a quanto è dato di 
sapere, ne conservano memoria solo a che abitano nell’antico edificio puc- 
ciniano, oggi convertito in residenze. Probabilmente ridotto in pezzi per la sua 
fragilità, non si sa se sia stato recuperato e se mai potrà tornare nella sua colloca- 
zione originaria. 

Le a probabilmente spezzate, sono state rimosse con tutti i crismi del 
caso, cioè con la dovuta segnalazione alla competente Soprintendenza da parte 
del personale del Comune di Pistoia e portate al cantiere del medesimo; si ha 
ragione però di temere che la sorte sarà tuttavia la stessa. Lo fa pensare il fatto 
che non è raro incontrare resti architettonici, quali tratti di condotto del giardino 
domestico della villa Puccini o lo stemma proveniente dalla novecentesca loggia 
dei Mercanti, utilizzati per decorare aiuole spartitraffico cittadine o ancora, caso 
eclatante, che niente più si sappia da anni dell’attuale luogo e stato di conserva- 
zione dei resti del pozzo dell'ex convento del Tau, al cui proposito mai è stata 
data da parte della proprietà, ancora il Comune di Pistoia, risposta a proposito 
della immotivata rimozione dal luogo in cui si trovava da secoli, nonostante una 
ufficiale e assai pubblicizzata denuncia a suo tempo fatta. 





4. BCFPt, Raccolta Puccini, Cass. XX, 4. Lettere a Niccolò Puccini a Zini, Luigi, 3. [Firenze], 31. 
VIII. 1839. 

4 ASPr, Istituti Raggruppati, 758, /839/.] Puccini Niccolò[.] Corredi d'amminist[razione], n. 523. 

“Ibidem. 


474 


Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 





Bibliografia 


GAMBINI, Giovanni (1839?), Notizie intorno i nuovi lavori eseguiti nel Coro 0 
Tribuna della Chiesa Cattedrale di Pistoja scritte da Giovanni Gambini autore 
de medesimi, Pistoia, Francesco Manfredini Tipografo Libraio. 


Rispetti cantati dal popolo la sera di mercoledì 2 agosto [1843] in Vajoni presso la 
Torre di Catilina (1843) in Atti della Festa delle Spighe. Anno terzo, Pistoia, 
Tipografia Cino, pp. 67-70. 

Monumenti del Giardino Puccini (1845, ma 1846), Pistoia, Tipografia Cino. 

CrampoLinI, Luci (1845, ma 1846), La Isoletta del Lago, in Monumenti del 
Giardino Puccini, Pistoia, Tipografia Cino, pp. 439-448. 

Lettere di Niccolò Puccini pubblicate per le onoranze resegli in Pistoia nel Settembre 
1889 (1889), Pistoia, Tipografia Niccolai. 

BonaccHI GAZZARRINI, GIULIANA (2001), Puccini e Leopardi, in Niccolò Puccini. 
Un intellettuale pistoiese nell'Europa del primo Ottocento, Atti del convegno di 
studio (Pistoia, 3-4 dicembre 1999), a cura di E. Boretti, C. d'Afflitto e C. 
Vivoli, Firenze, Edifir, pp. 201-222. 


LANATÀ, SERAFINA (2002), // parco di Scornio e la cultura na del giardino nei 
viaggi di Niccolò Puccini in Italia e all’estero, in “Rivista italiana di studi napo- 
leonici”, 1.2002, pp. 27-44 

Ceccanti, FepERICO (2004), “La Casa ove nel 10 giugno 1799 veniva alla luce 
del mondo Niccolò Puccini”: il Palazzo di via del Can Bianco a Pistoia, in Le 
Dimore di Pistoia e della Valdinievole. L'arte di abitare tra ville e residenze urba- 
ne, Atti del convegno di studio (Pistoia, 26, 27, 28 marzo 2003, Santomato, 
Villa di Celle 29 marzo 2003), a cura di E. Daniele, Firenze, Alinea Editrice, 
pp. 71-79. 

BonaccHI GAZZARRINI, GIULIANA (2004), Fabbriche pittoresche, feste e simulacri 
nel parco romantico di Scornio, in Le Dimore di Pistoia e della Valdinievole. L'ar- 
te di abitare tra ville e residenze urbane, Atti del convegno di studio (Pistoia, 
26, 27, 28 marzo 2003, Santomato, Villa di Celle 29 marzo 2003), a cura di 
E. Daniele, Firenze, Alinea Editrice, pp. 91-101. 

Dominici, Laura (2010), «Italia sia pure una volta sul serio». Il sogno di Niccolò 
Puccini nel Giardino di Scornio, in Monumenti del Giardino Puccini. Un luogo 
del Romanticismo in Toscana, a cura di C. Sisi, Firenze, Polistampa, pp. 109- 


149. 


475 


Federico Ceccanti 





È 








Fig. 1: G. Gambini?, La Carità educatrice sulla copertina del volume Monumenti del Giardino Puccini 


476 


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Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 


Fig. 2: Le “colonne gemelle” nell’incisione contenuta nei Monumenti del Giardino Puccini 





Federico Ceccanti 








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Fig. 3: Le “colonne gemelle” viste dal giardino 


478 


Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 








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Fig. 4: Le “colonne gemelle” viste da tergo 


479 


Federico Ceccanti 


Fig. 5: Il testo delle epigrafi che compare nel volume Monumenti del Giardino Puccini 


480 





Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 


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Fig. 6: Pianta del Tempio della Cattedrale di Pistoia come esiste adesso, e come si propone ridursi (ASPt, 
Comunità Civica di Pistoia, II, Atti di corredo alle deliberazioni dal 1° Gennaio al 31 Dicembre 1839., 
c. 253). Su concessione del Ministero per i beni culturali e ambientali; è vietata ogni ulteriore riprodu- 
zione o duplicazione con qualsiasi mezzo. 


481 


Federico Ceccanti 








Fig. 7: La Cappella del Crocifisso, particolare della figura precedente in cui sono evidenziate le colonne 
da rimuovere all’ingresso 


482 


Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 








PIANTA GEOMETRICA DEL GIARDINO PUCCINI 





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Sulla proporzione dis a 29000. 











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Fig. 8: A. Gamberai dis., C. Magrini inc., Pianta geometrica del Giardino Puccini, in Monumenti del 
Giardino Puccini, con le colonne di Raffaello e del Canova evidenziate in un cerchietto 


483 


Federico Ceccanti 








Fig. 10: Immagine di uno dei capitelli in cui sono ben visibili la parte rifinita e quella solo abbozzata 


484 


Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 








Fig. 11: Il ligneo serpente che si morde la coda nel timpano della facciata meridionale del Ponte Napole- 
one; lo stemma metallico al suo interno è un elemento palesemente aggiunto in un momento successivo 


485 


Federico Ceccanti 








Fig. 12: Il complesso basamentale dopo la caduta delle colonne gemelle 


486 


Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 








Fig. 13: Resti del condotto del giardino domestico della villa Puccini in una aiuola spartitraffico a Pistoia 


487 


Federico Ceccanti 








Fig. 14: Stemma della città di Pistoia proveniente dalla novecentesca Loggia dei Mercanti in un’altra 
aiuola spartitraffico a Pistoia 


488 


Un monumento perduto nel giardino Puccini di Scornio 








Fig. 15: Il pozzo dell’ex-convento del Tau a Pistoia negli anni Settanta del secolo scorso 


489 


Federico Ceccanti 








Fig. 16: Frammisti ad altri, alcuni frammenti del pozzo del Tau nel cantiere del Comune di Pistoia 
fotografati nel 1990 


490 


Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, 
fattorie e poderi nel territorio di San Miniato. Terza Parte 





FRANCESCA RUTA 


Con questo articolo termina il mio studio sulle cappelle di ville, fattorie e 
poderi. Tratterò le chiese relativamente più recenti, partendo dall’oratorio di San 
Marcellino, sulla strada di Ontraino, passando per Collebrunacchi e arrivando 
alla vicenda che ha portato alla costruzione della cappella dell'Assunta nella villa 
Morali Lorenzelli di Bucciano. Così come nei precendenti scritti, anche qui tro- 
viamo oratori ben tenuti e altri totalmente degradati. 


Oratorio di San Marcellino 


Podere Franchini, Grifoni, Somma, Becattini 

Questa piccola cappella (fig.1) fa parte di un podere situato lungo la strada 
che collega la località di Ontraino a quella di Rofha. 

Le prime notizie che si hanno a riguardo di questo oratorio dedicato a San 
Marcellino Martire e Papa risalgono al 13 novembre 1694, quando viene visitato 
dal Vescovo Carlo Cortigiani; in quest'occasione si viene a sapere che la cappella 
è ben tenuta ed è di proprietà dei Franchini di San Miniato, possedimento che 
viene ribadito anche Galle successive visite pastorali del 18 ottobre 1698, del 
19 gennaio 1705 e del 17 giugno 1714'. Dalle relazioni di quest'ultime visite 
emergono varie notizie riguardanti la cappellina di Ontraino, come spesso viene 
definita nei documenti ecclesiastici. Nel” 1705 viene detto che, oltre a San Mar- 
cellino, la cappella è dedicata alla Vergine, ma poi, negli scritti successivi, non ne 
troviamo più il riscontro. Sempre a questa data viene scritto che vi è una reliquia 
del santo, composta da varie parti d’osso che venne autenticata il 3 ottobre 1679 
e posta in una capsula dorata nel gennaio 1691. Da queste informazioni si può 
dedurre che la cappella risalga al 1679/80, poiché, essendo San Marcellino un 
santo poco conosciuto”, è probabile che i Franchini abbiano commissionato la 
costruzione della cappella dopo averne ricevuto la reliquia. 

Dal 1714 in poi non abbiamo notizie di questa chiesetta fino a un secolo 
dopo, quando il canonico Pietro Galati, delegato di Mons. Pietro Fazzi, visita San 
Marcellino di patronato Morali, il 24 maggio 1814, trovandolo in buono stato, 
sia all’interno che negli ornamenti, di cui vi è un elenco. Si scopre che la cappella 
era corredata da un campanile con tre campanelle, oggi totalmente scomparso; la 
pala d’altare rappresentava un'immagine della Vergine con bambino e San Mar- 


!  AVSM, Visite pastorali, filza n° 62. Comprende tutte le visite citate sin qui. 


2 Nonè nemmeno presente nel Martirologio romano. 


491 


Francesca Ruta 





cellino, anche di essa non si hanno più notizie. 

Nel 1822 un altro delegato del Vescovo Fazzi, il canonico Piccardi, visitò nuo- 
vamente la chiesetta d’Ontraino, di nuova proprietà Conti, dando solo qualche 
ordine di riparazione.“ 

Durante gli anni di patronato Conti, la cappella subisce un leggero declino: le 
visite del 1825, 1832, 1859, 1867 e del maggio del 1868 evidenziano sempre più 
oggetti e arredi da riparare, da ridorare o addirittura mancanti. 

Il 20 novembre 1868 il relatore di Mons. Barabesi scrive che la proprietà del 
podere e il conseguente patronato della cappella è del Barone Sonnino di Castel- 
vecchio presso Cigoli. Proprietà confermata anche nella relazione del 19149, pro- 
babilmente assimilando i Sonnino con i duchi Somma, che, grazie al matrimonio 
con una Sonnino nel 1900, ne avevano ottenuto le proprietà. L'oratorio risulta in 
uno stato mediocre, peggiorando poi nel 1931 (patronato Somma) quando viene 
addirittura interdetta finchè non sia restaurata. L'interdizione viene confermata 
nel 1936” e, dalle relazioni del parroco degli anni °50*, si comprende come i lavori 
di restauro non siano ancora iniziati. 

Oggi la chiesetta è completamente restaurata e visitabile grazie alla famiglia 
Becattini. Si presenta con una facciata molto sobria, con due lesene li a 
sostegno del tetto a capanna. Priva di finestra o rosone, ha due finestrelle ai lati 
della porta d’ingresso, sovrastate da un archetto a sesto ribassato in mattoni. Sulla 
destra vi è una piccola panca in pietra e, poco sopra, una catenella fa muovere un 
cerchio con CA campanelle. 

Anche l’interno (fig. 2) è molto semplice, ad aula unica. Il pavimento è in 
cotto, mentre le pareti sono in basso a mattoni a vista e poi intonacate di bianco. 
L'altare, addossato al muro, è il fulcro della chiesetta ed è anche l’unico in cui si 
scorge un minimo di decorazione: sotto la mensa vi è la croce di Santo Stefano 
dipinta su uno sfondo giallo ocra, mentre un timpano spezzato in pietra sovrasta 
lo spazio riservato alla pala d’altare? e incornicia il simbolo dell’ostia. 

Vi sono due nicchie in pietra sul lato destro: una, subito dopo l’ingresso, ter- 
mina con una piccola conca, sicuramente l’acquasantiera della cappella; l’altra, 
vicino l’altare, ha una cornice più grande ed è più profonda, con una forma lunga 
e stretta, probabilmente qui veniva tenuta la capsula dorata contenente la reliquia 
di San Marcellino. 

Una finestrella semicircolare in vetro giallo è fonte ulteriore di luce. 

La chiesetta è visitabile ogni giorno, grazie alla famiglia Becattini. 





AVSM, Visite pastorali, filza n° 69. 

AVSM, Visite pastorali, filza n° 70. 

AVSM, Visite pastorali, filza n° 72, 75, 76. 

AVSM, Visite pastorali, filza n° 79. 

AVSM, Visite pastorali, filza n° 82. 

AVSM, Visite pastorali, filza n° 84. 

Quando il sign. Mauro Becattini comprò questa casa, come pala d'altare, vi era un quadro di 
stoffa damascata, appoggiato oggi sulla destra di chi entra, che il Becattini ha sostituito con il crocifisso 
di famiglia. 


vo Ya uu A LU 


492 


Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 





Oratorio dell’ Assunta e San Giovanni Battista 


Villa Buonaparte, Pancanti 

Fra i poderi della famiglia Buonaparte di San Miniato posti lungo l’Egola, 
quello detto “di San Giovanni”, poiché confinante con la pieve omonima, viene 
ben presto dotato di casa padronale. L'edificio è raffigurato nella pianta del po- 
polo di “San Giovanni in Valdebola” tracciata per i Capitani di Parte nel 1585. 

Nel 1693 la casa, che la famiglia usava come consueto luogo di residenza!°, 
viene arricchita di un oratorio noviter extructus!!, dedicato a Santa Teresa. L'in- 
viato del vescovo Jacopo Vanni, arrivato alla villa per controllare lo stato della 
chiesina prima della benedizione, la trova ben fonita di tutto, pavimentata, im- 
biancata e, come richiesto dalla normativa ecclesiastica, isolata rispetto al luogo 
di abitazione dei signori". 

Dopo la vendita della proprietà da parte dei Rospigliosi ai Pancanti nel 1845 
per Lire 44.800", nel 1859, con la ristrutturazione di tutto il complesso, la chiesa 
verrà decorata con forme neogotiche e dedicata all’Assunta; verrà inoltre affian- 
cata da altre costruzioni, perdendo il suo essere isolata rispetto al complesso. Tut- 
tavia, in un documento del 1954, risulterebbe essere dedicata all’Immacolata!4, 
attribuzione sicuramente erronea. In un altro documento, del 1867" l’oratorio 
risulta essere dedicato a San Giovanni Battista (confermato anche dagli attuali 
proprietari), in virtù del fatto che la zona dove sorge la villa è chiamata proprio 
di San Giovanni. Probabilmente la cappella ha due dedicatari come si può anche 
capire dai due dipinti dell’abside e della volta. 

Come altre ville già trattate, anche questa ha una posizione defilata rispetto 
alle principali vie di percorrenza delle visite pastorali. Ben poche sono le descri- 
zioni delle visite dei vescovi, i quali, in quelle rare volte in cui decidono di sapere 
lo stato della cappella, inviano delegati. Così dalla relazione del 12 maggio 1814 
si scopre che la cappella, prima dell’attuale dedicatario, è legata a Santa Teresa 
e che il proprietario, il principe Giuseppe Rospigliosi, l'aveva lasciata cadere in 
rovina. Del 30 aprile 1859 è la conferma della ristrutturazione della chiesetta: 
“nel quale trovarsi in ordine, siccome di recente edificato”!°. Tra le poche notizie 
che si ricavano dalle visite pastorali vi è quella, datata 1913, in cui vengono de- 
scritti i parati sacri “di cui alcuni di un certo valore. Tra i calici se ne ammira uno 
artistico”! 

La facciata (fig. 3) ha forme neogotiche, nonostante i colori grigio e bianchi 
tipici del Rinascimento; la porta d’ingresso è sovrastata da un timpano in vetro 
formato da tre archi acuti e affiancato da due pinnacoli simmetrici. Questi pin- 
nacoli si ritrovano anche sul tetto, dietro il timpano semplice posto sulla sommità 
della facciata, probabilmente inserite durante i lavori di metà Ottocento per in- 


“Locus consuete habitationis dictorum dominorum” in AVSM, Atti Beneftciali, filza n° 310. 
!! AVSM, Atti Beneficiali, filza n° 310, cit. 

!AVSM, Atti Beneficiali, filza n° 310, cit. 

3 ACSM, Volture notarili, filza n° 3098. 

1 AVSM, Visite pastorali, filza n° 84. 

5 AVSM, Visite pastorali, filza n° 76. 

16 AVSM, Visite pastorali,, filza n° 75. 

7 AVSM, Visite pastorali, filza n° 79. 


493 


Francesca Ruta 





nalzare l'architettura precedente. Sul retro della cappella, è posto il campaniletto 
a vela con una sola campana. 

L'interno (fig. 4) è molto semplice nella parte bassa delle pareti, mentre la 
volta è completamente affrescata, così come l’abside. I costoloni della volta sono 
affrescati con motivi decorativi di fiori e arabeschi, mentre le lunette hanno un 
cielo pieno di stelle. Non a caso al centro della volta vi è la Vergine, dipinta in una 
posizione di accoglienza, sia del suo ruolo che nei confronti dI fedele. 

L'arco dell'abside è decorato con le bicromie tipiche delle architetture me- 
dioevali di matrice senese, come ad esempio il duomo di Siena; in sede di lavori 
ottocenteschi si è certamente pensato di trasformare un arco a tutto sesto di fine 
‘600 in un arco neo gotico tramite una decorazione in finto marmo. 

Il catino dell’abside accoglie un bellissimo San Giovanni Battista ritratto nel 
momento in cui addita Cristo (fig. 5), qui in forma di agnello'5, come il Messia, 
dicendo le parole riportate dall’artista nel cartiglio sorretto dai putti accanto al 
santo: ECCE AGNUS DEI e ECCE QUI TOLLIT”. L'opera risulta piuttosto 
moderna, riconducibile ad un artista (vedi sotto) attivo durante i lavori di re- 
stauro, ma più probabilmente durante i primi anni del ‘900, effettuati dopo la 
vendita ai Pancanti del 1845. I colori sono molto accesi e fanno ipotizzare che 
l'artista abbia usato la tempera su un intonaco asciutto precedente. 

Gli autori di queste opere, databili dunque nella prima metà del XX secolo, si 
potrebbe ipotizzare siano Amerigo Ciampini (San Miniato, 1904 - 1999) e Ales- 
sandro Bongi che lavorarono în tandem con il canonico Francesco Maria Galli 
Angelini (San Miniato, 1882 - 1957). Si fanno questi nomi perché la mano e le 
tecniche utilizzate qui sono vicine agli affreschi della Sala del Consiglio comunale 
del Municipio, di cui si ha la certezza dei nomi degli artisti, e ad alcuni lavori che 
questi due artisti fecero all’interno della villa di Castelvecchio. Il committente dei 
lavori nella cappella fu quasi sicuramente il proprietario, cioè Giuseppe Pancanti, 
seppellito proprio nell’oratorio di famiglia. 

Sotto il catino dell’abside vi è un quadro rappresentante una Visione di Santa 
Teresa d'Avila (fig. 6): la santa è molto più grande rispetto agli altri personaggi 
ed è dunque la protagonista dell’opera. Ha una visione o un sogno in cui appare 
San Carlo Borromeo, santo a lei contemporaneo, in preghiera davanti alla Ver- 
gine con bambino. Curioso l'accostamento dei due santi cinquecenteschi, che in 
un primo momento sembrano non avere nulla in comune: la prima è nata e ha 
operato in Spagna, il secondo italiano e vescovo di Milano. Tuttavia leggendo le 
loro vite si notano alcune somiglianze: entrambi hanno rinnovato la chiesa locale 
nel periodo a cavallo del Concilio di Trento; hanno creato enti ecclesiali, quali 
chiostri, monasteri, seminari, proteggendoli dall’ingerenza della potenza locale; 
ma il fattore che accomuna questi due personaggi più di altri è quello di aver 
donato ai poveri, sapendo che ogni gesto d'amore ricade sul prossimo e arriva a 
Dio. Lo stile dell’opera farebbe pensare ad una mano a cavallo tra sei e settecento; 


18. Nella Bibbia l'agnello identifica il simbolo sacrificale per eccellenza. Agnello altro non è che il 


Cristo risorto e trionfante. L’Agnello/Gesù che era stato immolato è risorto, per la salvezza dell'umanità. 
Egli trionferà al di sopra del bene e del male rappresentati dal punto di vista del colore come l’eterno 
dualismo del bianco e del nero. 

19. “Ecco l'agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” in Giovanni 1,29. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 





se si pensa che inizialmente questa cappella fosse dedicata a Santa Teresa si può 
benissimo dedurre che questa fosse la prima pala d’altare dell’oratorio. 

A sinistra dell’altare c'è la porta dd sagrestia in cui è custodita una teca con 
una statua della Vergine in preghiera, forse usata per le processioni. 

Nella controfacciata due putti sorreggono uno stemma nobiliare, poco leg- 
gibile a causa dell’intonaco saltato. Il timpano della porta d’ingresso, dalla parte 
interna, è decorato come l’arco sopra l’altare, con bicromie neogotiche. 

La cappella oggi è ancora di proprietà del fratelli Pancanti. 


Cappella della Visitazione 


Villa Buonaparte “La Selva” 

Disposta sulla sommità di una collina, in una posizione che guarda a San 
Miniato, la villa Buonaparte, chiamata “La Selva”, oggi Masini, è raggiungibile 
da un esteso viale di cipressi che si snoda sul crinale, simbolo della toscanità più 
autentica. 

La primaria funzione produttiva della tenuta è sottolineata dall’architettura 
della villa dove si trova un corpo basso e più antico della fattoria collegata alla 
struttura settecentesca dominata da una torre e caratterizzata da un elegante gio- 
co cromatico delle decorazione parietali esterne disegnate in modo geometrico 
con riquadri e rombi. 

Già nelle mappe del 1585 compare la casa di Benedetto Buonaparte”, mentre 
nel catasto leopoldino del XIX secolo il fabbricato principale venne registrato 
come villa. 

Giovanni il Ghibellino, capostipite del ramo samminiatese dei Buonaparte, 
bandito da Firenze nel 1268, si do nella proprietà di Canneto dove aveva 
recuperato una buona solidità economica di natura fondiaria: tra i possedimenti 
elencati, compare La Selva messa in produzione da Flaminio Buonaparte nel 
XVIII secolo. 

Secondo la ricostruzione storica, la proprietà era passata da Francesco Buo- 
naparte nel 1678 ai fratelli Jacopo e Niccolò ed era giunta nel 1714 ai fratelli 
Gregorio, Giuseppe e Flaminio. 

A Gregorio, canonico della cattedrale di San Miniato, si deve la costruzione 
dell'oratorio nel 1734, posto di fronte alla parte meridionale della villa, circon- 
dato da alcuni bassi cipressi per rendere la cappella “più vaga e bella”. Secondo 
le regole imposte dall'ordinamento ecclesiastico, la chiesa viene fatta costruire 
staccata dal complesso della villa, con un ingresso indipendente e facilmente ac- 
cessibile dal pubblico. 

La facciata (fig. 7) sobria segue il modello classico; due lesene laterali sosten- 
gono il timpano privo di architrave, mentre l’unico accesso alla chiesa è sormon- 
tato da un di timpano al cui interno vi è una croce. Tra questo e il tetto a 
capanna vi sono una targa, che testimonia un restauro nel 1904, e una mattonella 





20 


E Bracaloni, San Miniato, Poggio al Pino - “La Selva” villa Buonaparte, Vannucchi, Ridolfi, Pel- 
leschi, Landi, Masini in E. Bracaloni, Paesaggi di villa, cit. p. 165. 
2! AVSM, Atti Beneficiali, filza n° 320. 


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Francesca Ruta 





in cui è stato dipinto il momento dell’Annunciazione. 

Sul lato destro esterno guardando l’ingresso vi è posta un’altra targa che ripor- 
ta la scritta AIM PORTUM TETIGI SPES ET FORTUNA VALETE LVDITE 
NVNC ALIOS R. V. E P AN M DCCC XI, poco più avanti un’altra mattonella 
rappresenta la Vergine addolorata. 

L'interno (fig. 8) è un'unica aula, molto sobria, con il pavimento bicolore in 
marmo bianco e grigio. Lungo la parte bassa delle pareti corre una fascia rosa alta 
dal pavimento fino a circa 80 cm; il resto è tutto dipinto d’azzurro. Quattro fine- 
stre a forma di quadrifoglio si aprono sulle pareti più lunghe, due per lato. Una 
cornice in stucco rosa definisce il soffitto, anch'esso azzurro. 

Subito dopo l'ingresso, sulla sinistra, vi è il fonte battesimale in marmo bianco 
di Carrara, molto sobrio nelle decorazioni, il quale richiama alla mente il primo 
e più piccolo fonte catino della Cattedrale di San Miniato, che si pensa sia quel- 
lo che oggi troviamo come acquasantiera all'ingresso della chiesa. La copertura, 
sempre in marmo, riprende gli stilemi architettonici della cupola del Brunelle- 
schi, con i costoloni ben evidenziati e una sorta di lanterna sovrastata da una 
sfera. 

L'altare, addossato alla parete, è decorato in modo rinascimentale; sopra di 
esso vi è la pala d’altare, un’opera contemporanea completamente dorata (ossi- 
data purtroppo dall’umidità?°) dell’artista Massimo Mannucci; lateralmente due 
lesene sorreggono un timpano spezzato con un bassorilievo che raffigura l’ostia 
con al centro l’iscrizione JHS. Il tabernacolo, anch'esso in stile rinascimentale e 
in legno è dipinto in bianco e oro. 

Sulla sinistra si accede ad un piccolo locale a servizio della cappella, funge da 
confessionale, da sacrestia e anche da campanile, dato che qui si trova la corda per 
muovere la campana inserita in un campaniletto a vela sul retro della cappella. 

Guardando verso l’uscita si può vedere sopra la porta lo stemma gentilizio 
dei Ridolfi e tre lapidi in marmo risalenti all’epoca in cui i proprietari erano i 
Vannucchi. La prima a sinistra è posta dal figlio Riccardo a ricordo di Angela 
Vannucchi, già della famiglia fiorentina dei Bracci; la stele centrale testimonia un 
restauro e un abbellimento della proprietà nel 1811 voluto sempre da Riccardo 
Vannucchi, professore presso l’Università di Pisa; quella a destra ricorda il piccolo 
Gotifredo Vannucchi, figlio di Riccardo e della moglie Maria Tortolina, morto a 
tre anni nell’aprile del 1802. 

L'artista contemporaneo Massimo Mannucci ha lasciato una sua testimonian- 
za anche all'ingresso della cappella: se si guarda alla prima mattonella scura su- 
bito dopo la porta notiamo che non è in marmo grigio come le altre, ma ha una 
tendenza al blu, questo perchè è un impasto che contiene lapislazzuli; l’artista ha 
voluto giocare con i cromatismi lasciando la sua firma contemporanea ma allo 
stesso tempo passare inosservato, ponendo il tutto a terra, dove lo sguardo poco 
si posa. 


2 Anche se l’oro non viene intaccato dall’aria, dall’ossigeno, dall'umidità e la maggioranza dei 


reagenti chimici è del tutto innocua, può essere ossidato con acqua regia (o acido nitroclorico) oppure 
se viene a contatto con soluzioni acquose contenenti ione cianuro + ossigeno o acqua ossigenata. Infine, 
l’oro, giallo o bianco che sia, si scioglie se viene a contatto con il mercurio. Cfr. http://www.bisceglia. 
eu/chimica/lab/oro 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 





Vista la sua posizione decentrata rispetto ai principali centri e strade, pochi 
sono i vescovi che decidono di visitare questo oratorio della Visitazione, ud 
do inviare canonici o richiedendo relazioni agli stessi parroci. 

La proprietà, attraverso il ramo corso Li Buonaparte, erede di Giuseppe 
Moccio, ultimo rappresentante del ramo di Giovanni, era pervenuta al professor 
Vannucchi. 

Nell'Ottocento i proprietari erano i marchesi Ridolfi, i quali, nella seconda 
metà del secolo, promossero un grande restauro della villa, realizzando anche 
progetti di riordino e ampliamenti, dando vita alla produzione vinicola che anco- 
ra oggi è il tratto caratteristico della tenuta. 

Durante il Novecento la proprietà è passata dai Pelleschi, ai Landi, ai Masini, 
oggi attuali proprietari, che hanno promosso un vasto programma di restauro 
architettonico e paesaggistico di tutta la tenuta. 


Oratorio di San Michele 


Fattoria di Sassolo 

Nella cura di Bucciano vi è un oratorio dedicato a San Michele Arcangelo, sito 
presso la fattoria di Sassolo. Questa è posta in una traversa della via principale che 
porta al piccolo borgo di Bucciano e viene così visitata spesso dai Vescovi durante 
le visite pastorali. 

La costruzione di questa cappella risale, come si evince dagli atti beneficiali, 
al 17972. Da questo dii ufficiale del 16 maggio 1797 si legge che il pro- 
prietario della villa, Dario del fu Francesco Mercati, chiede di poter costruire un 
oratorio presso la sua abitazione poiché 


“essendo la sua villa di Sassolo assai distante dalla Chiesa Parrocchiale di San 
Regolo a Bucciano Diocesi di San Miniato con strade molto aspre e fangose 
specialmente in tempo di pioggia, tal che si rende molto difficile l’accesso alla 
Parrocchia per ascoltare la S. Messa?””. 


La richiesta viene accolta il 6 agosto 1797 con alcune limitazioni: non vi si 
amministrino i sacramenti, né vi si facciano sacre funzioni pubbliche senza la li- 
cenza del parroco, non vi si facciano questue, né vi si costruiscano sepolture, non 
vi si dica Messa nei giorni solenni e vi si celebri nello stesso momento di quella 
parrocchiale; ma prima di tutto deve essere visitata da un delegato del vescovo e 
benedetta, cosa che sarà fatta dal Canonico Leone Cardi. Purtroppo il Cardi non 
ci fornisce nessuna descrizione della cappella al momento della sua edificazione e 
non ne troviamo nemmeno nelle relazioni delle visite pastorali. 

Grazie ad esse, tuttavia, si viene a sapere che la proprietà, nel periodo com- 
preso tra il 1814 e il 1867, è del Sign. Cosimo Pini di San Miniato. Nel 1867 
la cappella cambia patronato diventando di proprietà, sicuramente insieme alla 
villa, di Basilio Conti. 


2. AVSM, Atti beneficiali, filza n° 354. 
2 AVSM, Atti beneficiali, filza n° 354, cit. 


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Francesca Ruta 





Il parroco, nel 1954, scrivendo al Vescovo, dice che vi si fanno solamente 
funzioni nei mesi di Maggio e Ottobre, che è in buono stato ma che non vi si 
celebra la Messa festiva. 

Oggi non è possibile accertarsi delle condizioni di conservazione dell’Ora- 
torio, poiché i detentori delle chiavi della villa e della cappella abitano a Pisa e 
raramente tornano in questa proprietà, che oggi produce e commercia vino, e 


non danno la possibilità di visitarla. 


Oratorio di San Pietro 


Podere di Cafaggio o Villa di Cafaggiolo 

“La valle di ipso si trova tra la collina di Cusignano e quella di Corniano; 
la villa di Cafaggiolo è ubicata sulla destra del rio Cafaggio sulle prime pendici 
della collina di Corniano in luogo ameno, ma di difficile accesso. [...] Ciò spiega 
perchè i Vescovi, durante le visite pastorali, non si sono mai avventurati a visitare 
anche Cafaggiolo e il suo Oratorio”. Come ci spiega Don Livio Tognetti, parro- 
co di Marzana dal 1950 al 1996, lungo l’antica via che saliva alla località di Cor- 
niano troviamo il podere di Cafaggio, dove, nel 1839 il proprietario fiorentino 
Nobil Uomo Pietro Municchi, Sovrintendente generale delle Reali Possessioni, 
costruì un Oratorio. Dalle notizie che ci ha lasciato Don Tognetti?° e come pos- 
siamo leggere dall’atto beneficiale””, l'intenzione del Municchi era dedicare l'’Ora- 
torio alla Madonna, ma, senza ragione, fu poi dedicato a San Pietro d’Alcantara. 

La cappella era costituita da un'aula rettangolare con un solo altare, addossato 
alla parete, e un coretto con gelosia per ascoltare la funzione, il cui ingresso era 
posto nella cosiddetta “Stanza di Ciarpe”; davanti la cappella una piccola loggetta 
con due accessi esterni e uno interno che immetteva proprio nella stanza appena 
citata. 

Il piccolo oratorio venne arredato con molta cura e fornito di tutti gli oggetti 
sacri per poter essere celebrata la Messa. 

Impegnandosi a nome proprio, dei suoi eredi e dei successori a mantenere in 
buono stato la chiesina, Municchi chiese ed ottenne dal Vescovo, Mons. Torello 
Pierazzi, la dichiarazione di oratorio pubblico a patto che fosse anche a disposi- 
zione del parroco di Cusignano per la celebrazione delle funzioni e per l’ammi- 
nistrazione dei Sacramenti, cose che risultano eseguite fino in epoca abbastanza 
recente, nonostante i molti cambi di proprietari del podere, oggi della famiglia 
Falchi. 

Da come si può vedere dal disegno degli Atti Beneficiali, poche sono le varian- 
ti al progetto iniziale, nonostante i numerosi restauri, l’ultimo datato 1956, come 
ci di l'iscrizione latina sulla parete esterna che guarda la valle: “In hac parva 
valle resurgo et pulchrior quam eram. A.D. MCLXVI” (fig. 9).?8 In questi lavori 
successivi è stato murato un accesso esterno della loggetta, nello specifico quello 





25. L. Tognetti, Non voglio salir sulle vette. Frammenti, cronache e poesie, cit., p. 41. 


L. Tognetti, Non voglio salir sulle vette. Cit. p. 41. 
27. AVSM, Atti beneficiali, 1838-1839, n° 30 del 20 ottobre 1839, filza n° 379. 
“In questa piccola valle risorgo più bella di prima. 1956”. 


26 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 





di fronte alla porta della “stanza di Ciarpe”; il coretto laterale è stato tolto e le sue 
aperture murate (si possono notare le antiche aperture dalle crepe dell’intonaco 
sulla parete di destra). Oggi infatti si accede alla cappella solo dall’ingresso prin- 
cipale, che ha ai lati due finestrelle con grate; l’unica altra apertura è la finestra 
semicircolare in alto a sinistra. Nel 1985 la famiglia Falchi ha completamente 
restaurato il pavimento che era impraticabile perchè pericolante; oggi a cedere è, 
invece, il soffitto a botte ribassata dipinto con la colomba bianca, simbolo dello 
Spirito Santo, in un tripudio di raggi dorati. I metri quadri totali oggi sono circa 
11,50. 

La decorazione interna dell’oratorio è dipinta: lo sono le modanature laterali, 
ormai slavate dal tempo e dall’umidità che entra dalla su citata unica finestra a 
semicerchio o 4 occhio di bue sulla sinistra, ma anche le colonne che incorniciano 
il quadro di San Pietro (fig. 10), una stampa che ritrae fedelmente il San Pietro 
di Fra Bartolomeo in Vaticano (fig. 11). 

L'uso della colonna tortile, seppur dipinta, richiama elementi iconologici, 
rimandi biblici ed evocazioni imperiali (cfr. da ultimo M. Fagiolo e S. Tuzi); 
emblema dell’arte sacra barocca, questo tipo di colonna viene usata in Toscana 
con un evidente rimando pontificio e romano: fu Gianlorenzo Bernini il primo 
ad inserire quattro colonne tortili nel progetto del baldacchino di San Pietro in 
Vaticano, prendendo l’idea dalle antiche colonne che ornavano la tomba dell’A- 
postolo Pietro nell'antica Basilica di Costantino. La diffusione di questa colonna 
segue due diversi canali: da una parte il rimando iconologico, dall'altra lo sfrut- 
tamento della fastosità decorativa, diffuse entrambe soprattutto negli interni di 
cappelle e chiese, di cui questa è un semplice esempio. In questo caso, l’uso della 
i tortile impreziosisce l’altare, molto semplice, dando rilevanza all'opera 
posta sopra di esso. 

La questione tra la dedica della cappella a San Pietro d’Alcantara e l’immagine 
sull'altare mi ha messo molta confusione: se guardiamo agli altri oratori, spesso 
il santo raffigurato è lo stesso a cui è dedicata la cappella. Perchè in questo caso 
non succede? Se osserviamo la stampa capiamo subito che si tratta di San Pietro, 
l’apostolo e primo Papa, mentre l’unico motivo che ci porta a pensare a San Pie- 
tro d’Alcantara è la vicinanza della cappella alla via Francigena, strada di pellegri- 
naggio per Roma. I motivi pittorici di quest'ultimo santo sono completamente 
diversi rispetto a ciò che notiamo qui: non c'è il saio francescano, né qualsiasi ri- 
mando all'ordine, non troviamo la Madonna o Santa Teresa d'Avila, solitamente 
raffigurate con quel santo. Non si sa neppure in modo certo la motivazione per 
cui il dedicatario della cappella di Cafaggio sia San Pietro d’Alcantara: nell’atto 
beneficiale si legge la dedica a tale Santo “alla di cui gloria assegnata per la [...] 
affezione di I festa il dì 19 ottobre di ciascun anno, e che come a suo Patro- 
no, e patrono dell’oratorio medesimo vuole dedicargli il pio fondatore, osservate 
però le Rubriche del Messale Romano”. Da questa frase è possibile arrivare a 
ipotizzare il fatto che il Municchi abbia avuto una certa predilezione per questo 
Santo, il cui giorno è il 19 ottobre®°, ed essendo la maggior parte degli atti datati 
tra settembre e ottobre del 1839, è possibile anche pensare che la cappella sia stata 


29 AVSM, Atti beneficiali, filza 379, cit. 
30 http://www.nomix.it/santo-del-giorno/ottobre/19 


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Francesca Ruta 





benedetta proprio in quella data. 

Tuttavia il quadro con la stampa di San Pietro non sembra essere della stessa 
epoca della cappella: sul retro è protetto dall’umidità da una lastra di plastica e 
la nicchia in cui è incastrato è leggermente più profonda e, soprattutto, dipinta 
d’azzurro. Tutto questo ni a pensare che durante il grande restauro del 
1956 sia stato tolto ciò che decorava l’altare fino ad allora (forse proprio un 
rimando a San Pietro d’Alcantara?) e inserita quest'opera che si incastra per- 
fettamente nella nicchia sopra l’altare. Di questi lavori e della successiva festa 
alla presenza del Vescovo Mons. Felice Beccaro che benedì di nuovo il Podere e 
l'Oratorio, tuttavia, non è stata trovata notizia, quindi non possiamo sapere se la 
stampa sull’altare risale a quei lavori. Possiamo notare però che la relazione del 
1954 del parroco di Cusignano, di cui la villa di Cafaggio faceva parte, parla di 
questo oratorio il cui dedicatario è San Pietro Apostolo (attribuzione erronea data 
sicuramente dal fatto che il quadro attuale era già al suo posto), del fatto che non 
c'è una sagrestia e non menziona il coretto laterale. Dunque è ben comprensibile 
che queste modifiche sono precedenti, anche se, vista la protezione in plastica del 
quadro, non possono essere di molti anni prima. 


Cappella di San Vincenzo Ferreri 


Villa Bardi- Serzelli, Fattoria di Canneto 

Il complesso di Canneto sorge sui resti dell’antico castello?!. Nel 1623, Piero 
Bardi di Vernio prese tutti i beni dell'Ospedale di Santa Maria di Canneto, affi- 
liato alla compagnia fiorentina del Bigallo. Pochi anni prima, nel 1617, Filippo 
Bardi, vescovo di Cortona, aveva acquistato la casa padronale della fattoria, sita 
nell’area del vecchio castello e riconoscibile dalla colombaia. Da questa prima 
proprietà venne costruita e ampliata la tenuta nel corso dei secoli. 

Nel 1845, nonostante la famiglia Bardi, diventata Serzelli dai primi anni del 
secolo, avesse il patronato dell’antica chiesa parrocchiale di San Giorgio a Can- 
neto, il cav. Filippo ritenne necessario fornire alla villa un oratorio privato: il 18 
ottobre 1845 fu benedetta la cappella dalle sobrie forme rinascimentali dedicata 
a San Vincenzo Ferreri. Due anni dopo il vescovo, mons. Pierazzi, in occasione 
della visita pastorale, ordina di mettere una campana, la Croce e una tendina 
alla Madonna dell’altare. Nelle successive visite, Alli Maccarani (1855 e 1859), 
Barabesi (1867 e 1868), Falcini (1914), tutto viene trovato in ottimo stato e in 
ordine. 

Dalla visita pastorale del 23 aprile 1955 si viene a sapere che da tempo non vi 
viene celebrata la messa e che, a seguito di lasciti testamentari del conte Alberto 
morto il 6 luglio 1954, gli arredi della cappella sono stati trasferiti nella chiesa 
parrocchiale.? 

La cappella sorge in un angolo del parco padronale, addossata ad un angolo 
della villa (fig. 100); la facciata è semplice e sobria, il timpano è decorato fa finti 
travetti che sembrano uscire dalla costruzione (fig. 12). Anche l’unico portale è 


31 


M. A. Giusti, Le ville del Valdarno, cit, p. 83 e in particolare nota 1 p. 84. 
8. AVSM, Visite pastorali 1955-1956, filza n° 85. 


500 


Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 





sormontato da un piccolo timpano che all’interno è stato dipinto con il simbolo 
della Vergine; un rosone semicircolare, in vetro e ferro, è posto tra la porta e il 
tetto a capanna. Sulla parete libera esterna, a destra guardando l'ingresso, presen- 
ta una piccola edicola, oggi vuota, ma che fino a pochi anni fa custodiva un'icona 
votiva con la Vergine e il Bambino benedicente a fondo oro riquadrata in una 
cornice neorinascimentale scura con due lesene ai lati e una cuspide ad edicola. 
Un'ulteriore finestra si apre nel muro ma che non ritroviamo poi internamente. 

L'interno (fig. 13) è un'unica aula rettangolare con il pavimento in cotto; 
come si può notare da alcuni resti di colore slavati dall'umidità, le pareti erano 
decorate con motivi neorinascimentali e colori pastello. Sulla sinistra guardando 
l’altare si trova la stele in memoria del conte Pier Filippo de Bardi Serzelli*, po- 
sta dal nipote suo erede Michele Marcatili 11 marzo 1873. Questa memoria è 
l’unica opera in tre dimensioni presente nella chiesa, il resto delle parti architet- 
toniche, come le lesene dietro l’altare che simulano un baldacchino che protegge 
la statua della Vergine, è dipinto con la tecnica del trompe l'oil. 

Appena sotto uu vi è un piccolo “paravento” formato da un solo ele- 
mento in legno che veniva usato come confessionale, dividendo così il confessore 
dal peccatore. 

La zona dell’altare è divisa dall'assemblea tramite uno scalino. Il basamento 
dell’altare è decorato con pitture simulanti il finto marmo con al centro una cro- 
ce greca irradiante luce. Sopra troviamo una statua della Vergine col Bambino, 
inserita in una nicchia azzurra con lo sportello in vetro. La Vergine è riccamente 
vestita con un abito bianco stretto in vita e un mantello azzurro che all’interno 
è puntellato di stelle; i capelli sono sciolti e ricadono lungo le spalle, mentre una 
corona le sormonta la testa. Il bambino, anche lui coronato e riccamente vestito 
di bianco, è sostenuto dal braccio destro della madre, guarda verso Dio Padre ed 
ha le braccia aperte, in preghiera ma anche, probabilmente, un anticipo di quella 
che sarà la sua morte sulla croce. 

L'esterno della nicchia è ricoperta in stoffa rosa con motivi floreali; questa è 
ulteriormente riquadrata da una semplice cornice di legno che poi lascia spazio al 
finto baldacchino dipinto detto sopra: il finto architrave presenta motivi di foglie 
e, sopra di esso, due festoni sorreggono una targa dipinta con la scritta D.O.M.*. 

La porta d’ingresso, così come la finestra sopra di essa, è separata dalla chiesa 
da una tenda rossa bordata in oro. 

La fattoria è stata di proprietà della famiglia Bardi-Serzelli fino agli anni ‘80 
del ’900, oggi è di proprietà dell'azienda Amadori s.p.a. in stato di evidente ab- 
bandono e, in questi ultimi mesi, all’incanto presso il tribunale di Pisa. 





3 “Il conte Pier Filippo de Bardi Serzelli, con eletti studi e lodate scritture, crebbe gloria alla 


famiglia, per secolari fasti illustrata, da insigni accademie fu accolto, socio valente operoso di più ordini 
cavallereschi, d’alti uffici pubblici onorato, lasciò venerata memoria per modestia, senno civile, probita, 
morì d’anni LXV (65) in Firenze l 11 marzo MDCCCLXXIII (1873) il conte Michele Marcatili nipote 
ed erede pose questa memoria.” 

3. Deo Optimo Maximo, “Per mezzo di Dio, il più buono, il più grande”. 


501 


Francesca Ruta 





Oratorio di Santa Maria Assunta 


Villa Agnoloni 

La villa Agnoloni, situata lungo la via Samminiatese che collega Corazzano 
a Montaione, risale alla metà dell'Ottocento, così come la cappella che, come si 
legge dalla relazione del parroco del 1959”, risale al 1849. 

Nei documenti catastali leopoldini, la proprietà viene classificata come “casa 
da lavoratore”, come un podere, di proprietà Rosi. Del 1845 risulta l'atto di ven- 
dita da parte dei Rosi ai Betti di "a case e terreni nella zona di Corazzano, 
forse anche il podere in questione. 

Non è ben chiaro come la proprietà sia poi diventata Agnoloni: l’ipotesi più 
probabile potrebbe essere quella di un matrimonio. 

La cappella dedicata a Santa Maria Assunta è situata tra la strada e la villa, di 
fronte ad alcuni ex annessi agricoli, oggi ristrutturati e trasformati in abitazioni. 
Accanto alla chiesa vi sono alcune stanze ad uso agricolo e, dietro, un piccolo 
campanile quadrato con ancora la sua campana (fig. 14). 

Essendo l'oratorio in completo abbandono da decine di anni, la natura ha 
preso il sopravvento. Su due lati vi è cresciuto un importante canneto, mentre la 
porta è semibloccata dall’edera, cresciuta e ramificata su tutta la facciata. Impos- 
sibile capire lo stile architettonico esterno. 

All’interno vi è un'unica aula piuttosto grande in stile neoclassico (fig. 15). 
Un parapetto in pietra divide l'assemblea dall’altare, sovrastato da una pala resa 
illeggibile dall’incuria, dall'abbandono e dalle intemperie, visto che la cupola so- 
pra l'altare è crollata. 

Ai lati dell’altare vi sono quattro lapidi in ricordo della famiglia Agnoloni, due 
delle quali dedicate a Quintilia Agnoloni nata Conti e l’altra a Cesare Agnoloni. 

L'oratorio viene visitato dal Vescovi già dopo pochi anni dalla sua costruzione: 
la prima visita, considerando il fatto 1 la sede vescovile è vacante dal 1851 al 
1854, risale a quella effettuata dal delegato di mons. Alli Maccarani, Gaetano 
Melani, il 30 aprile 1859, in cui viene detto che nell’oratorio “tutto trovarsi in 
ordine, siccome di recente costruzione”3°, 

Dopo un breve accenno alla visita del 1867, sono le relazioni dei parroci del 
1913 e del 1954 a darci più notizie riguardo questa cappella: nella prima si dice 
che ha un bellissimo altare, che vi sono moltissimi parati nuovi e che tutto è con- 
servato in modo perfetto; ma si viene soprattutto a sapere che il dipinto sull’altare 
ha una prevalenza di rosso: “vi manca la pianeta Paonazza, non ancora provvedu- 
ta [...] avendone un’altare in cui predomina il suddetto colore”; nella seconda 
viene detto l’anno di costruzione della cappella, la frequenza delle messe (tutti i 
festivi) e da chi viene offiziata, il reverendissimo sign. Giuseppe Agnoloni. 

Questi, ultimo dei quattro figli di Cesare Agnoloni, 


“ascolta la propria vocazione e decide di intraprendere gli studi teologici che 
con grande profitto riesce a terminare a Roma, presso l’Università Gregoriana, 





8. AVSM, Visite pastorali, filza 83. 
36. AVSM, Visite pastorali, filza 75. 
87. AVSM, Visite pastorali, filza 79. 


502 


Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 





dove si abilita in Diritto canonico. Ancora studente, a ventidue anni, e per la 
precisione il 18 settembre del 1909, è ordinato sacerdote. Ma i suoi interessi non 
sono limitati alle scienze teologiche e decide — facendo una scelta che segnerà 
profondamente tutta la sua vita, soprattutto quella di insegnante — di iscriversi 
dapprima al corso di Laurea in scienze naturali della Regia Università di Pisa 
(1912), per poi proseguire e ultimare gli studi scientifici i ateneo di 
Padova. Certamente i suoi studi furono interrotti dalla chiamata alle armi, che 
non risparmiava nemmeno il clero, specialmente i sacerdoti che non svolgevano 


. . . . . ce > . 38 » 
il proprio ministero di parroco e non avevano “cura d’anime”?, 


Docente presso il Conservatorio di Santa Chiara e presso il Seminario vesco- 
vile locale, ne diventerà poi il rettore. Fu Canonico della Cattedrale e contribuì 
agli studi per combattere la malaria nell’agro pontino. Morirà il 16 marzo 1967. 


Oratorio della Madonna del buon consiglio 


Villa di Collebrunacchi 

L'oratorio della Madonna del buon consiglio presso la villa di Collebrunacchi, 
nonostante l'aspetto rinascimentale della facciata, è relativamente recente. 

L'avvocato Filippo Formichini, regio procuratore del tribunale di San Minia- 
to, dopo aver acquistato la proprietà di Collebrunacchi dalla famiglia Mannelli, 
ottenne dal Ministero per gli aftari ecclesiastici l'autorizzazione a costruire un 
oratorio pubblico presso la villa omonima, nel vasto piazzale a ovest del parco, il 
16 giugno 1853. Il proprietario provvide con grande sollecitudine alla costruzio- 
ne cosicchè il canonico Francesco Alli Maccarani, futuro vescovo, con decreto del 
17 settembre 1853 ne autorizzò la benedizione da parte del sacerdote Giovanni 
Gherardi che avvenne il 1° ottobre di quello stesso anno. Si presentava, e così 
è ancora oggi, con la facciata in stile rinascimentale, un'aula rettangolare con 
l'aggiunta di due coretti laterali con grate con ampio retro altare in funzione di 
sacrestia, metri quadri totali circa 37. Sulla terrazza della villa venne posta una 
campana per il richiamo dei fedeli. AI parroco, che lo visitò per conto del Vescovo 
prima della Benedizione, sembrò di una forma e di una eleganza squisita. 

Nel 1855 il Formichini chiese ed ottenne di erigere la via Crucis nell’Orato- 
rio, mentre nel 1867 viene concessa la facoltà di doo la Messa nel pubblico 
Oratorio di Collebrunacchi anche nei giorni solenni ori, ed eccettuati nel Sinodo 
Diocesano, sempre che però vi acceda il consenso del parroco e siano presi con 
esso gli opportuni concerti”, 

In tutte le visite pastorali successive si trovano solo parole di apprezzamento 
ed elogio per la cura che i Formichini avevano per il loro Oratorio; ciò spinse il 
Vescovo ad accogliere con favore le loro ulteriori richieste. Il 21 giugno 1931, la 
Sacra congregazione dei Sacramenti, su richiesta approvata dal Vescovo, conces- 





38. A. di Bartolo, // canonico Agnoloni, un prete soldato, in La Domenica on line, giornale on line 


della Diocesi di San Miniato, 07/04/2016. 
8°. L. Tognetti, Non voglio salir sulle vette, cit. p. 40. 


503 


Francesca Ruta 





se la facoltà di conservare il SS. Sacramento nell’Oratorio quando i Formichini 
erano in Villa e di potervi celebrare la Messa tutte le domeniche durante l'estate. 
D'altronde, la fattoria di Collebrunacchi, con trenta poderi e altrettante famiglie, 
era un nucleo consistente della Parrocchia di Cusignano. Per ottemperare agli ob- 
blighi religiosi, ogni domenica un contadino della fattoria si recava a San Miniato 
con calesse e cavallo a prelevare un sacerdote o un frate per celebrare la Messa. 

Tutto ciò è continuato fino agli anni °60 del Novecento quando l’esodo dall’a- 
gricoltura e la cessione della Fattoria ha modificato totalmente la situazione. 

Oggi l'Oratorio, ristrutturato grazie all’attuale proprietà Starnotti, gode di 
nuovo splendore, il pavimento è stato rifatto e le pitture integrate: un cielo stel- 
lato nella volta a crociera e una corona di serafini nel coro. 

La facciata (fig. 16), elegante e austera, è ornata da una composizione bi- 
croma, con finiture color rosa salmone. Due lesene incorniciano il prospetto, 
sostenendo una finta architrave costituita da una fascia bianca che, a sua volta, 
sostiene una cuspide ad edicola ornata da due guglie minori ai lati, che contribu- 
iscono ad esaltare la linea verticale della costruzione. Sopra la porta vi è un tim- 
pano arcuato che, probabilmente, conteneva una pittura o una formella, come 
nel caso dell'oratorio di Marzana. Girando intorno alla piccola chiesa, si nota 
come la decorazione a bande orizzontali bicrome continui su tutto il perimetro. 
Lateralmente si riconoscono i due coretti che vengono fuori rispetto all'aula ec- 
clesiale rettangolare, forse successivi alla prima costruzione della cappella poiché 
nella relazione del parroco al Vescovo nel 1954 viene scritto “aggiunti due coretti 
laterali con grate”. 

L'interno è molto curato (fig. 17): il pavimento in cotto ha una banda in mat- 
tonelle colorate che ne evidenzia il perimetro; la volta, a crociera vicino l’ingresso 
e a botte sopra l’altare, è dipinta d’azzurro con tante piccole stelle", che richiama- 
no alla mente la basilica superiore di Assisi ma anche, l’oratorio di Sant Urbano 
lungo la via Angelica, più vicino ai samminiatesi; al centro della “cupola” un coro 
di angeli cherubini posti a forma di mandorla fanno da cornice alla sigla AM, 
ovvero Ave Maria. Non vi sono notizie in merito all’autore ma vi è un’ ipotesi 
proposta dall’arch. Francesco Fiumalbi sul fatto che l’artista in questione sia Ga- 
etano Ciampolini, allievo di Galileo Chini. Secondo Fiumalbi‘*, la decorazione 
pittorica dell'oratorio risalirebbe ai primi anni ‘10 del ’900 e l'attribuzione alla 
mano del Ciampolini è data dal confronto di quest'opera con la Madonna As- 
sunta dipinta nella volta absidale nella chiesa dei SS. Martino e Stefano di San 
Miniato Basso. In particolare, il riferimento è evidente nelle figure degli angeli, 


‘0 AVSM, Visite pastorali, 1954, filza n° 84, voce Cusignano. 

4! Il fatto che la dedicataria dell’oratorio sia la Vergine può aver influito su questa decorazione: 
pensiamo ad esempio al fatto che le stelle ornano, spesso, il mantello blu di Maria. 

4 http://smartarc.blogspot.it/2012/02/loratorio-di-collebrunacchi.html Ultima consultazione 
12/01/2017 

4. Bollettino Diocesano, anno 1912, pag. 42 in F. Mandorlini (a cura di), San Miniato Basso. Un 
secolo in bianco e nero, FM Edizioni, San Miniato Basso, 2005, p.11. 

4 “Secondo la tradizione, nel 1467, a Genazzano durante le festività dedicate a San Marco, il 
popolo udì improvvisamente una musica. Una nube misteriosa discese e ricoprì un muro incompleto 
della chiesa; successivamente la nuvola di dissolse e si rivelò un bellissimo affresco della Beata Vergine 
Maria e Gesù Bambino, di spessore sottilissimo. Sembra che in presenza del dipinto siano avvenuti 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 





talmente simili da far pensare all'utilizzo degli stessi cartoni preparatori. Anche 
la decorazione di riempimento centrale a simulazione del mosaico è pressochè 
uguale a San Miniato Basso. 

Il presbiterio è diviso dall'assemblea grazie ad uno scalino sovrastato da un 
arco bicromo. Dietro l’altare vi è un piccolo coro che funge anche da sacrestia, a 
cui si accede grazie a due porte poste ai lati della pietra sacrata. 

Le pareti, molto più semplici e austere rispetto al soffitto, sono decorate uni- 
camente dalla Via Crucis. E probabile che inizialmente fossero dipinte e decorate 
con gli stessi motivi e colori del soffitto, come suggerisce un resto di pittura nella 
parte in alto a sinistra dell’altare. 

Pala d’altare (fig. 18) è un piccolo ritratto della Vergine con bambino del tipo 
iconografico chiamato Madonna del Buon Consiglio. Questo è una variante della 
Madonna della Tenerezza, dove il piccolo Gesù bambino tiene una mano intorno 
al collo della Vergine e l’altra appoggiata sulla parte superiore del petto, come 
se fosse nell’atto di esprimere un consiglio alla Madre. L'iconografia è ripresa 
dall’affresco conservato presso il Santuario della Madonna del Buon Consiglio a 
Genezzano (Rm). Il dipinto Starnotti è riquadrato da una cornice dorata e po- 
sto al centro di una pittura trompe l’oeil che riprende l’idea del baldacchino sopra 
l’altare. Anche qui, vediamo dipinte le colonne tortili, ormai simbolo dei baldac- 
chini d’altare post berniniani, che sostengono un timpano in cui sono raffigurati 
due angeli con in mano un libro, presumibilmente i testi sacri. Sulla sommità 
tre sfere sono collegate tra loro da un motivo ad onde; tutto ciò è decorato con 
motivi floreali. 


Oratorio dell’ Assunta 


Villa Morali Lorenzelli 

Nel castello di Bucciano la samminiatese famiglia dei Morali fece erigere, nei 
primi del ’600, una casa padronale molto più piccola rispetto alla villa che vedia- 
mo oggi. L'ampliamento si deve a Ranieri Morali che, fra il 1765 e il 1791, pro- 
mosse dei lavori che inglobarono in un corpo quadrangolare le due case adiacen- 
ti. Nel 1795 la villa raggiunse l’aspetto che aveva ancora ai primi del °900, “prima 
della costruzione del corpo EL e dell’abbattimento del recinto del prato”. 

Con l'estinzione del ramo samminiatese della famiglia Morali, la proprietà passò 
ai Bertacchi, per poi essere venduta ai Donati e successivamente ai Lorenzelli. 

Nel 1911, poco dopo l’acquisto, Alfonso Lorenzelli dette avvio ai lavori di 
ammodernamento e ampliamento della fattoria. Con questi lavori, la famiglia 





diversi miracoli, ed sembra anche che sia stato miracolosamente trasportato in una chiesa in Albania. 
Il culto dell'immagine sacra si diffuse notevolmente, tanto che papa Urbano VIII nel 1630 vi compì 
un pellegrinaggio e così fece Pio IX nel 1864. Nel 1682 papa Innocenzo XI incoronò solennemente 
l’immagine. Nel 1753 papa Benedetto XIV costituì la Pia Unione della Madonna del Buon Consiglio 
e anche Leone XIII, anch'egli membro dell’Unione, ne fu profondamente devoto.” http://smartarce. 
blogspot.it/2012/02/loratorio-di-collebrunacchi.html a cura di E Fiumalbi 

5 M.A. Giusti, Le ville del Valdarno, cit. p. 63. 

4° AVSM, Atti Beneficiali, filza n° 410, fasc. 9Bis, “Riconfinazione fra i beni della sig.ra Emilia 
Bertacchi in Guastalla e quelli della chiesa Prioria di Bucciano”. 


505 


Francesca Ruta 





Lorenzelli, grazie ad una permuta con la parrocchia, ottenne la proprietà dell’an- 
tico oratorio di San Filippo Neri, oggi sconsacrato e trasformato in abitazione, e 
dell’ex- canonica. 

Oltrepassato il blocco quadrangolare dell’edificio, si accede al giardino di im- 
pianto ottocentesco. Qui troviamo la cappella della villa, un'elegante costruzione 
neogotica a edicola ottagonale coperta a cupola (fig. 19), fatta costruire nel 1889 
dalla signora Emilia Bertacchi che, a causa di contrasti riguardanti la proprietà di 
alcuni terreni”, era entrata in rotta col parroco. 

Non si sa per certo chi sia il santo dedicatario di questa chiesetta, ma il Boldri- 
ni, nel suo Dizionario dei Toponimi, parla dell'“Oratorio di Sant Andrea nella 
Villa di Bucciano”, mentre altri esperti di storia locale, come il sign. Giovanni 
Corrieri, affermano sia dedicata all’Assunta. 

L'interno (fig. 20) è sobrio, privo di un vero e proprio altare, sostituito da un 
altarino in legno dipinto con motivi di intarsi in marmi colorati. Privo di pala 
d’altare, vi è stata posta una sacra famiglia che richiama lo stile delle icone orto- 
dosse, di cui è una copia. 

Due finestre a sesto acuto fanno entrare la luce che illumina il soffitto a cupola 
tinto d’azzurro. 

La cappella viene citata nelle relazioni dei parroci; in quella degli anni 1931‘ 
e 1936-40 viene detto che grazie ad un Breve Pontificio di Benedetto XV del 
1915 vi si può celebrare la Messa ma che “attualmente, tale oratorio, quantunque 
non serva ad altri usi, non è uffiziato”99. 


Conclusioni 


Con questo studio ho voluto far conoscere quella parte di patrimonio storico 
artistico che rimane inosservato ai più. Come si è potuto vedere, le notizie che 
ho ricavato sono molteplici: da quelle poco note, come per esempio la cappella 
Agnoloni, a quelle edite in numerosi testi locali, come quella di Castellonchio o 
di Castelvecchio. Ci sono nomi della storia dell’arte piuttosto conosciuti, come 
Giovanni da San Giovanni, a quelli locali come Alessandro Bongi e Amerigo 
Ciampini. 

Ma il fattore più evidente di questo studio è lo stato delle cappelle in generale: 
la maggior parte di esse sono abbandonate a sé stesse, in parte crollate e lasciate 
in preda alla natura. Se fino agli anni 50-60 del ’900 queste piccole chiese erano 
vissute con una certa assiduità, con la fine della vita contadina e mezzadrile sono 
finite anch'esse. Ricordiamo infatti che molti di questi oratori vennero creati, 
oltre che per il prestigio della famiglia proprietaria, anche per poter agevolare i 
lavoratori nel seguire la fede; le ville spesso erano poste in luoghi isolati ed era 
poco agevole, soprattutto d’inverno, arrivare fino alla chiesa parrocchiale per se- 
guire la Messa: molte sono le richieste di fondazione e cu. degli oratori 





4 R. Boldrini, Dizionario dei toponimi del comune di San Miniato, Tipolitografia Bongi, San 


Mniato 2004, voce “Sant'Andrea”. 
48. AVSM, Visite pastorali, filza n° 80. 
4 AVSM, Visite Pastorali, filza n° 82. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 





che riportano come motivazione questo fatto, ben leggibili negli Azzi Beneficiali 
nell'Archivio Diocesano di San Miniato. 

Fortunatamente, negli ultimi anni, alcune ville e fattorie sono tornate a nuova 
vita grazie ai flussi turistici, venendo trasformate in agriturismi, hotel e ristoran- 
ti oppure tornando a produrre merce eno-gastronomica. In tal modo anche le 
cappelle sono state ripristinate, tornando alla loro sacra funzione in determinate 
occasioni. 

Spero che questa mia ricerca possa far nascere una sana curiosità soprattutto in 
chi vive San Miniato ogni giorno, che possa spingere a osservare il proprio paese e 
i dintorni con più attenzione e che possa creare una maggior consapevolezza della 
propria storia e del proprio passato. 


Bibliografia 


AVSM, Visite Pastorali, filze da n°59 al n°84 (mancante il n°77), e Atti Beneficiali, 
filze da n°296 al n°430. 


Bollettino Diocesano, anno 1912, pag. 42 in Mandorlini F. (a cura di) (2005), Sar 
Miniato Basso. Un secolo in bianco e nero, FM Edizioni, San Miniato Basso, 


p.11.Di Bartolo A. , // canonico Agnoloni, un prete soldato, in La Domenica on 
line, giornale on line della Diocesi di San Miniato, 07/04/2016. 


http://www.bisceglia.eu/chimica/lab/oro 
http://www.nomix.it/santo-del-giorno/ottobre/19 
http://smartarc.blogspot.it/2012/02/loratorio-di-collebrunacchi.html 


TocNEtTI L. (1996) Nor voglio salir sulle vette. Frammenti, cronache, poesie, a cura 
di Malik H. e Fiordispina D., San Miniato, FM edizioni; 


Vangeli di Luca e Giovanni; 


507 


Francesca Ruta 








Fig. 1: Oratorio di San Marcellino, Podere Becattini, 1679-80, loc. Ontraino, esterno. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 














Fig. 2: Oratorio di San Marcellino, Podere Becattini, 1679-80, loc. Ontraino, interno. 


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Fig. 3: Oratorio di San Giovanni Battista, Villa Pancanti, 1693, loc. Corazzano, facciata. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 








Fig. 4: Oratorio di San Giovanni Battista, Villa Pancanti, 1693, loc. Corazzano, interno. 


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Fig. 5: Oratorio di San Giovanni Battista, Villa Pancanti, 1693, loc. Corazzano, San Giovanni Battista, 
anonimo, affresco, XIX sec., abside. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 


Fig. 6: Oratorio di San Giovanni Battista, Villa Pancanti, 1693, loc. Corazzano, Vergine con bambino e 
Santi Teresa d’Avila e Carlo Borromeo, anonimo, olio su tavola, XVII sec. 


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Fig. 7: Oratorio della Visitazione, Villa Buonaparte-Ridolfi “La Selva”, 1734, loc. Poggio al Pino-Ponte 
a Elsa, facciata. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 








Fig. 8: Oratorio della Visitazione, Villa Buonaparte-Ridolfi “La Selva”, 1734, loc. Poggio al Pino-Ponte 
a Elsa, interno. 


DIS 


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Fig. 9: Oratorio di San Pietro d’Alcantara, Villa di Cafaggio, 1839, loc. Cafaggio, esterno con la scritta 
a al restauro del 1956. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 








Fig. 10: Oratorio di San Pietro d’Alcantara, Villa di Cafaggio, 1839, loc. Cafaggio, interno. 


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Fig. 11: Oratorio di San Pietro d’Alcantara, Villa di Cafaggio, 1839, loc. Cafaggio, Sar Pietro, stampa. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 








Fig. 12: Oratorio di San Vincenzo Ferreri, Villa Bardi-Serzelli, 1845, loc. Canneto, facciata. 


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Fig. 13: Oratorio di San Vincenzo Ferreri, Villa Bardi-Serzelli, 1845, loc. Canneto, interno. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 








Fig. 14: Oratorio dell’Assunta, Villa Agnoloni, 1849, loc. Corazzano, esterno con campanile. 


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Fig. 15: Oratorio dell'Assunta, Villa Agnoloni, 1849, loc. Corazzano, interno. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 








Fig. 16: Oratorio della Madonna del Buon Consiglio, Villa Formichini-Starnotti, 1854, loc. Collebru- 
nacchi, facciata. 


523 


Francesca Ruta 





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G 
is) 
3 





Fig. 17: Oratorio della Madonna del Buon Consiglio, Villa Formichini-Starnotti, 1854, loc. Collebru- 
nacchi, interno. (ph. Francesco Fiumalbi) 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 





(91) 


cirio VE 


per METE A 





Fig. 18: Oratorio della Madonna del Buon Consiglio, Villa Formichini-Starnotti, 1854, loc. Collebru- 
nacchi, ciborio e altare. (ph. Francesco Fiumalbi) 


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Francesca Ruta 








Fig. 19: Oratorio di Sant'Andrea, Villa Morali Lorenzelli, 1889, loc. Bucciano, facciata. 


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Oratori in fattoria. Un itinerario tra le cappelle di ville, fattorie 
e poderi nel territorio di San Miniato (terza parte) 








Fig. 20: Oratorio di Sant'Andrea, Villa Morali Lorenzelli, 1889, loc. Bucciano, interno. 


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Restaurata la tela della Madonna del Carmine: 
un recupero devozionale 





CRISTINA GUERRA 


La tela della Madonna del Carmine dipinta ad olio, dalle grandi dimensio- 
ni di 242x180 cm comprensiva dell’ingombro della cornice, è databile alla fine 
del XVII secolo. Raffigura la Vergine del Monte Carmelo con Cristo Bambino 
in braccio, attorniati da santi indentificati come San Giovanni Battista, Santa 
Caterina d'Alessandria, San Giacomo, da angeli e putti che assistono alla scena 
dell’incoronazione. Purtroppo non è stato possibile formulare un’attribuzione. Il 
dipinto fa parte dell’etereogenità di opere presenti all’interno del Santuario Ma- 
dre dei Bimbi di Cigoli, già conosciuto per la devozione verso la Madonna, che 
lo rendono unico per la sua ricchezza di manifestazione d’arte. 

L'intervento di restauro ha interessato innanzitutto la conoscenza e la com- 
prensione delle cause e dell’aspetto del degrado del manufatto. Lo studio dello 
stato conservativo in cui l’opera versava, l'acquisizione di informazioni fornite 
dall’osservazione e da un’accurata indagine fotografica, il riconoscimento di ma- 
teriali e delle tecniche esecutive dello stesso, hanno permesso di progettare un 
piano di intervento e di conservazione puntuale per l’opera in esame. Sono state 
quindi individuate le necessarie operazioni di consolidamento, risanamento del 
supporto, fermatura del colore, riadesione tra gli strati pittorici e restituzione 
estetica sia per la tela dipinta che per la cornice. 

La tela è stata ritrovata ripiegata nella soffitta dello stesso Santuario. L'inter- 
vento di restauro ha riguardato È soluzione di due grandi problematiche: la pri- 
ma, tangibile, che richiedeva un intervento tempestivo: interessava la decoesione 
tra lo strato pittorico e gli strati sottostanti di preparazione della tela, dove il 
colore nella forma di isole di piccole dimensioni risultava ormai in parte distac- 
cato dalla preparazione, rischiando così di perdere materiale originale ad ogni 
sollecitazione meccanica. L'altra problematica riguardava le deformazioni rigide 
localizzate del supporto tessile, causate da un tensionamento non più funzionale, 
presenti in modo particolare nella zona inferiore dell’opera provocando spancia- 
menti e collassi del supporto tessile. Anche il telaio provvisorio, che teneva in 
verticale la tela, è stato sostituito con un nuovo telaio mobile ad espansione nei 
due sensi, capace di adempiere alle nuove esigenze. 

Durante il sopralluogo, l'indagine fotografica, propedeutica all'intervento, è 
stata la prima operazione eseguita, mirata a sottolineare le problematiche suddet- 
te (Matteini, Moles Roma 1988). L'impiego dell’indagine in luce radente (LR), 
in modo particolare, eseguita senza spostare il dipinto LL sua posizione con una 
lampada posta, con le dovute accortezze, il più radente possibile al film pittorico, 
ha messo in evidenza la discontinuità dell'andamento superficiale dello strato 
pittorico. I sollevamenti e i distacchi, le crettature e le scodellaure del colore, lo 


529 


Cristina Guerra 





spessore delle pennellate e lo spessore delle creste, le deformazioni, la tela a vista 
di manifattura artigianale: sono stati tutti elementi fondamentali nel definire una 
“carta d’identità” dui permettendoci di comprendere al meglio, in primis, 
la tecnica d'esecuzione ma soprattutto il livello di danneggiamento e di altera- 
zione. 

L'intervento successivo ha interessato il distacco del dipinto dalla parete del 
confessionale del Santuario, dove per diverso tempo è stato alloggiato. 

Una volta staccato dal muro è stato possibile mettere l’opera in sicurezza pri- 
ma del trasporto in laboratorio. La mancata adesione id colore al supporto, 
significava che qualsiasi operazione poteva essere altamente rischiosa. Abbiamo 
quindi eseguito, in situ, una velinatura protettiva del colore, utilizzando fogli di 
carta giapponese n°502 e colla animale, stesa a pennello per far aderire la velina 
allo strato pittorico. La scelta dell’adesivo è stata dettata dalla volontà di impiega- 
re materiali compatibili con l'originale, ovvero l’impiego di un adesivo naturale 
come la colla già presente tra i materiali costitutivi dell’opera. Si tratta di un in- 
tervento superficiale e non invasivo, senza provocare danni e di facile rimozione. 
La velinatura ci ha permesso di eseguire le successive fasi di lavorazione in piena 
sicurezza, proseguendo con il trasporto dell’opera. 

Una volta trasportato il dipinto in laboratorio, è stato possibile osservare il re- 
tro. Si tratta non di un'unica tela ma di tre tele cucite tra loro in senso longitudi- 
nale. La tela dipinta così assemblata, era ancorata tra il telaio e la cornice tramite 
viti lunghe circa quattro centimetri, disposte tre per lato e avvitate dal retro in 
avanti procurando lacerazioni del supporto in tela. 

Abbiamo quindi rimosso la cornice e liberato il dipinto impiegando un cac- 
ciavite a stella, limitando al minimo lo stress da sollecitazioni meccaniche. La tela 
si trovava esattamente in una posizione a “sandwich” tra il telaio provvisorio e la 
cornice coprendo, questa, circa dieci centimetri di colore originale. 

Asportata la cornice, abbiamo notato che il dipinto era ancorato al telaio tra- 
mite graffette metalliche di ultima generazione, puntualmente disposte lungo 
tutto il bordo a una distanza di circa quattro centimetri l’una dall’altra. Una 
volta rimosse le graffette, la parte di colore finora nascosta dalla cornice è stata 
velinata come precedentemente fatto per il resto della superficie pittorica. Inoltre 
è stato ssi constatare che il lato superiore e il lato inferiore della tela risul- 
tavano ridimensionati, diversamente dal lato lungo dove era presente la cimosa. 
In particolare, il lato inferiore è stato tagliato di circa un paio di centimetri in 
corrispondenza del piede di S. Giovann Battista, così come nel bordo superiore il 
colore coincide con la fine della tela. 

Il dipinto è stato posto a faccia in giù con il colore rivolto verso il pavimento 
in modo da poter pulire meccanicamente il retro ed asportare lo sporco e ogni 
materiale depositato tra gli interstizi delle fibre. Durante la pulitura, cautamente 
eseguita a bisturi a lama fissa, si è ottenuto il rilassamento delle fibre tessili, ciò 
significa che la tela non più contratta a causa dello sporco ha riottenuto una mag- 
giore flessibilità. Durante questa fase è stato necessario assottigliare lo spessore 
delle cuciture tra le tele per evitare che si improntassero sul davanti durante la 
stiratura. 

Abbiamo ritenuto necessaria l'operazione di rintelatura per conferire maggior 
sostegno alla tela. E stato, quindi, montato il telaio interinale in metallo delle 
dimensioni a noi necessarie, due metri per tre, per poter tensionare la tela nuova. 


530 


Restaurata la tela della Madonna del Carmine: un recupero devozionale 





La nuova tela apportava dimensioni maggiori rispetto all'originale aggiungendo 
un margine di quindici centimetri per lato utili al momento del ritensionamento. 

Sul retro Li dipinto è stato steso a pennello un impermeabilizzante sintetico 
diluito in un solvente organico al 50% ottenendo una soluzione liquida, al fine 
di rendere la tela meno sensibile agli sbalzi termo-igrometrici e ottenendo un 
pre-consolidamento. Abbiamo proseguito con la foderatura, eseguita con colla di 
pasta, cioè un adesivo a base acquosa di origine naturale le cui componenti sono 
farina, colla e trementina, applicato sia sulla tela originale che sulla tela da rifode- 
ro per una maggiore tenuta. Si è proceduto alla sovrapposizione delle due tele. La 
foderatura ha avuto lo scopo di irrobustire il supporto, riottenere l’adesione tra 
gli strati, e conferire al dipinto la corretta planarità. 

L'impiego di questo adesivo è stato possibile in quanto non abbiamo riscon- 
trato problemi di sensibilità del supporto all'umidità, mantenendo sempre il 

rincipio di affinità dei materiali. L'adesione è stata ottenuta tramite pressione e 
si di calore controllato, stirando il dipinto dal lato del colore, fino alla com- 
pleta asciugatura dell’adesivo, con l’ausilio di strati di fogli di giornale che assor- 
bissero l'umidità durante l'operazione. Ottenuta la corretta riadesione di tutti gli 
strati, è stato possibile svelinare il dipinto con acqua calda, eliminando la carta 
giapponese che proteggeva il film pittorico. 

Abbiamo proseguito con il test di solubilità secondo il metodo “Wolbers- 
Cremonesi”, con un primo approccio volto alla rimozione della vernice ingiallita, 
dovuta alla formazione di gruppi cromofori che pone serie limitazioni alla corret- 
ta lettura dell’immagine pittorica (PCremonesi-E.Signorini, 2013). Tale metodo, 
nelle tre serie di miscele (LA-LE-AE, rispettivamente ligroina-acetone, ligroina- 
etanolo e acetone-etanolo) ha previsto di escludere la presenza di solventi tossici 
e al tempo stesso di avere una gamma più ampia di solventi a polarità maggiore. 

A tal proposito sono state messe a punto miscele di due Li organici, Li- 
groina ed Acetone o Acetone ed Alcool ovvero Etanolo, a seconda delle zone da 
trattare, determinando i parametri di solubilità. Ciò significa che per determinare 
la solubilità di un materiale filmogeno, è necessario provare i. o miscele 
a polarità diversa, fino a trovare quel valore efficace a scioglierlo o a rigonfiarlo 
eseguendo il Test di Solubilità con miscele di solventi a polarità crescente. Ed è 
quanto è stato fatto con i saggi di pulitura. 

I test preliminari hanno previsto un approccio ragionato alla valutazione dei 
materiali da rimuovere. Nel nostro caso, iL dipinto apportava uno spesso strato di 
vernice ingiallita, ovvero uno strato protettivo a base di materiali resinosi di ori- 
gine naturale, e sporco quale nero fumo, che falsava la cromia del film pittorico. 
Si è optato per un primo livello di pulitura, identificato con la rimozione dello 
sporco superficiale, la cosiddetta surface cleaning. 

Eseguiti tutti i test necessari e trovata la miscela di solvente adatta, talvolta 
diversa in base alle zone da trattare, sono stati impiegati cotoncini di cotone per 
la rimozione del materiale. Proseguendo a piccoli passi è stato ammorbidito lo 
strato di vernice, per poi essere asportato evitando eccessiva azione meccanica, 
fino a raggiungere un assottigliamento omogeneo del film protettivo. 

Le prove di pulitura sono proseguite rimuovendo vernice e ritocchi in piccole 
aperture strette, misurabili pochi centimetri. Queste asportazioni ci hanno per- 
messo di avere maggiori ionici sulle condizioni e sulla qualità degli strati 
pittorici originali sottostanti, osservandone i passaggi tonali. 


531 


Cristina Guerra 





Durante l’esecuzione dei test, sia i cotoncini che la superficie pittorica sono 
stati osservati alla lampada di Wood che ci ha fornito informazioni complemen- 
tari all'osservazione in luce diffusa, mettendo in evidenza la quantità di materiale 
filmogeno rimosso (De La Rie 1982). L'osservazione alla lampada di Wood a 
Li: a (368 nm) con l’emissione di radiazioni elettromagnetiche prevalente- 
mente nella gamma degli ultravioletti non percepibile dall'occhio umano, induce 
una risposta in fluorescenza da parte dei mia sollecitati, emessa nello spettro 
del visibile. Ha permesso l’identificazione di situazioni di disomogenietà altri- 
menti non individuabili, fornendo informazioni utili circa lo strato di vernice 
protettiva, la presenza di ridipinture, e durante la pulitura la quantità di vernice 
asportata. L'intervento ha compreso la rimozione di accumuli disomogenei, mac- 
chie superficiali, la rimozione di parte delle ridipinture ampiamente presenti e 
l’assottigliamento dello strato di vernice ingiallita. 

Le ridipinture erano e sono ampiamente presenti, in quanto presumibilmente 
il dipinto è stato Cai in un precedente intervento di restauro. In particolare, 
sono visibili zone del tessuto pittorico che appaiono più scure e in evidenza all’in- 
terno delle scodellature in corrispondenza degli incarnati e delle vesti, attribuibili 
a consunzioni, ciò spiega la presenza di così vaste aree Fasi nel colore”. Dove è 
stato possibile, le ridipinture sono state eliminate facendo riemergere la materia 
originaria sottostante ancora in buono stato come per la ruota dentata, simbolo 
del martirio di Santa Caterina, e per la zona del manto di San Giacomo, scopren- 
do che era stato rifilato nella forma. Dove, invece, al di sotto della ridipintura 
erano presenti solo esigue tracce di materia cromatica originale e la ridipintura 
costituiva ormai oggetto dell’iconografia, questa non è stata rimossa, evitando di 
eliminare l’unico strato pittorico presente. 

Durante la pulitura è stato trovato un pentimento: la riposizione delle dita 
della mano dell'Angelo in basso a sinistra che tiene la palma del martirio della 
Santa. Si tratta spesso di interessanti considerazioni circa il momento creativo da 
parte dell’artista dell'assetto figurativo. Lo studio dell'anatomia suggerisce l’in- 
tento di ricerca di espressività e una definizione dei gesti ben precisa. 

Il livello di pulitura raggiunto ha permesso di far riemergere la cromia origi- 
nale mantenendo comunque un sottile strato protettivo. Questo per due motivi: 
il primo motivo è che la pulitura oltre un certo livello non poteva spingersi, in 
quanto le ridipinture e la vernice si erano ormai imparentate e l'ulteriore aspor- 
tazione avrebbe compromesso il colore, andando in contro ad un danno più che 
ad un recupero. Il secondo motivo è che, una volta rimosso lo strato di sporco 
abbastanza da permettere la corretta lettura, è stata nostra opinione non andare 
oltre, e ritenere che ciò che lasciavamo era un ulteriore protezione del dipinto e 
non causava né danno né disturbo ottico. 

Il dipinto è stato tensionato sul nuovo telaio costruito in legno di noce con 
spessore 2.6 cm e largo 9 cm con due traverse i cui bracci si intersecano a croce. 
L'intervento è proseguito con l’esecuzione di stuccature, a livello del film pittori- 
co, con gesso bianco nelle parti lacunose ed è stata imitata la superficie, in modo 
particolare sono state riprodotte le scodellature ricollegandosi all'andamento cir- 
costante. Il dipinto è stato verniciato a pennello con vernice sintetica non ingial- 
lente in essenza di petrolio pronta all’uso, inodore e incolore e contenente un alto 
fattore protettivo e filtro UV a garantire una protezione nel tempo. 

L'integrazione pittorica condotta con colori a vernice compatibili con l’origi- 


532 


Restaurata la tela della Madonna del Carmine: un recupero devozionale 





nale e reversibili, è stata eseguita in una duplice modalità: a selezione cromatica 
nelle lacune di dimensioni maggiori e nelle zone rilevanti, rendendo il ritocco 
riconoscibile ad una distanza ravvicinata tra l’osservatore e l’opera e, a mimetico 
per le lacune di dimensioni trascurabili, come per il fondo ed esigue mancanze 
sulle vesti. Inoltre, le zone del tessuto pittorico che apparivano più scure e in 
evidenza che si trovavano all’interno delle scodellature in corrispondenza degli 
incarnati e delle vesti, attribuibili a consunzioni, in fase di integrazione sono 
state attenuate con velature e piccoli tocchi cromatici così da abbassarne l’effetto 
maculato (O.Caiazza, 2007). 

Come precedentemente descritto, il dipinto è stato ridimensionato in senso 
orizzontale sia all'estremità superiore che inferiore, ma non avendo elementi per 
ricostruire il tessuto figurativo, la parte con la tela di foderatura a vista è stata col- 
mata con una stuccatura a livello dello strato pittorico e trattata pittoricamente 
con una campitura di terra d'ombra bruciata. L'occhio dell’Angelo in ginocchio 
in primo piano, ad esempio, è stato integrato a selezione cromatica senza rico- 
struirne la forma ma conferendo alla mancanza lo stesso tono di colore della zona 
circostante tale da non recare discontinuità e quindi un disturbo ottico. 

È stata eseguita una verniciatura finale a spruzzo per omogeneizzare le parti 
ritoccate all’originale con la stessa vernice precedentemente impiegata. 

Per quanto riguarda la cornice esistente, in legno modanata e dorata a mec- 
ca, è stata eseguita con una tecnica di doratura effetto oro, ovvero una doratura 
eseguita a guazzo con la foglia d’argento anziché oro, ottenendo lo stesso effetto 
decorativo colorandola ad imitazione dell'oro utilizzando una vernice a base di 
alcool (E Tonini, 2015). Non si tratta di un unico pezzo: è un assemblaggio di 
più parti che abbiamo individuato e contrassegnato nelle zone di connessione, 
cosi da sfruttare i tagli preesistenti per l'aggiunta delle nuove parti. 

La cornice è stata pulita dallo sporco accumulato e dalla cera, impiegando 
cotoncini imbevuti di White Spirit per ammorbidire lo strato e poi rimuoverlo 
a bisturi. La cera era presente in particolar modo sul listello inferiore, all'altezza 
delle candele votive. 

Le aggiunte sono state eseguite con sezioni in legno di noce impiegando la 
zona più esterna, quella dell’alburno, inserite con incastro tenone-mortasa assi- 
curate da cavicchi circolari in legno incastrati in piccoli fori creati nell’inserto per 
una maggiore tenuta, e modellati a livello. La specie legnosa, impiegata, risulta 
simile a quella dell'originale identificata come legno di pioppo detto anche di 
gattice, per le sue caratteristiche fisiche, meccaniche ed estetiche. Dall’aspetto 
gradevole e di facile lavorazione, il legno di noce risulta tenace e resistente allo 
spacco, qualità che unite all'aspetto estetico lo rendono insuperabile nella costru- 
zione di manufatti dove si richiede resistenza e stabilità. 

Inoltre, l’intera cornice è stata dotata di uno spessore perimetrale di 7.2 cm 
che accoglie il dipinto ad incastro al suo interno. La cornice è stata così riadattata 
al nuovo formato del dipinto, ingrandito recuperando il colore originale. Le parti 
aggiunte sono state stuccate a gesso e colla, levigate, pittoricamente integrate e la 
doratura a mecca è stata ricreata ad imitazione dell'originale su doppio strato di 
bolo nero brunito con brunitoio in pietra d’agata. Operando sul retro, il telaio 
del dipinto è stato ancorato alla cornice tramite l’inserzione di otto staffe zincate, 
tre poste sui lati lunghi e una per i lati corti, per ognuna delle quali sono state 
utilizzate quattro viti. 


533 


Cristina Guerra 





Per la ricollocazione in chiesa è stato indispensabile progettare un metodo di 
ancoraggio ad hoc, tenendo conto del peso dell’opera e dell’altezza a cui veniva 
alloggiato, a circa 250 cm da terra. 

L'ancoraggio a parete è avvenuto tramite l’utilizzo di quattro staffe in ferro 
zincato. Queste sono state verniciate a spray per mimetizzarle con la cornice e 
dotate di un doppio strato di sughero posto tra le staffe superiori e la cornice, a 
protezione di quest'ultima. Le quattro staffe sono state inserite nel muro tramite 
una barra filettata in ferro, circa dodici cm, e sigillata con “fiala chimica”. Il di- 
pinto è stato inserito dal basso verso l’alto nell’alloggio tra muro e staffa. Il lato 
inferiore è sostenuto dalle due staffe ancorate al dipinto tramite viti. 

L'opera è stata nuovamente collocata in chiesa, all’ingresso del Santuario sulla 
parete destra. 


Bibliografia 


Casazza O., Il restauro pittorico unità di metodologia, (2007) Firenze 
Codice Deontologico del Restauratore (1994). Disponibile su: 


https://www.restauratorisenzafrontiere.com/chi-siamo/codice-deontologico/ Ul 
timo accesso: 10 novembre 2020 


CREMONESI D., SIGNORINI E., Un approccio alla pulitura dei dipinti mobili (2013) 


RENÉ DE LA Rie E., Fluorescence of paint and varnish layers, in “Studies in Conser- 
vation” 27, 1982, pp. 1-7, 65-69 e 102-108 


MarTEINI M., MoLEs A., Tecniche di diagnostica avanzata dell'ENEA per lo studio 
e la conservazione dei beni culturali, Roma 1988 


Tonini E, La scultura lignea, tecniche e restauro. Manuale per allievi restauratori, 
Edizioni Il Prato, 2015 


534 


Restaurata la tela della Madonna del Carmine: un recupero devozionale 








Madonna del Carmine, Cigoli 


339 


Sull’epigrafe che ricorda il soggiorno 


di Clemente VII a San Miniato 





FRANCESCO FIUMALBI 


Facendo seguito al contributo di Daniele Loni e Luca Macchi, dal titolo L7- 
scrizione che ricorda il soggiorno di Papa Clemente VII a San Miniato nel Palazzo 
dei Vicari di San Miniato e pubblicato sul Bollettino n. 85, mi è sembrato utile 
fornire ulteriori informazioni e precisazioni. 


Per prima cosa, occorre registrare il motivo per cui il Papa si trovasse a San 
Miniato nel 1533. Senza entrare troppo nei dettagli, basti ricordare che Clemen- 
te VII era nato Giulio Zanobi de’ Medici [Firenze, 1478 — Roma, 25 settembre 
1534] ed era figlio di Giuliano de’ Medici, ovvero il fratello di Lorenzo il Ma- 
- rimasto ucciso nella “Congiura de’ Pazzi” nel 1478!. Nel 1494 i Medici 

rono cacciati da Firenze per poi ritornarvi nel 1512 proprio con Giulio Zanobi, 
che nel 1523 sarà eletto Papa Clemente VII. Il periodo che va dal 1494 e al 1512, 
è segnato dall’esperienza repubblicana che vide protagonista Girolamo Savona- 
rola e il governo di Piero Soderini. Nonostante un nuovo regime repubblicano 
fra il 1527 e il 1531, con Clemente VII fu istituzionalizzato il dominio mediceo 
su Firenze, tanto che il suo successore, Alessandro de’ Medici, ricevette il titolo 
di Duca (1532) dopo il rientro dei Medici coadiuvato dall’intervento dell’Impe- 
ratore Carlo V. Infatti, fino a quel momento, durante i periodi di signoria sulla 
città, i Medici avevano mantenuto le forme esteriori di un governo comunale o 
comunque pseudo-repubblicano. 

Una volta eletto Papa nel 1523, Clemente VII tentò di ottenere un equilibrio 
fra la Spagna e la Francia, le due potenze egemoni del tempo. Tuttavia, la sua 
vicinanza alle posizioni francesi, dini una serie complessa di operazioni 
militari che culminarono con la discesa delle truppe di Carlo V e il “sacco di 
Roma” nel 1527. Nonostante il riavvicinamento a Carlo V — suggellato dalla Pace 
di Barcellona (1529) e dall’incoronazione imperiale a Bologna (1530) — riprese 
la politica filofrancese anche attraverso il matrimonio fra Enrico, figlio di Fran- 
cesco I di Valois Re di Francia, e Caterina de’ Medici, figlia di Lorenzo di Piero e 
pronipote di Lorenzo il Magnifico. Le nozze furono celebrate il 28 ottobre 1533 
a Marsiglia. Il viaggio, che era iniziato il 9 settembre da Roma, prevedeva di rag- 
giungere Marsiglia via nave, passando Fi l'imbarco dal porto di Livorno?. Ed è 
proprio mentre si recava presso la città francese che Clemente VII fece sosta a San 
Miniato. In questo contesto l’incontro con Michelangelo, attestato e documenta- 


! — Labibliografia sull'argomento è molto ampia. Per semplicità si rimanda a Martines 2005. 


In proposito Gattoni da Camogli 2002. 


2 


537 


Francesco Fiumalbi 





to dallo stesso Buonarroti, acquista un ruolo del tutto incidentale?. 


Va poi osservato che l'iscrizione fu realizzata nel 1697, ovvero a distanza di 
oltre un secolo e mezzo dal soggiorno di Clemente VII a San Miniato. Il motivo 
va ricercato nella costruzione del nuovo oratorio interno al fabbricato — realizzato 
nel 1694 per comodo dei carcerati - e dunque nell’intendimento di perpetuare 
una memoria che poteva andare perduta con la dismissione o il declassamento 
funzionale del più antico spazio liturgico. 

A questo vanno aggiunte anche le aspirazioni dei due autori dell'iscrizione: 
Giuseppe Maria Frescobaldi e Giovanni Persio Migliorati. Il primo ricopriva l’uf- 
ficio di Vicario a San Miniato ed aveva ambizioni politiche elevate, mentre il se- 
condo era funzionario dell'ufficio vicariale ed era una figura eminente in ambito 
sanminiatese, coinvolto in importanti iniziative cittadine. 


Giuseppe Maria Frescobaldi [Firenze, 9 settembre 1632 — 6 maggio 1704], 
figlio di Matteo di Gherardo di Stoldo Frescobaldi e di Ginevra Î Odoardo 
Acciaioli, era fratello di Pietro Frescobaldi, che fu il quarto Vescovo della Diocesi 
di San Miniato, per soli due mesi, nel 1654. Sposato con Angelica di Filippo 
Ginori, ebbe due figli, Francesco Maria e Caterina Giovanna. Nel 1676 è a Sie- 
na, con il fratello Lorenzo Maria, poi nel 1682 e nel 1689 è deputato capitano 
di Prato. Dal 1 maggio 1693 al 30 aprile 1694 è nominato Vicario del Valdarno 
di Sotto presso San Miniato, carica che poi ricoprì anche dal 1 maggio 1696 al 
30 aprile 1697%. Dunque, con buona probabilità, durante il suo primo mandato 
sanminiatese era avvenuta la costruzione del nuovo oratorio. In ogni caso, è facile 
comprendere come in ogni occasione egli cercasse di ingraziarsi il Granduca Co- 
simo III de’ Medici, dal momento che il 14 agosto 1698 fu eletto “Senatore”, cioè 
membro del cosiddetto Senato dei Quarantotto?. Tale istituzione era un organo 
consiliare a cui spettava l’autorità di approvare le leggi di carattere generale e la 
carica di senatore dava la possibilità di accedere alle magistrature più importanti, 
i cui membri venivano scelti proprio fra i membri del Senato. Nonostante la 
progressiva perdita di potere, specialmente durante il periodo di Cosimo I, l’ap- 

artenenza al Senato contraddistingueva il rango dei membri del ceto nobiliare 
Li che riuscivano ad acquisire o mantenere eminenti posizioni di potere”. 


Giovanni Persio era figlio di Genesio Migliorati e di Lisabetta di Persio Mora- 
li. Ricoprì incarichi pubblici a San Miniato, come l’ufficio presso il vicariato. Nel 
1703 risulta essere “priore” della Compagnia di San Pietro Martire presso la chie- 
sa dei SS. Jacopo e Lucia, comunemente detta di San Domenico”. Si occupò della 





3. «Ricordo come oggi a dì 22 di settembre che andai a Santo Miniato al Tedesco a parlare a papa 


Clemente che andava a Nizza; e in tal dì mi lasciò frate Sebastiano del Piombo un suo cavallo». Queste le 
parole di Michelangelo pubblicate in Milanesi 1875, p. 604. 

4 Archivio Storico del Comune di San Miniato, Archivio Preunitario, Vicariato di San Miniato, 
Atti Civili, nn. 316, 318. 

® Mecatti 1753, pp. 142 e 176; Marcelli 2007; Archivio Storico del Comune di San Miniato, 
Archivio Preunitario, Vicariato di San Miniato, Atti Civili, nn. 316 e 318. 

6 Pansini 1991, pp. 759-785: 777. 

7. Archivio dell’Accademia degli Euteleti, Carte di Antonio Vensi, Materiali raccolti per formare il 


538 


Sull’epigrafe che ricorda il soggiorno di Clemente VII a San Miniato 





sistemazione definitiva della Cappella del SS. Crocifisso presso la chiesa sanmi- 
niatese di San Francesco, ridotta a aule nel 1690*. Nel medesimo periodo 
portò a compimento gli altari per la chiesa di Santa Caterina — il cui patronato 
spettava alla famiglia Migliorati — dove depositò sotto l’altare del SS. Sacramento 
le reliquie di San Bonifacio Martire nel 1690, mentre fra il 1694 e il 1695 si oc- 
cupò della sistemazione della cappella maggiore?. Giovanni Persio di Genesio e 
Michele di Migliore, sono considerati dal Tiribilli-Giuliani riformatori e statuenti 
che dai più dotti, stimati moltissimo e gli storici ne parlarono con rispetto!?. A lui è 
attribuita l'iscrizione sopra la porta della sagrestia fa Santuario del SS. Crocifisso 
che ricorda la traslazione del venerato simulacro nella nuova chiesa, al tempo del 
Vescovo Francesco Poggi"!. Sposato con Maddalena Ansaldi, ebbe diversi figli fra 
cui Giuseppe Maria (1679-1747), servita, teologo e docente a Marsiglia, Pisa e 
Napoli". 


Tornando all'iscrizione, è probabile che la sua collocazione attuale non corri- 
sponda alla posizione originaria, in quanto l’edificio è stato oggetto di innume- 
revoli interventi fra 700 e ‘900 che, dopo la sede del Vicariato, lo portarono ad 

. > . . . . 
ospitare la Sotto-Prefettura, l'Ufficio del Telegrafo, alcuni uffici comunali, fino 
alla riduzione ad albergo. 


Questo è il testo dell’iscrizione rimasto leggibile: 


VISTITA 
VRISDSISSSISISIIIIIIINA 
XOKKXXCATUS APICEM EVECTVS 
CLARISSIMUM ORTVM 
NUNQUAM PASSARUM OCCASUM 
QVEM A MEDICEA FAMILIA TRAXERAT 
PERENNI DECORAVIT SPLENDORE 
QVI ENIM DIADEMATE TRIPLICI 
CORONARI DIGNVS EVERAT 
VT SEMPER REGNARET IN SVIS 
DIGNOS EQVIDEM CORONARI CVRAVIT ET SVOS 
IPSE SVPER HANC ARAM SACRVM FACIENS 
XV KAL. OCT. A. D. MDXXXII 
HVIC SACELLO VENERATIONEM ADAVXIT 
IVRE IGITVR COLLATVM A TANTO PONTEFICE 











tomo I e II dei documenti per la storia di San Miniato da Antonio Vensi l'anno 1874, filza 91, cc. 359, 506; 
cfr. Marconcini 2007, pp. 303-327: 318. 
Pasqualetti 2012, pp. 217-267: 235-236; 240-241. 
Archivio Storico del Comune di San Miniato, Ospedali riuniti di San Miniato, Convento dei 
SS. Caterina e Agostino di San Miniato, Serie Deliberazioni anni 1683-1707, cc. 25v-26r, 34v-35r, 38r; 
cfr. Pasqualetti 2013, pp. 47-48. 

!0°Tiribilli-Giuliani 1862, fasc. “Migliorati di S. Miniato”, p. 3. 

!! Rondoni 1876, p. 52n. 

°° Pierazzi 1837, pp. 288-289. 

3. Latini 1998, pp. 97-123. 


9 


539 


Francesco Fiumalbi 





EIVSDEM TEMPLI DECVS SVMMVM 
HOC MARMOR AETERNAT 
XXXxX DOM. IOSEPH MARIA FIL.0 CLA.0 SEN. MAT. FRESCOBALDI 
V.A.D. MDCXCKXSE 
KRIIIIITTTYYXXXXK MIGLIORATI HOC VICARIATVS MVNERE EV 
NK 


Di seguito è proposto il testo dell'iscrizione riportato da Anna Matteoli, la 
quale i di aver ricostruito il testo grazie ad una trascrizione antica, di cui 
non si conoscono ulteriori dettagli o la collocazione archivistica!'. Tuttavia il testo 
di questa trascrizione risulta perfettamente attendibile, sebbene alcune abbrevia- 
zioni siano riportate per esteso. 


[CLEMENS VII PONTIFEX MAXIMVMS 
VIRIVTE ET MERITO 
AD] PONTIFICATUS APICEM EVECTVS 
CLARISSIMUM ORTVM 
NUNQUAM PASSARUM OCCASUM 
QVEM A MEDICEA FAMILIA TRAXERAT 
PERENNI DECORAVIT SPLENDORE 
QVI ENIM DIADEMATE TRIPLICI 
CORONARI DIGNVS EVERAT 
VT SEMPER REGNARET IN SVIS 
DIGNOS EQVIDEM CORONARI CVRAVIT ET SVOS 
IPSE SVPER HANC ARAM SACRVM FACIENS 
XV KALENDAS OCTOBRIS ANNO DOMINI MDXXXIII 
HVIC SACELLO VENERATIONEM ADAVXIT 
IVRE IGITVR COLLATVM A TANTO PONTEFICE 
EIVSDEM TEMPLI DECVS SVMMVM 
HOC MARMOR AETERNAT 
[LLUSTRISSIMI] DOMINI 
TIOSEPH MARIA FILo CLARISSIMI SENATORIS MATTHEI FRESCOBALDI 
VICARIUS ANNO DOMINI MDCX[CVII 
IOANNES PERSIVS] MIGLIORATI HOC VICARIATVS MVNERE 
FVINCTUS] 


Di seguito la traduzione: 


Clemente VII Pontefice Massimo, 
per virtù e merito 
elevato al grado più alto del pontificato (1), 
l’illustrissima origine 
mai destinata a patire il declino, 





14 Matteoli 1982, p. 30, n. CCXXXII. 
Desidero ringraziare la Dott.ssa Cristina Giorgi per il prezioso aiuto nella traduzione del testo 
epigrafico 


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Sull’epigrafe che ricorda il soggiorno di Clemente VII a San Miniato 





che aveva tratto dalla famiglia dei Medici, 
insignì con perenne i (2). 
Costui con triplice diadema 
era stato degno di essere incoronato (3) 
così come sempre regnava in sua 
dignità, e certamente era provvisto della sua corona, 
facente egli stesso su questo sacro altare 
il 17 settembre dell’anno del Signore 1533 
aumento di venerazione in questo luogo sacro (4). 
Dunque in ragione di così grande Pontefice 
questo stesso tempio acquista massimo onore 
che questo marmo intende eternare. 
Giuseppe Maria Frescobaldi figlio del chiarissimo senatore Matteo, 
Vicario l’anno del Signore 1697 
Giovanni Persio Migliorati funzionario di questo vicariato 

(1) Nell'uso comune il Papa viene chiamato “pontefice”. Tuttavia, più cor- 
rettamente, dovrebbe essere indicato come casa massimo”. Infatti, tale ap- 
pellativo può essere attribuito ad un qualsiasi vescovo. Quindi il “massimo fra i 
pontefici” è il Papa e il “grado più alto del pontificato” è un altro modo per indi- 
care il primato e la dignità del Vescovo di Roma, nella sua qualità di successore 
di San Pietro. 

(2) I Medici controllarono il Granducato di Toscana fino al 1737 quando, alla 
morte di Gian Gastone e in assenza di eredi legittimi, fu assegnato ai Lorena. Nel 
1697, al momento della realizzazione dell’epigrafe, i Medici regnavano ancora 
sulla Toscana con Cosimo III de’ Medici e nessuno poteva immaginare l'avvento 
della dinastia lorenese. 

(3) La tiara è quel copricapo riservato ai pontefici fino al XX secolo — il suo 
uso fu abolito da Paolo VI — rimasto solamente come simbolo araldico all’interno 
della bandiera vaticana e nell’emblema papale. È costituita, formalmente, da tre 
corone inanellate e sovrapposte fra loro, che indicano il triplice potere del Papa: 
Padre dei Principi e dei Re, Rettore del Mondo, Vicario di Cristo in Terra. 

(4) Questo passaggio dell'iscrizione ricorda il momento in cui Papa Clemente 
VII celebrò la Santa Messa sull’altare della cappella, elevando la dignità di quel 
luogo sacro. 


541 


Francesco Fiumalbi 





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La Scuola Elementare di Ponte a Egola 


dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 





ANTONELLA BERTINI 


Quando si compie l’unità d’Italia la gran parte degli abitanti non ha mai 
frequentato una scuola, dal censimento del 1861 risulta che il 78 % della popo- 
lazione non sa leggere e molti appongono la loro firma in calce ad un documento 
disegnando una croce. Anche Ponte a Evola, così il borgo era denominato a quel 
tempo, probabilmente non si discosta da questa statistica che, in modo più spe- 
cifico, vede analfabeti l'’84% di femmine e il 72% di maschi. 

Siamo negli anni in cui, con la legge Casati del 1859, vengono poste le basi 
per regolamentare il sistema scolastico nazionale, affidandone comunque la ge- 
stione ai comuni. 

Ponte a Evola non ha ancora una scuola, è diviso in due borgate distanziate da 
circa trecento metti e si sviluppa soprattutto lungo la via Regia Pisana, dalla fine 
delle colline sanromanesi arriva ad oltrepassare il ponte sull’Evola. Le due prin- 
cipali borgate sono: il Marianellato, posto ad ovest ai piedi della collina di Cima 
di costa, i. abitano tante famiglie contraddistinte dal cognome Marianelli, e 
il Ponte d’ Evola' dislocato sulle due sponde del torrente, intorno al ponte da cui 
prende il nome. Vicino al Marianellato o Marianelli, come nel tempo è stato più 
semplicemente chiamato, c'è una località detta 7ograrizo, una denominazione 
forse legata al nome di uno dei primi abitanti. Tograrino si trova all’incrocio fra 
la via Maremmana, ora via I Maggio, e la via Pisana, ora via Armando Diaz. 

In queste zone furono rilevanti, dal punto di vista della viabilità, gli interventi 
programmati durante il governo dei Lorena; in precedenza i percorsi esistenti 
versavano in stato di abbandono, alcune località erano collegate tramite vie, come 
spiega Vallini?, riportando le osservazioni di Paolo Bellucci, che “si restringevano 
in sentieri e mulattiere o sparivano nei pantani o nella polvere interrotte dalle pie- 
ne dei torrenti nei punti di guado”. I Lorena si impegnarono per bonificare ampi 
territori permettendo così trasporti più comodi e vantaggiosi per i traffici com- 
merciali. In tal modo dettero un impulso notevole ai mutamenti dell'economia e 
della società, poiché il commercio si sviluppò lungo due strade che costituivano 
l'ossatura del borgo: la via Pisana-Livornese, con la quale si potevano trasportare 
le merci fino al mare, e la via Maremmana che congiungeva la zona con Saline, 
Volterra e la Maremma. 

La borgata, nella prima metà del secolo diciannovesimo, era scarsamente abi- 
tata, poiché non era nata, in loco, alcuna attività conciaria ed i lavori che non 
riguardavano l'agricoltura erano legati al trasporto delle merci fra Livorno e Fi- 





! Nelle delibere del Consiglio Comunale e nei registri di scuola ancora per parecchi anni viene 


usato sia il nome Evola che Egola. Questo torrente veniva chiamato Evola o Ebula già dal Medio Evo. 
2 Vallini Valerio, Storia di Ponte a Egola, Santa Croce sull'Arno, Edizioni Ponte Blu, 1990. 


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Antonella Bertini 





renze. Il mestiere del barrocciaio perciò, oltre a quello di contadino, costituiva 
la principale fonte di guadagno per i residenti, eccezion fatta per alcuni che si 
dedicarono al commercio delle scorze adatte alla concia dei . vendute in 
varie città come Firenze, Siena e Pisa. 

La possibilità di muoversi con maggiore sicurezza e velocità aveva favorito non 
soltanto gli scambi commerciali, promuovendo l'aumento del numero dei bar- 
rocciai, ma anche la conoscenza di alcune tecniche di lavorazione che permisero 
le prime esperienze di conciatura delle pelli. 

Ponte a Egola, essendo in pianura, usufruì di queste nuove conoscenze e dei 
progressi nel settore dei trasporti e anche la realizzazione, nel 1848, della ferrovia 
che collegava Livorno a Firenze, contribuì ad incrementare la vendita di scorze e 
pellami. 

Il numero degli opifici aumentò sia per la vicinanza delle vie di comunicazio- 
ne sia per quella del torrente, le cui acque potevano essere sfruttate per l’indu- 
strializzazione. 

Occorreva molta manodopera che giunse dalle località vicine ed il paese co- 
minciò a crescere e a popolarsi. Nacquero nuovi mestieri legati alla concia come, 
ad esempio, quello del sensale per la compra-vendita del pellame, e per i barroc- 
ciai crebbe il lavoro grazie alla notevole quantità di pelli prodotte da consegnare. 

Le due borgate divennero più popolose e si stavano trasformando in un paese 
molto attivo e produttivo. Anche le guerre, come quella di Crimea nel 1854-55, 
permisero l'arricchimento degli abitanti, in quanto il costo delle pelli aumentò, 
favorendo i commercianti e i proprietari di concerie. 

Secondo quanto riportato da Vallini* “intorno alla seconda metà dell’800, in 
Ponte a Evola esistevano già 4 concerie con 65 addetti. Presumibilmente esisteva- 
no altre attività conciarie non censite come tali.” 

Ai progressi ottenuti dal punto di vista economico non corrispondeva un 
miglioramento dal punto di vista culturale. Molti erano ancora analfabeti, per 
questo gli abitanti delle due borgate avvertono l'esigenza di avere una scuola che 
garantisca ai bambini il diritto di saper “leggere, scrivere e far di conto” e presen- 
tano la richiesta in Comune. Infatti con la Legge Casati del 1859 l'istituzione 
della scuola elementare era affidata ai Comuni. 

Viste le pressioni da parte degli abitanti della zona, dovute alla difficoltà di 
recarsi a Cigoli per raggiungere la scuola elementare, il problema viene affrontato 
durante una riunione del Consiglio comunale di San Miniato presieduto dal Sin- 
daco, Annibale Pelleschi, nel novembre del 1868°, ma ogni provvedimento viene 


3 
4 


Valerio Vallini, op. cit. 
Lo stato liberale non si accollò gli oneri relativi all'edilizia scolastica e alla retribuzione dei do- 
centi e delegò i Comuni senza considerarne le possibilità finanziarie; l'istruzione elementare rimase sen- 
za una valida organizzazione, di conseguenza gli abbandoni, le bocciature, la mancata frequenza furono 
molto numerosi. Al popolo si poteva fornire un'istruzione molto semplice che aiutasse a mantenere i 
sudditi fedeli al re e alla patria. 

La Scuola popolare occupò solo un posto secondario nell’insieme della Riforma, tanto che in alcuni 
luoghi esisteva solo sulla carta, inoltre la caduta del potere temporale aveva inasprito l’ostilità dei cleri- 
cali nei confronti della scuola statale. 

?  ASCSM, Deliberazioni Consiglio comunale, anno 1868, 21 novembre, delibera N°120 “So- 
spensione di istanza per la scuola di Ponte a Egola”, nella quale viene scritto: Data comunicazione di 


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La Scuola Elementare di Ponte a Egola dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 





rinviato per studiare meglio la situazione in rapporto agli alunni che frequentano 
la scuola di Cigoli. 

Pochi giorni dopo se ne parla nuovamente ed in quell’occasione viene decisa 
l'istituzione di una Scuola Elementare al Marianellato®. Nella richiesta di una 
scuola che permetta ai bambini di frequentare con maggiore assiduità, in quan- 
to vicina alle abitazioni, si avverte il bisogno degli abitanti di raggiungere una 
propria autonomia rispetto ai castelli di Cigoli e Stibbio. Necessità che vengono 
recepite anche dalla Commissione per la nuova chiesa di Ponte a Egola. 

San Miniato, come in generale tutti i Comuni in quel periodo, aveva scarse 
risorse finanziarie che portavano alle grandi difficoltà nel fondare e gestire l’istru- 
zione di base. Le leggi in materia +. specificavano che i Comuni avevano 
il compito di diffondere l'istruzione elementare obbligatoria, ma in rapporto alle 
proprie capacità e alle necessità degli abitanti. Accadeva spesso che i Comuni 
fossero gestiti dai notabili, il diritto di voto infatti era riservato a chi sapeva leg- 
gere, e perciò era assai limitato per l’ignoranza della popolazione. Ciò contribu- 
iva a consolidare il potere nelle mani di un gruppo di persone poco disposte ad 
impegnarsi nella diffusione dell'istruzione. Vigeva ancora un modo di pensare 
che manteneva la distanza tra le classi sociali. Le famiglie più ricche non sempre 
apprezzavano la scuola elementare e preferivano quia paterna, come la legge 
permetteva, così un precettore o i genitori stessi istruivano i figli che dovevano 
sostenere un esame di stato. 

Anche per quanto riguarda Ponte a Egola si evidenziano delle difficoltà nel 
mettere in pratica quanto deciso con la delibera del 25 Novembre 1868; infatti la 
scuola è istituita, manca però l’insegnante, così nel marzo del 1869, sempre con 
il sollecito della popolazione che evidentemente, visti i notevoli progressi della 
borgata, riteneva molto importante un'istituzione scolastica che non dipendesse 
da Cigoli, viene concordata la nomina del Maestro comunale del Marianellato”. 

Nella delibera si scrive che per insegnare nella nuova scuola “si è presentato 
un unico concorrente nella persona del Sig. Enrico Giomi di Costantino, il quale 
sebbene munito di documenti comprovanti la di lui capacità, è però sprovvisto 
del Diploma di Magistero”, ma “possiede altri attestati della propria capacità, 
e quello promette di procacciarsi al più presto.” Il Consiglio, visto che “né vi è 
speranza nella attualità di avere altri concorrenti” gli affida comunque la scuola 
anche per il fatto che, viene sottolineato, non è obilieaora In realtà nella Leg- 
ge Casati del 1859 c'è scritto che i genitori hanno l'obbligo di mandare i figli 
a scuola per almeno due anni, ma non viene prevista alcuna punizione per gli 
inadempienti8. 

Enrico Giomi viene nominato, con 18 voti, tutti favorevoli, Maestro della 





sospensione di Istanza per la istituzione di una nuova Scuola elementare per la Borgata del Ponte a Egola e 
del Marianellato, dopo diverse varie proposte il Consiglio sospende ogni Deliberazione in proposito per avere 
alcune notizie circa gli alunni che concorrono alla scuola di Cigoli le quali possono influire sulla risoluzione 
che si sta per prendere. 

6 ASCSM, Delibera del Consiglio comunale, 25 novembre 1868, delibera N° 129. 

7. ASCSM, Del. N° 7 del Consiglio comunale, 20 marzo 1869. 

8 Art. 317 Legge Casati 1859 specifica che i Comuni si debbono ado ASCSM, Deliberazioni 
del Consiglio comunale, 20 marzo 1869, delibera N° 7.erare per diffondere l'istruzione “in proporzione 
delle loro facoltà e secondo i bisogni dei loro abitanti”. 


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Antonella Bertini 





nuova Scuola Comunale del Marianellato con uno stipendio annuale di Lire 400. 

Lo Stato infatti demandava ai Comuni anche il reclutamento dei maestri, sen- 
za accertarsi delle effettive disponibilità finanziarie. Questo costituiva un punto 
debole per l'attuazione della legge Casati, tanto che, delle volte, gli insegnanti 
non possedevano un'adeguata preparazione. Inoltre erano loro n classi con 
un numero elevato di studenti, erano retribuiti con un misero stipendio, non 
avevano il proprio stato giuridico e talora dovevano impegnarsi in varie attività 
extrascolastiche. 

Per migliorare la preparazione degli insegnanti vennero organizzati dei brevi 
corsi, detti Conferenze magistrali che inizialmente ebbero scarso effetto, ma negli 
anni migliorarono la didattica, in quanto parecchi maestri ebbero l'opportunità 
di conoscere nuovi metodi d'insegnamento e di collaborare fra di loro, special- 
mente nelle città più grandi. 

Tutte queste difficoltà si ripercuotono anche sulla scuola del Marianellato che, 
non esistendo un edificio specifico, era alloggiata in casa Giani.” 

Il Consiglio torna ad occuparsi della necessità di un edificio scolastico adegua- 
to alle esigenze della popolazione nel 1870!°, in quanto “vari abitanti” chiedono 
di nuovo L presenza di una scuola dentro le Borgate proponendo di “fabbricare 
contemporaneamente ed accanto alla chiesa anche un locale adatto e conveniente 
da servire per la Scuola predetta sempre che al Municipio piacesse concorrere alla 
spesa relativa”. Il Sindaco, Annibale Pelleschi, concorda con l’iniziativa, ma sot- 
tolinea che la scuola deve restare di proprietà comunale “affatto separata, sebbene 
contigua alla chiesa e senza assumere nessun legame per rapporto al Maestro il 
quale dovrebbe essere di liberissima scelta del Municipio”. “Dopo lunga discus- 
sione”, durante la quale si manifestano anche diversi pareri contrari si giunge alla 
votazione per alzata di mano e, con sedici voti favorevoli ed uno contrario, viene 
approvata “la proposizione di autorizzare il Sig. Sindaco alle trattative opportune 
nei termini che sopra”. 

Nelle parole del Sindaco si nota l’esigenza dettata dalla riforma scolastica di 
fornire un'educazione più laica e libera dii legami con le autorità ecclesiastiche, 
come stabilito nella legge redatta dal ministro Gabrio Casati. Occorre ricordare 
che tradizionalmente nella nostra penisola l'istruzione era veniva impartita presso 

li istituti a carattere religioso, spesso legati ai Gesuiti; i sacerdoti controllavano 
a e talvolta venivano nominati Ispettori scolastici. 

Il problema della sede però sul momento non viene risolto, tanto che si pre- 
ferisce prendere in affitto, pagando 120 lire all'anno, un locale di proprietà del 
Signor Poggiali, il quale deve provvedere a proprie spese a renderlo idoneo all’uso 
scolastico. I finanziamenti per la scuola erano limitati e la Giunta, dopo aver 
fornito il locale, sottolinea “di provvedere il mobiliare”, cioè “panche e banchi 
proporzionati al locale stesso e al numero degli alunni” “attenendosi allo stretta- 
mente necessario e con la minore spesa possigile”!. 


?. ASCSM, Deliberazioni della Giunta comunale, anno 1870, delibera N° 106. 

!° ASCSM, Deliberazioni del Consiglio comunale, 28 luglio 1870, delibera N° 51, “Costruzione 
di una scuola al Ponte a Egola”.sta 

!! ASCSM, Deliberazioni della Giunta comunale, 16 febbraio 1872, delibera N° 35, “Locale della 
scuola del Ponte a Egola”. 


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La Scuola Elementare di Ponte a Egola dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 





Nonostante tutte le difficoltà e la carenza di sovvenzioni la Scuola Elementare 
Rurale, cioè istituita prevalentemente per i figli di contadini, comincia a fun- 
zionare ed è diretta da Enrico Giomi, foina maestro delle sezioni maschili di 
Ponte a Egola. 

Il giovane docente è investito dal compito assai arduo di insegnare a leggere e 
a scrivere ai tanti ragazzi di classi sociali disagiate. 

La situazione economica e sociale del periodo, anche nella borgata ponteae- 
golese, è ancora legata ad una agricoltura scarsamente produttiva, sebbene stia 
iniziando una certa attività industriale e commerciale. Molti abitanti vivono in 
condizioni di sussistenza. Ciò costituisce un impedimento per diffondere l’istru- 
zione, talora osteggiata sia dalle persone più agiate e conservatrici, ma anche 
dai più poveri. Questi ultimi non ne comprendono l’importanza e la necessità, 
vedendo come conseguenza una perdita di guadagno, in quanto i bambini non 
possono lavorare nei campi e le bambine accudire i fratelli più piccoli e atten- 
dere alle faccende domestiche. Questo fenomeno si riscontra puntualmente nei 
registri di classe, nei quali si nota che nei mesi in cui c'è più lavoro nei campi, in 
particolare nei periodi di raccolta, le assenze sono numerosissime. 

Dal punto di vista dell’apprendimento bisogna evidenziare un aspetto che 
avvantaggia gli alunni della borgata, come quelli della provincia fiorentina dalla 
quale ancora dipende! e, in generale, di quasi tutta la Toscana. Si tratta del fatto 
che la lingua parlata è piuttosto simile all’italiano. 

In effetti uno tra i più notevoli problemi per avviare l'unificazione dell’Italia 
era costituito dalla difficoltà di comunicare tra gli abitanti delle varie aree sparse 
nelle isole e nella penisola. Ogni zona utilizzava un proprio modo per esprimersi 
tanto che il ministro Emilio Broglio, nel 1868, incarica Alessandro Manzoni di 
presiedere una commissione che possa proporre dei metodi per diffondere la lin- 
gua italiana in tutto il territorio nazionale. 

La commissione, nella relazione finale, afferma che il miglior modo per dif- 
fondere l’italiano è quello di usare la lingua toscana in tutto il Regno. Propone 
addirittura di formare i docenti in Toscana ipotizzando anche di favorirli nei 
concorsi, in quanto avrebbero potuto diffondere la lingua italiana con la giusta 
pronuncia. 

Ormai la scuola è diventata obbligatoria, ed i programmi da seguire hanno 
carattere nazionale. Con ogni biobabilio il primo maestro di Ponte a Egola avrà 
formato i numerosi alunni, come avveniva del resto per tutti i loro coetanei ita- 
liani, secondo i dettami dei programmi nazionali del 1867 che ricalcavano quelli 
del 1860, ed erano basati sull’insegnamento della religione, dell’aritmetica e della 
lingua italiana. 

Il maestro Enrico Giomi è stato molto importante per la comunità ponteae- 


ASCSM, Deliberazioni della Giunta comunale, 23 maggio 1872, delibera N° 127, “Mobiliare della 
Scuola di Ponte a Egola”. 

ASCSM, Deliberazioni della Giunta comunale, 23 ottobre 1872, delibera N°282, “Acquisto di due 
panche per la Scuola del Ponte a Egola”. 

Il territorio di Ponte a Egola dipendeva dalla provincia di Firenze fino al 1925 quando, nel 
periodo fascista, con il sollecito di Ciano la provincia di Livorno acquisì 17 comuni appartenenti alla 
provincia di Pisa che venne compensata con diversi comuni del circondario sanminiatese, fino ad allora 
facenti parte della provincia di Firenze. 


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Antonella Bertini 





golese, in quanto si è impegnato costantemente sia per l'educazione dei ragazzi, 
sia per la costruzione della chiesa che rendesse indipendente questa frazione ri- 
spetto alle località limitrofe, come Cigoli e Stibbio. 

Le sue nipoti Zola, Neva e Fresa nella premessa a Una piccola “guerra” fra Ponte 
a Evola e Cigoli ci parlano del loro nonno, nato a Ponte a Egola il 5 dicembre del 
1846. Per dona come Insegnante Elementare Enrico Giomi ha frequen- 
tato a Firenze la Scuola Normale con ottimi risultati. A proposito del titolo 
di studio, in un registro del 1906 viene specificato che il maestro “è fornito di 
Patente Elementare Superiore ottenuta a Pisa e che aveva ottenuto la conferma 
a vita dopo il triennio di prova lodevole” ed è in possesso di un titolo speciale: 
“Licenza Ginnasiale”. E molto religioso e fortemente legato al luogo di nascita, si 
dedica costantemente a “tutte le iniziative e istituzioni che potevano giovare sia 
alla divulgazione di una coscienza cattolica, sia al miglioramento del suo popolo 
del Ponte a Evola”. Crede nella cultura e insieme al Maestro Orlando Rossi isti- 
tuisce la Filarmonica del paese, dà vita anche ad una compagnia Filodrammatica 
formata da parenti ed amici con lo scopo di socializzare, istruire ed “ingentilire 
gli animi”. 

Si occupa, inoltre, dello sviluppo del settore conciario, ma quello che lo con- 
traddistingue in modo particolare è l'impegno finalizzato all’edificazione della 
chiesa del Sacro Cuore di Gesù, con la relativa separazione dalla parrocchia di 
Cigoli. 

L'istituzione, nel 1879, della nuova parrocchia e la fine dei lavori riguardanti 
la chiesa intitolata al Sacro Cuore di Gesù è il frutto di un'attività decennale del 
maestro, della Commissione per la nuova chiesa e di tutta la borgata. Tale evento 
si può definire una pietra miliare per il paese che, in questo modo, ottiene la 
propria autonomia anagrafica e non è più legato ai castelli di Cigoli e di Stibbio 
per gli adempimenti essenziali della vita quotidiana. Tutto ciò si ripercuote posi- 
tivamente anche sull’istituzione della scuola elementare. 

Gli anni si susseguono e il maestro Giomi!* continua a dirigere la scuola ma- 
schile rurale del Ponte a Evola valorizzando costantemente l'educazione e l’istru- 
zione per superare l’imperante analfabetismo. Insegna per quaranta anni”; gli 
ultimi anni di carriera insegna “a fianco” della seconda moglie la maestra Elvira 
Mazzoni. Muore il 19 aprile 1907 lasciando una grande eredità culturale, ricor- 
dato con riconoscenza ed affetto dai compaesani, molti dei quali erano stati suoi 
alunni. 


« 


1 Per formare i maestri elementari vennero istituite le Scuole Normali di durata triennale, alle 


quali si potevano iscrivere a quindici anni le femmine e a sedici i maschi. 

Era sposato con Edvige Marianelli dalla quale ebbe due figli: Amedeo e Paride. Quest'ultimo 
padre di Zola, Neva e Fresa. 

!5. Sulla lapide posta nella cappella di famiglia nel cimitero di Ponte a Egola si legge: ENRI- 
CO GIOMI PRIMO INSEGNANTE NELLE SCUOLE COMUNALI DI PONTE A EGOLA 
PER QUASI QUARANT”’ANNI AI DISCEPOLI AI CONCITTADINI ESEMPIO MIRABILE DI 
DOTTRINA DI BONTA' DI PATRIOTTISMO DELLA FAMIGLIA AMANTISSISSMO FON- 
DATORE DI SOCIETA UMANITARIE DELLA COSTRUZIONE DELLA CHIESA PARROC- 
CHIALE FERVIDO PROMOTORE MORI SESSANTENNE DA TUTTI COMPIANTO IL IX 
D'APRILE DEL MCMVII. 


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La Scuola Elementare di Ponte a Egola dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 





Il maestro Giomi, nelle sue “Memorie storiche”!, evidenzia il ruolo fonda- 
mentale che può avere la scuola per educare e togliere dall’ignoranza le persone. A 
tal proposito descrive la realtà del suo tempo sottolineando come l’unico lavoro, 
al di fuori del contadino, sia il barrocciaio che trasporta le merci a Firenze e a 
Livorno. Aggiunge inoltre che i barrocciai sono molto rozzi nel modo di espri- 
mersi, infatti a oggi, quando si vuol dire che una persona parla e 
o cura poco il proprio aspetto, viene paragonato ad un barrocciaio. Il maestro 
non gliene fa una colpa, perché essi non conoscono neanche il “concetto di istru- 
zione”, ed auspica che questa “venga impartita a tutti i cittadini in egual misura 
ed il popolo ne approfitti per far “valere i suoi diritti, perché l'ignoranza fu e sarà 
sempre sorgente di guai e di dispiaceri per gli individui come per i popoli.” Parole 
antiche con un significato attuale. Nel testo in cui Giomi descrive le vicissitudini 
per la costruzione della chiesa e per la proclamazione della parrocchia torna ad 
insistere sull’importanza che avrebbe avuto per i pontaegolesi, quando racconta 
del cappellano Marinari che curava le necessità della parrocchia di Cigoli ed era 
riuscito ad ostacolare la richiesta per la costruzione della chiesa: “era prete dotato 
di una certa istruzione, e rispetto ai popolani poteva dirsi istruitissimo, poiché le 
famiglie più facoltose che 5 erano a Ponte a Evola, si erano occupate soltanto 
di commercio e di interesse materiale, ma non d'istruzione, non tutti avevano 
quella necessaria per il loro traffico. Di qui forse il detto che al Ponte a Evola vi 
erano molti danari uniti a moltissima ignoranza. E questa, lo dico col massimo 
rincrescimento, era una verità, perché se diversamente fosse stato, si sarebbe te- 
nuto più conto di questa importante borgata e questa non avrebbe sopportato in 
pace L tante giustizie amministrative a E aggiunge “al popolo di Ponte 
a Evola che i soli mezzi materiali non bastano per farsi rispettare. È necessaria 
l'autorità dell’uomo istruito perché valgano le proprie ragioni”. 

Abbiamo visto che il maestro Giomi è responsabile della scuola fin dalla sua 
istituzione e presta servizio presso il Comune di San Miniato dal 2 gennaio 1870, 
dallo stesso giorno viene iscritto al monte di Pensione, si occupa anche della 
scuola serale, in quanto, vista l’assidua frequenza degli iscritti, viene gratificato 
con quaranta lire! 

Dei primi anni di insegnamento non esistono testimonianze, poiché i registri 
scolastici sono andati perduti; si riscontra la presenza ed il funzionamento del- 
la scuola da alcune delibere della Giunta comunale! relative alla scuola rurale 
nell’intero comune e, in particolare, la N° 17 del 29 marzo del 1876: “Rigetto di 
domanda per locale della Scuola al Ponte a Egola”. 

La prima documentazione conservata nell'Archivio storico comunale di San 
Miniato riguarda due registri dell’anno scolastico 1878/79: uno Mensuale ed uno 





!6Giomi Enrico, Una piccola “guerra” fra Ponte a Evola e Cigoli, Edizione privata, 1995. 


1 ASCSM, Deliberazioni del Consiglio comunale, settembre 1872, delibera N° 221, “Gratifica- 
zione di Giomi per la Scuola Serale”. 

18 ASCSM, Deliberazioni della Giunta comunale riportate secondo la dicitura del tempo: 1873 
Aprile 8 N°158 “A favore del Sig. Enrico Giomi Maestro al Ponte a Egola per spese come sopra”, cioè 
relative alla scuola, dal 1° gennaio 1872 al 1° Marzo 1873”; 1873 Dicembre N° 162 Commissione per 
le Scuole Rurali; 1874 Maggio 27 N° 58 “Provvedimenti per l'istruzione rurale”; 1874 Settembre 19 
N° 103 “Nomina dell’Ispettore delle Scuole Elementari”; 1875 Agosto 21 N° 62 “Durata delle Scuole 
Elementari”. 


549 


Antonella Bertini 





Annuale. Nel primo Giomi annota le molteplici assenze ed i voti, assai bassi, 
settimana per settimana, poi riassume l'andamento scolastico calcolandone la 
media relativa alle quattro settimane. Nel secondo riporta i risultati degli esami 
e le Osservazioni particolari ed indicazione de’ premi e de’ castighi meritati nel corso 
dell'anno. 

Il maestro, nel compilare i primi registri e nel preparare le lezioni si sarà atte- 
nuto, fino al 1877, alle “Istruzioni” dei programmi del 1867, in cui si sosteneva 
l’importanza dell’istruzione unita all'educazione e si criticava lo studio basato 
sull’apprendimento mnemonico. 

Il registro mensuale firmato da Enrico Giomi inizia con la prima settimana di 
novembre del 1878 e termina con l’ultima del luglio 1879, riguarda una pluri- 
classe di soli maschi, alla quale sono iscritti ventinove alunni di prima, sette di 
seconda e diciannove di terza, per un totale di 55. In questo momento è già stato 
stabilito, con la legge Coppino del 1877, l'obbligo scolastico per tre anni, mentre 
finora era di due, senza sanzioni per i trasgressori. 

L'obbligo scolastico per i ragazzi dai 6 ai 9 anni spesso rimane ancora sulla 
carta, benché ora preveda delle “sanzioni pecuniarie e la negazione del porto 
d’armi per i genitori inadempienti”. Tale normativa, per essere realmente ap- 
plicata, comportava per le amministrazioni comunali L possibilità di risultare 
impopolari, poichè i bambini venivano considerati dalle famiglie una forza lavoro 
necessaria soprattutto “per l'economia di sussistenza delle famiglie contadine”. 

Di ciascun ragazzo non viene specificata né la data di nascita che, forse, non 
interessava in quanto pochi erano andati a scuola e così alunni di diversa età pote- 
vano frequentare la medesima classe, né la residenza, in quanto non esistevano vie 
ed indirizzi precisi. Per capire di quale alunni si tratti viene precisato il nome del 
padre, come Bini Giuseppe del Vivente Antonio o Rossi Primo del vivente Sabatino; 
si nota che diversi scolari erano già orfani come Billeri Virgilio del fu Giovanni. 
Non viene mai riportato il nome e cognome della madre, anche se l'alunno è 
orfano. I prenomi più frequenti sono: Billeri, Bini, Dani, Donati, Cioni, Giusti, 
Matteucci, Spalletti, Terreni e Valori. 

Ogni mese il maestro riporta i punti meritati, annota le assenze per le quali 
ii per malattia, oppure scrive mai comparso nel mese di dicembre; le assenze 
sono più evidenti durante i mesi di maggio giugno e luglio, probabilmente i figli 
dei contadini dovevano aiutare nella raccolta di frutta e grano. 

Il registro presenta le materie: Condotta, Catechismo e Storia Sacra, Lettura, 
Nomenclatura e lingua italiana, Aritmetica, Sistema metrico, ecc., Geografia, Sto- 
ria e scienze naturali, Scrittura. Queste sono stabilite dai programmi del 1860, 
ma con quelli “Coppino” del 1867 i contenuti delle varie discipline erano stati 
ridimensionati; ci si era resi conto che la scuola elementare, nei primi anni di 
funzionamento, non era riuscita a inserire i bambini più svantaggiati socialmente 
e culturalmente, ed era stato osservato che i programmi erano troppo difficili e 
utili soltanto a coloro che avrebbero avuto l'opportunità di proseguire gli studi. 

In questi anni viene valorizzato soprattutto l'insegnamento della lingua ita- 
liana ed il maestro Giomi avrà presentato le sue lezioni, come prescritto nelle 
“Istruzioni”, usando sempre la “lingua patria”, colloquiando con i propri alunni 
per migliorarne la dizione, la comprensione delle parole, ampliarne il lessico e 
correggere “con amorevole pazienza le imperfezioni provenienti dal dialetto di 
provincia”. 


550 


La Scuola Elementare di Ponte a Egola dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 





L’anno scolastico seguente, 1880/81, gli vengono affidati 51 ragazzi, sempre 
suddivisi in tre classi. Questa volta il registro, composto da 23 pagine (fogli) ri- 
sulta più completo e possiamo leggervi le date di nascita degli alunni e alcuni in- 
dirizzi, assai generici, relativi alla via Provinciale, a Giuncheto o a Ponte a Evola. 
Nella classe prima ad esempio troviamo Taviani Raimondo, del vivente Giuseppe, 
nato il 21 del mese di aprile dell'anno 1872 in Ponte a Evola, dimorante in via Pro- 
vinciale. I cognomi non sono in ordine alfabetico, perché alcuni alunni hanno 
cominciato a frequentare a dicembre, altri sono presenti per due o tre mesi. 

Le date di nascita variano molto: ad esempio, in seconda, comprendono i nati 
dal 1866 al 1873. Età molto diverse che avranno comportato enormi difficoltà 
didattiche insieme alla scarsità del materiale a disposizione. 

Pochi i nomi uguali trascritti, sia in questo registro sia in quello dell’anno prece- 
dente, uno dei quali è Rossi Primo del vivente Ci nato il 9 maggio del 1873 in 
Ponte a Evola. La maggior parte dei ragazzi infatti non termina gli studi o non viene 
promosso per le assenze. Questo fatto evidenzia l'abbandono scolastico e di conse- 
guenza l’analfabetismo che, a livello italiano, secondo il censimento del 1881, è an- 
cora molto diffuso. Una situazione simile si riscontra nel registro annuale 1883/84. 

Gli anni si susseguono, la scuola continua, ma parecchi registri anche di que- 
sto periodo sono andati perduti, ma, ad esempio da quello compilato nell’anno 
scolastico 1883/84, vediamo che gli indirizzi cominciano ad essere più specifici 
testimoniando in maniera indiretta la crescita del paese. I ragazzi provengono 
infatti dalla via Maremmana, dalla via Provinciale, da Romaiano, dai Ghetti, da 
via del Molino d’Evola, da via di Giuncheto e da via Provinciale alla Catena e 
San Romano. 

Nell’anno seguente, 1884/85, aumenta anche il numero degli iscritti, sono 
60, ma la terza classe è formata soltanto da 7 alunni e l’età varia fino ad arrivare 
ai 14 anni. Enrico Giomi comincia a registrare presenze e voti dal 29 novembre 
e termina il 6 giugno. I voti sono piuttosto bassi, sono compresi tra il 3 e 1°8 e, 
spesso, ci sono i mezzi voti e anche un terzo e 3 terzi come: 7 e 1/3 o 5 e 2/3. 
Nel 1885/86 gli inscritti sono 75, nati tra il 1872 e il 1879, per la maggior parte 
a Ponte a Lol ma anche in diverse località limitrofe: Civoli, San Romano, Ca- 
pannoli, Stibbio, Montopoli, Romaiano, Catena e Molino d’Evola. Nel registro 
sono riportate le valutazioni da novembre a giugno compreso. I cognomi, sempre 
più vari, testimoniano un ulteriore aumento della popolazione e sono: Bartoli, 
Bertini, Bellini, Bechini, Bartolucci, Benedetti, Bini, Calvetti, Ciampalini, Ciul- 
li, Carbonetti, Costagli, Chesi, Donati, Giannoni, Giunti, Gazzarrini, Guidi, 
Morelli, Marianelli, Matteoli, Marchetti, Rossi, Regoli, Spalletti, Terreni, Turi, 
Vacchereti, Vallini e Valori. 

In questo registro viene annotato anche il nome di Amedeo Giomi!, figlio 
del maestro, poiché, essendo una classe unica, il ragazzo ha avuto come docente 
il proprio padre. 

Anche le bambine dovevano andare a scuola?°, ma il primo registro conservato 





1° Nel registro Enrico Giomi scrive: “Giomi Amedeo, del vivente Enrico, nato il 27 del mese di 
g 


Marzo dell’anno 1877. 
20 ASCSM, Deliberazioni del Consiglio comunale del 28 maggio 1870, delibera N° 33, “Istitu- 
zione delle scuole femminili”. 


551 


Antonella Bertini 





nell’Archivio storico comunale di San Miniato che contempli i loro nomi riguar- 
da l’anno scolastico 1883/84 ed è firmato dalla maestra Alice Pucci. 

Le maestre sono inizialmente trascurate perché ostacolate dalla maternità, il 
loro compito è quello di allevare e seguire i figli e questo può, secondo alcuni 
stereotipi del tempo, limitare l'impegno verso i doveri pubblici. In seguito si 
sviluppa il concetto di “maternità sociale”, per cui sono ritenute adatte all’edu- 
cazione all’affettività, la cosiddetta “educazione del cuore”, e possono sopperire 
alla eventuale mancanza di una idonea educazione familiare. Così la professione 
di insegnante può essere intrapresa anche dalle donne, ma con delle limitazioni 
rispetto agli uomini. 

Alice Pucci, probabilmente, percepisce uno stipendio minore rispetto al suo 
collega Giomi. Siamo in un'epoca nella quale la retribuzione viene diversifica- 
ta in rapporto al genere: le donne ricevono un compenso di un terzo inferiore 
nei confronti degli uomini. Esiste anche una disparità di trattamento a seconda 
dell'ubicazione di scuola e i maestri di campagna riscuotono meno rispetto 
a quelli di città. Per questo i sindaci, specialmente nelle zone rurali, cercano di 
assumere insegnanti donne che permettono un notevole risparmio nel bilancio. 

Le maestre, con queste premesse, spesso sono costrette ad insegnare in luoghi 
disagiati e lontani dalla famiglia, senza la possibilità di un confronto con le colle- 
ghe e talora non hanno un'adeguata preparazione. 

Nel registro compilato da Alice Pucci le alunne iscritte al 15 ottobre sono 48, 
suddivise in tre sezioni, sono nate ne/ popolo di Ponte a Evola e dimorano nel borgo 
stesso, soltanto per Bini Leontina viene specificato residente in via Marianelli. Di 
queste bambine, i cui anni di nascita variano dal 1869 al 1878, si sono presentate 
all'esame finale in 30 e ne sono state promosse solamente 8, la loro frequenza è 
discontinua, alcune sono state presenti per pochi mesi. Tali osservazioni riflettono 
la situazione dell’Italia poiché, nel censimento del 1881, il 67,26% delle femmine 
risulta analfabeta, con una percentuale più alta rispetto ai maschi che è del 61%. 

Nel registro vengono riportati puntualmente i voti compresi tra il 2 al 9, 
talvolta viene scritto il mezzo voto, come 5 e 1/2. Nella parte che riguarda le 0s- 
servazioni particolari la maestra precisa a proposito di alcune alunne: Ne/ mese di 
Maggio vacanza per malattia; non si è sd all’Esame Annuale; Non LI 
all’Esame annuale e resta nella stessa classe perché non ha ripreso l’Esame di Ripara- 
zione; assente per affari di famiglia. Quando si è ammalata l’insegnante stessa per 
ogni scolara ha scritto: Nel mese di Aprile vacanze malattia della maestra. 

Nell'anno scolastico seguente, 1885/1886, le bambine inscritte sono 50. I loro 
cognomi si ritrovano tuttora fra gli abitanti dell’odierna frazione: Bertini, Bachi- 
ni, Chesi, Caponi, Camarlighi, Pertichi, Taddei, Benedetti, Bernardeschi, Co- 
stagli, Canzani, Foggi, Lippi, Matteucci, Marianelli, Nencini, Panzani, Randelli, 
Taviani, Vannucci, Dani, Costagli, Lippi, Morelli, Scarzelli, Vannucci, Maiorfi, 
Zari e Nencini. Il registro inizia con il 15 ottobre, ma in alcuni mesi: maggio, 
giugno e luglio non è stato scritto niente. 

Nel 1889/90 le iscritte diventano ancora più numerose, sono 60. La nuova 
insegnante, Elvira Mazzoni, valuta le proprie alunne nelle materie collegate ai 
programmi più recenti: Educazione morale e disciplina, Lingua italiana, Aritmeti- 
ca pratica, Storia d'Italia, Geografia, Diritti e doveri dei cittadini, Calligrafia, No- 
zioni varie, Disegno, Canto, Ginnastica e Lavoro. Riporta inoltre delle annotazioni 
che ci fanno ul sulla situazione femminile di quegli anni. Nelle Osserva- 


552 


La Scuola Elementare di Ponte a Egola dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 





zioni, ad esempio scrive cio di mente e di carattere; Rigettata (non promossa); 
per alcune bambine specifica: Vacanze fatte per accudire alle faccende domestiche; 
D'ingegno, ma anche questa impossibilitata di studiare per dovere accudire alle fac- 
due Di mente poco sveglia; Contraria ad ogni sforzo di mente per riuscire allo 
studio. Dalle Osservazioni si comprende che la scuola è diventata obbligatoria per 
la durata di tre anni, infatti per qualche scolara viene specificato: Licenziata del 
corso obbligatorio di 3 anni. 

Ormai sono già in fase di attuazione i programmi di Aristide Gabelli del 
1888, la scuola uu sempre più importante per la comunità. Qui debbono 
essere formati, secondo criteri del Positivismo, i bambini che verranno aiutati ad 
acquisire un “abito mentale” che possa indirizzare le scelte del futuro cittadino. 
La scuola non deve avere come finalità quelle di trasmettere nozioni, bensì quella 
di “formar la testa”, per far ciò si deve partire dall’esperienza e dall’osservazione, 
dalla realtà nella quale l'alunno è inserito. Si pone l’accento anche sulla necessità 
che la scuola educhi alla pulizia utilizzando anche la ginnastica. Viene valorizzato 
il “vigore” del corpo, a differenza di ciò che era successo fino ad allora, e si dà vita 
ad una campagna igienista che vede i medici impegnati nell’ultimo ventennio del 
secolo. Si comincia a evidenziare l’importanza della salute fisica per lo sviluppo 
completo della personalità degli alunni. 

Il bisogno di un locale che permetta l’accesso alla scuola di base della totalità 
dei bambini e che sia adeguato alle necessità di salute fisica e igiene dei ragazzi 
diventa ancora più li La popolazione è aumentata, perché sono au- 
mentate le opportunità di lavoro. Questo si nota da quanto riportato nei registri 
scolastici del tempo, dove si specificano le attività del padre di ciascun alunno. 
I mestieri si fanno più vari e non riguardano soltanto il settore primario, sono: 
colono, commerciante di carbone, merciaio, barrocciaio, rifinitore di pellami, 
sensale, macchinista, muratore, carrettiere, scorzino, calzolaio, fattorino posta- 
le, macellaio, bottegaio, ortolano, rivenditore, colono sulla proprietà, conciaio, 
bracciante, operante, fuochista, barbiere, possidente, fruttaiolo e fabbro ferraio. 
Nessuno risulta disoccupato. 

La richiesta di frequentare la scuola aumenta, tanto che nell’anno scolastico 
1889/90 alla sezione maschile, ancora diretta dal maestro Giomi, vengono iscritti 
105 alunni e il problema di un edificio che li possa contenere non è rinviabile. 

Intanto si è delineata la struttura del paese non più diviso in due piccoli bor- 
ghi, ma esteso su tutta la via Pisana; con la costruzione della Chiesa e la relativa 
proclamazione della Parrocchia del Sacro Cuore, il 25 Gennaio del 1879, il Piaz- 
zale diventa il luogo centrale della vita del paese ed è lì che si vuol costruire la 
scuola. 

Il 30 Agosto 1891 viene presentato il progetto della nuova scuola in via Pro- 
vinciale Livornese, che tiene conto di tutte le regole stabilite dalle direttive sani- 
tarie vigenti, come la necessità di finestre ampie per il ricambio d’aria e di latrine 
provviste d’acqua corrente. 

Si tratta di un edificio da costruire proprio nelle vicinanze della chiesa. Nella 
descrizione generale dei lavori infatti si afferma che: “Con le nuove leggi sulla 
scuola obbligatoria venendo sempre molto ad aumentare il numero degli scolari 
di ambo i sessi nella Borgata di Ponte a Egola e non essendovi in tale località 
adattati locali per ridurli a scuole pubbliche la Giunta Comunale con sua deli- 
berazione del 13 gennaio 1891 ordinava al sottoscritto (Ingegnere comunale) il 


553 


Antonella Bertini 





progetto del nuovo locale per le scuole elementari del Ponte a Egola da costruirsi 
fra la borgata suddetta e quella del Marianellato in vicinanza della Parrocchia”. 

L’anno seguente il Sindaco di San Miniato scrive al Governo di Sua Maestà il 
Re per ottenere il benestare all’esproprio di alcuni terreni, facendo presente che 
la Giunta aveva deliberata “la costruzione nella borgata del Ponte a Egola di un 
edificio ad uso delle scuole maschile e femminile della borgata suddetta, assai 
importante e popolosa e dove era stato impossibile trovare un locale adattato per 
l’uso suddetto”. La risposta a questa missiva risulta positiva perciò: “Approvato 
dall’autorità competente il progetto del nuovo edifizio il Consiglio comunale, 
con deliberazione del 7 Maggio 1892, incaricò la Giunta dell’espropriazione del 
terreno occorrente” “di proprietà dello Spedale di San Giovanni di Dio di Firenze 
perché fosse centrale alle rammentate due borgate”. 

Il 26 settembre del medesimo anno l'ingegnere comunale, Carlo Bachi, presenta 
la pianta geometrica catastale nella quale, colorato con il giallo, viene evidenziato il 
terreno da espropriare al suddetto ospedale e “i suoi annessi ed accessori”. 

Per costruire il fabbricato il Comune”! si impegna per l’acquisto dei terreni di 
proprietà del signor Dani e dello Spedale e ne informa il Presidente del Consiglio. 

Il 17 Ottobre 1894 si avviene ad un accordo con l’Amministrazione dc 
Spedale di San Giovanni di Dio per la permuta dei terreni. I confini dell’appez- 
zamento necessario alla costruzione dell’edificio scolastico sono i seguenti: 1° via 
di Monzone; 2° Beni ceduti in permuta dallo Spedale di San Giovanni di Dio, 
3° Spedale medesimo; e 4° Dani venditore. Essi sono specificati dallo stesso inge- 
gnere in un documento che porta la sua firma e quella di Attilio Dani. Il terreno 
acquistato dal Dani “consiste in una zona di terra lavorativa vitata pioppata della 
estensione di metri quadri 4000” che si trova tra via Monzone e la proprietà 
fiorentina”. 

Il 3 novembre 1894 nell’ufficio dell'ingegnere comunale vengono stabiliti le 
permute e gli acquisti alla presenza dell’ingegnere Biscardi, rappresentante dello 
Spedale e del signor Dani assistito dall'ingegnere Giuseppe Aglietti. 

Il 22 del medesimo mese giunge, da Monza, l'autorizzazione al pagamento 
dell’esproprio dei terreni posseduti da Attilio Dani e dall'ospedale fiorentino fir- 
mata dal re Umberto I e contrassegnata dal Crispi. Nella lettera viene specificata 
anche la spesa per “acquistare dal Signor Attilio Dani un appezzamento di terreno 
al prezzo di lire 3900 e a permutare detto terreno previo compenso di lire 600, 
con altro dello Spedale di San Giovanni di Dio di Firenze”. 

I lavori per la realizzazione della scuola vengono subito accollati e nel 1896 c'è 
la “verificazione dei lavori per la fabbricazione”. 

L'edificio dunque è pronto ed ancora oggi, pur con diverse ristrutturazioni 
ed ampliamenti è sede di una scuola. Negli anni fra l’Ottocento e il Novecento 
si trattava di una Scuola Elementare Comunale, poi dal 1911 è diventata statale 
fino a circa la metà degli anni Sessanta. Da quel periodo, essendo aumentati gli 
anni di obbligo scolastico, la struttura è stata assegnata alla Scuola Media Statale 
di primo dei che ancora ne usufruisce. 





2! ASCSM, Deliberazione del Consiglio comunale, 27 luglio 1894. 


554 


La Scuola Elementare di Ponte a Egola dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 





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555 


Antonella Bertini 





(S Mibedazioni: Sa Consig {xo 
Dl PLeghio 105 


VAZZZARA «Grohe DELI 





Fig. 1: Registro deliberazioni del Consiglio Comunale di San Miniato da luglio 1868 ad agosto 1870 


556 


La Scuola Elementare di Ponte a Egola dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 








Fig. 2: Istituzione di una Scuola Elementare al Marianellato 


557 


Antonella Bertini 





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Fig. 3: Gratificazione per il maestro Enrico Giomi nel 1872 


558 


La Scuola Elementare di Ponte a Egola dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 





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DI SAN MINIATO DI SAN MINIATO 


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14% 





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Fig. 4: Registro Scuola Elementare Maschile P. Evola del 1884 


559 


Antonella Bertini 


Fig. 5: Registro annuale dell’anno scolastico 1885/86 compilato dalla maestra Alice Pucci 


560 





La Scuola Elementare di Ponte a Egola dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 





Mod. N. 2. 


SCUOLE ELEMENTARI 
del Comune di «Se777077%6 PI VALA 


ANNO SCOLASTIUO 488 -8 7 





REGISTRO ANNUALE 
della Scuola vel e e Di le Classe Mau ca 


3 CAO : i 
diretta dal Maestro 104160 Gironi... 


rrrrr—_a__—a_______aeo—_—« di 


ESAME DELLA METÀ DELL'ANNO ESAME ANNUALE 
Alliev__ inscritt_. dal 15 ottobre . N°- Alliev_. inseritt... dal 15 ottobre . N° Gh Sanza 
Id. presenti all'esame O Mt Id. presenti all'esame... ». 
Tap provati, O) a ob pimesa, o 5 aa dd 
Id. Mon approvato. «0 «© Dt IRENE NOS 


AVVERTENZE 


1 Maestri avranno cura di scrivere con chiarezza il nome ed il prenome degli allievi per ordine alfabetico, con tutte le altre indicazioni richieste. 

1 voti da seriversi nella colonna 4 si ricaveranno dalla colonna 4 del Registro mensuale. 

Se qualche allievo avrà in principio dell’anno ripetuto l’esame per la promozione, i voti e l’esito di tale esame saranno scritti sul Registro dell’anno 
precedente nella colonna portante la relativa indicazione. 


V° JI presente Registro dopo l'esame della metà dell'anno, fu riconosciuto regolare. 


marzo 188 IL SorrintenpeNTE MUNICIPALE 


4 presente Registro dopo lesume annuale, fu riconosciuto regolare. 


agosto 188 IL SorrinteNnpente MuniciPALE 


Fig. 6: Registro annuale dell’anno scolastico 1886/87 compilato dal maestro Enrico Giomi 


561 


Antonella Bertini 


Modulo N° 2 











Coli 


Ipo i €: 


SCUOLE ELEMENTARI! 
del Gomune di Ban Aluistazrovincia di Saronze 


—ee==_____ 


ANNO ScoLastICO 18.47 - 1840 


REGISTRO ANNUALE 
della Scuola < lb pfaEglo Polia Didi ca 





N. ...... diretta dall'insegnante Cheo'Miazre vet i * 





ESAME DELLA METÀ DELL’ANNO ESAME DELLA FINE DELL’ANNO 
Alunni inscritti al principio dell’anno N. Alunni inscritti al principio dell’anno N. DO. 
» inscritti durante il semestre . >» - È » inscritti nel 2° semestre . . . » e 
» presenti agli esami semestrali . >» È » presenti agli esami finali . . » AF 


» DUIOMOSSOENIE TEANO LS EDO) 30. 
MOWETOMOSSISO EE IO AS 


» approvati i cn ie di ei a 


% 
% 


» non approvati . 


AVVERTENZE. 
I Maestri avranno cura di scrivere con chiarezza il nome ed il prenome degli alunni per ordine alfabetico con tutte le indicazioni richieste. 


I voti da scriversi nella colonna 4° si ricaveranno dalla colonna 8® del registro mensuale. 
Se qualche alunno avrà nel principio dell’anno ripetuto l'esame per la promozione, i voti e l'esito di tale esame saranno serittì sul registro 


dell’anno precedente nella colonna portante la relativa indicazione. % a di af 
Visto il presente registro dopo l’esame della metà dell’anno fu trovato regolare. FIPSILA 
IL SOPRAINTENDENTE 


Visto il presente registro dopo l’esame della fine dell’anno fu trovato regolare. 


IL SOPRAINTENDENTE 


Ig MAESTRO 


Fig. 7: Registro annuale dell’anno scolastico 1889/90 compilato dalla maestra Elvira Mazzoni 


562 


La Scuola Elementare di Ponte a Egola dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 1896 











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Fig. 8: Pianta geometrica catastale del 26 settembre 1892 


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Notizie di diversi letterati di San Miniato al Tedesco 
dal “Magazzino Universale” di Bencivenni Pelli 





ALEXANDER DI BARTOLO 


Giuseppe Bencivenni Pelli 

Un personaggio che, siamo certi, non suscita immediatamente ricordi nell’am- 
biente sanminiatese del «Bollettino», ma che possiede in realtà più di qualche 
elemento in comune con il territorio. 

Inquadrando brevemente la sua biografia notiamo infatti che egli è il tipico 
rappresentante della tradizione erudita di pieno Settecento. Nato a Firenze nel 
1729, studia legge a Pisa, per poi entrare a far parte dell’amministrazione pub- 
blica finché, ni; 1775, gli viene affidata la direzione della Real Galleria di Firenze 
- gli Uffizi di oggi - sino alla scadenza del mandato nel 1793'. 

Durante questo periodo egli consolida l'amicizia e lo scambio intellettuale con 
un importante personaggio della cultura toscana, appartenete sì al territorio di 
nostra conoscenza: l'abate Giovanni Lami?. Animato da molteplici interessi cul- 
turali - come il nostro santacrocese - il Bencivenni si concentra sullo studio delle 
opere d’arte presenti nelle gallerie fiorentine che gli erano state affidate, dando 
alle stampe un Saggio istorico della Real Galleria di Firenze, nel quale tenta una 
prima ricognizione scientifica delle collezioni d’arte, fornendo una descrizione 
e classificazione dei pezzi, con tanto di attribuzione e datazione. Un'opera di 
importante valore prosopografico, che comprende anche il catalogo delle gemme 
intagliate e dei disegni, delle medaglie e delle monete. 

Bencivenni Pelli studia, scrive, raccoglie appunti e memorie come nella più 
tipica tradizione erudita e pubblicistica di quel tempo*. Pubblica poco e molto la- 
scia manoscritto, in particolare una vasta raccolta dal titolo Efemeridi, conservata 
alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze’, in ben ottanta volumi. E qui sta il 
secondo possibile contatto con il mondo sanminiatese: i tomi infatti raccolgono 
ciò che l’autore annotava quotidianamente. Le sue impressioni di lettore avidis- 
simo, le sue riflessioni e varie divagazioni sugli avvenimenti del giorno e sui temi 





!  DBI, vol. 8 (1966), ad vocem. 
2? DBI, vol. 63 (2004), ad vocem. 
2 voll., Cambiagi, Firenze 1779. 
M. Fileti Mazza, B. Tomasello, Gli scritti di Giuseppe Pelli Bencivenni. Anagrafe storica, Firenze 
2005; M. Fileti Mazza, B. Tomasello, Da Antonio Cocchi a Giuseppe Pelli Bencivenni: pensiero e prassi 
in Galleria, in La Galleria rinnovata e accresciuta: gli Uffizi nella prima epoca lorenese, Firenze 2008, pp. 
13-72; M. Fileti Mazza, Storia di una collezione. Dai libri di disegni e stampe di Leopoldo de Medici all’Età 
Moderna, Firenze 2009. 

5. BNCF fondo manoscritti, N.A. 1050. Interamente consultabile on line sul sito <<www.bncf. 
firenze.sbn.it>> 


4 


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Alexander Di Bartolo 





morali a lui più congeniali. Si tratta a ben vedere di una piccola miniera di cu- 
riosità e notizie per soddisfare la sete di conoscenza sul Settecento sanminiatese: 
da chi fosse composto l’ambiente riformatore locale, quali gli orientamenti dei 
vescovi, quali gli intellettuali più rappresentativi del territorio. 

Ma lasciando ad altri la curiosità di scavare sui fondi della Biblioteca nazionale 
fiorentina, aggiungiamo unicamente che il Bencivenni ha lasciato, sparsi in enti 
ed istituzioni toscane, altri materiali documentari prima della morte, avvenuta il 


31 luglio 1808. 


Il “Magazzino Universale”: un “ripostiglio di memorie” 

Nei ricchi archivi storici dell'ex Istituto e Museo di Storia della Scienza, oggi 
Museo Galileo, si conservano, appunto, alcune carte di mano del nostro. 

In particolare un piccolo fondo che si compone di 4 volumi, a loro volta 
suddivisi in capitoli, che Bencivenni Pelli chiama “balle”, in quanto elementi 
disomogenei del “magazzino” delle sue conoscenze. 

Il Magazzino universale raccoglie quindi estratti, notizie e scritti di argomento 
vario che egli stesso dichiara non riconducibili ad alcuna delle classi in cui dal 
1751 ha diviso il corpus dei suoi appunti delle Efemeridi. Per questo le “balle” 
non seguono un ordine, ma sono essenzialmente, come egli stesso ricorda, un 
“ripostiglio di memorie”. In questo ripostiglio, ben nutrito a dire il vero, sono 
presenti oltre 180 lavori di differente ii dalle voci biografiche (113 in 
totale) alle dissertazioni di storia erudita, dalle traduzioni di articoli significativi 
apparsi su riviste internazionali alle sue personali osservazioni di lettura. In que- 
sto maremagnum, essendo presente di uno studio su San Miniato, ci è parso 
opportuno proporne la trascrizione completa. Si tratta della Balla XI (o capitolo 
undici) della filza D, dal titolo Notizia di diversi letterati di S. Miniato al tedesco. 
Non si aspetti niente di particolarmente “nuovo” il lettore attento alla storia lo- 
cale, ma si apprezzi l’intento del suo autore, di fornire un primo famedio degli 
illustri sanminiatesi, una sorta di embrionale dizionarietto biografico. 

Pur nella semplicità degli appunti, privi di annotazioni bibliografiche precise, dalla 
rapida grafia, a tratti disarticolata, ci sono alcuni aspetti che i sottolineare. 

Quanto ai personaggi, cioè ai letterati presentati: l’autore delinea 24 piccole 
voci biografiche. Alcuni di questi letterati sono noti e oggetto di studio, altri 
invece sono del tutto nuovi (Durante da San Miniato, sul quale si sa davvero 
poco; Simone Pallaleoni, ignorato dal Rondoni; Messer Antonio del Maestro da 
S. Miniato, “poeta non spregevole” del 1400), e ciò rende comunque interessante 
la lettura del manoscritto. 

Quanto alle fonti citate: tutte quelle riferite a testi a stampa sono state verifica- 
te e indicate in nota a pie’ pagina con il solo intento di segnalare e confermare le 
notizie dell’autore del testo. Restano da verificare, invece, i rimandi ai manoscritti 
che ci fornisce Bencivenni, e che auspichiamo di poter un giorno verificare. 


TRASCRIZIONE 
Collocazione: Archivio storico del Museo Galileo, già Istituto e Museo di 


Storia della Scienza di Firenze, Manoscritti n. 037 
Autore: Bencivenni Pelli Giuseppe 


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Notizie di diversi letterati di San Miniato al Tedesco 
dal “Magazzino Universale” di Bencivenni Pelli 





Titolo: Notizia di diversi letterati di S. Miniato al tedesco in Magazzino Univer- 
sale, lettera D, pp. 224-235. 
Le pp. 234 e 235 sono bianche. 


Il testo originale è distribuito sulle pagine impegnando la colonna di destra, 
mentre lo spazio libero sulla sinistra è usato dall’autore per le correzioni, aggiun- 
te e note. Le pagine manoscritte si presentano tutte in grafia corsiva moderna. 
Quindi i titoli delle opere citate hanno il medesimo aspetto grafico del restante 
testo e non riportano il “tondo” per distinguerle graficamente. Tenendo fede al 
principio di conservazione non siamo intervenuti sulla grafia dei titoli di opere 
né dei nomi propri, nemmeno quando vi erano evidente sviste. Non abbiamo 
apportato modifiche alla punteggiatura né alle espressioni verbali, benché desuete 
(hò per ho; fù per “fu”; à per “ha”, “sieno” per “siano” etc. etc.). Le abbreviazioni 
più comuni sono state sciolte senza appesantire il testo tra parentesi [...]; quelle 
desuete sono state invece segnalate. Le note a pie’ pagina sono del curatore. 


(p. 224) 

Notizia di diversi letterati di S. Miniato al tedesco 

L'illustrare i nomi di quei che anno faticato nell'apprendere le scienze è un 
debito che dobbiamo pagare ai loro sudori. Per questo hò quivi registrati i nomi 
di diversi letterati di S. Miniato al Tedesco dei quali ragionò il D. Lami nella 
Prefazione all’Istoria Sicula di Lorenzo Buonincontri, e nella prima parte del suo 
erudito Odeporico sembrando a me che giacessero in un libro che difficilmen[te] 
si sarebbe consultato volendo fare di simili notizie ricerca. 

Nel 1244 si triova Recuperus Spadalunghius” Giureconsulto mandato con 
Taddeo Matricio di Sessa da Federigo II Imp. al Concilio di Lione®. Questo si 
narra ancora negli Annali del Buonincontri, ma da esso non si dice qual fosse 
il casato di Recupero. Il medesimo Buonincontri racconta nel 1352 la morte 
seguita in Bologna di un altro Recupero Spadalunghi. Egli è certo che questi due 
personaggi sono differenti, quando ancora dir si volesse che il Buonincontri i 
avesse errato nel segnare i tempi, poiché quest'ultimo librariamente 

(p. 225) 

cavato da Bartolo? come suo contemporaneo ad L. Titia. - Imperator ff. de 
Legat. 11 = quin et recuperi = soggiunge il Lami nella detta Prefazione p. xix = 
consilia esse ferutur, quae ad hunc probabiliter, non ad antiquiorem pertineant 
= Si dice d’alcuni gratuitamente che insegnasse Esso in Firenze le Lettere greche 
cosa molto a. in quei tempi. Neli Badia di Firenze al dire del Puccinelli 
nelle memorie sepolcrali dell’Abbazzia fiorentina!’ fu concesso a recupero Dot- 
tore che morì si 1300 il sepolcro ma l’epitaffio dice = Sep. Guilielmi = filii ser 
Mattei de Stadalunghis = de Sancto Miniate Notari et executoris Artis Lane civi- 


Nella colonna di destra si aggiunge [P. I e II dell’] 

Cfr. DE, Odep., pars. 1, MDCCXLI, p. 102; MSSM, p. 237; DBS, p. 265, ad vocem. 
Cfr. DE, Odep., pars 1, MDCCXLI, p. 18. 

Bartolo da Sassoferrato. 

Nella colonna di destra è aggiunto [P. m 221. 


Vv 0 Ya 


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Alexander Di Bartolo 





tatis Florentiae!!. Se ciò è vero bisognerà dire che questo recupero fosse il vecchio. 
Di questo si afferma da Gio. Battista Gazzalupi in Tractatus De modo studenti 
in utroque jure!? esser difunto ne medesimi tempi di Gio. Palearensis o Senensis. 

Gio Lelmi!5 scrisse una chronichetta di S. Miniato stampa dal Lami pag. 82. 
Segue dalla P. III dell’Istoria sicula del Buonincontri!. Due codici ebbe il mede- 
simo Lami per comodo dell’impressione uno di mano moderna, l’altro del XVI 
secolo da Ser Sebastiano Viviani da S. Miniato trascritto. (Ved. La III P. dell’Isto- 
ria sicula pag. 

(p. 226) 

(49.) Nel principio di questa breve storia si leggè = L'Anno dell’Incarnazione 
del nostro Sig.re Gesù Crjsto MCCCII. e a di 28 del mese d’Agosto, le infra- 
scritte cose furono notate da me Giovanni di Lelmo (nel 2° cod. di Lemmo) 
da Camugnoli (ivi da Camugnori) Notaio, e uomo della terra di S. Miniato al 
tedesco, da me parte vedute parte udite, e fedelm[ente] scritte = Essa termina nel 
1318 .onde forse in quest'anno morì (Lami Odeporico pag. 187)! mentre quello 
che segue è un aggiunta posteriore. Per quello che riguarda il medesimo Lelmo 
nella medesima cronica si trova notato! pag. 89 che il dì 21 luglio 1309 Messer 
Filippo di M. Barone de Mangiadori essendo stato fatto cavaliere = ed a me Ser 
Gio. e Ser Lazzaro di Martino, ci donò un vitello, e staia 15 d’orzo = e a pagg 3. 
= A di 28 di Marzo 1312 io andai a Pisa per vedere il Serenissimo Impleratore] 
Enrico, il quale veddi nel Duomo mentre cantava la Messa un cardinale legato 
del Papa etc = e a pag. 98 sotto il di 10 8bre 1313 = I Pisani dettero il guasto a un 
castello d[etto] Montalti distretto di S. Miniato, tagliando frutti, viti, e d uilivi 
especialmente l’uliveto mio da Montemagno = e finalm[ente] p. III sotto il di 18 
9bre 1314 = Messer Ranieri capitano 

(p. 227) 

Della guerra a certi alberi presso il Ponte ad Elsa li fece tutti appiccare per la 
gola, infra i quali fù il Prete di casa mia. = 

Michel Buonincontri;! di questo parla Lorenzo ne suoi Annali! all'anno 
1338! dicendo che esso il quale pa la Giurisprudenza, con Ludovico 
Guccio fù chiamato a Pisa da Pietro Gambacorti. 

Durante da San Miniato?°, Si ritrova una sua Ballata in un manoscritto riccar- 
diano con altre Poesie del Petrarca, di Lancillotto Piacentino, di Gio. Boccaccio 


!! Cfr. Puccinelli P., Istoria dell'eroiche attioni di Vgo il Grande ... con la cronica dell’Abbadia di 
Firenze .... Il trattato di circa mille Inscrittioni sepolcrali ...., In Milano, per G.C. MALATESTA STAM- 
PATORE, MDCLXIV, p. 22. 

Cfr. Caccialupi G.B., Tractatus de modo studendi, & vita doctorum ...., Bononie, per Benedic- 
tum Hectoris, 1508. 

15 Cfr. MSSM, p. 238; DBS, p. 165, ad vocem. 

4. Cfr. DE, Historia Sicula, pars 3, MDCCXL, p. 145. 

5 Ivi, p. 187. 

Ivi, p. 82 e ss. 
! Cfr. DBS, p. 64, ad vocem. 
Cfr. Annali di Lorenzo Bonincontri, manoscritto conservato nella Biblioteca apostolica vaticana, 
collocazione: VAT LAT 2014. 
19 Grafia incerta. 
20. Cfr. Vanossi L, in Enciclopedia dantesca, ad vocem. Non ne parla il Rondoni né il DBS. 


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Notizie di diversi letterati di San Miniato al Tedesco 
dal “Magazzino Universale” di Bencivenni Pelli 





et in altri manoscritti di quella libreria s'incontrano i nomi d’altri letterati sam- 
miniatesi di cui non parla il Lami per non avere avuto l'avvertenza di spogliarli. 

P_Marcovaldo Portigiani Francescano?!. Il Lami nell’odeporico dell’anno 
1741 p. 181 nomina questo soggetto come persona di scienza, e di vita molto 
esemplare, e che per umiltà ad esempio di S. Francesco, volle rimanere sempre 
Diacono. 

Gio. de Mangiadori?° Arcidiacono di Lucca strettissimo amico del card. Otta- 
viano degli Ubaldini fù vescovo di Firenze, e morì nel 1274. 

Paolo de Portigiani?* da S. Miniato giurisconsulto. Si trova esso rettore dello 
Studio Fiorentino nel 1369 costituito 

(p. 228) 

da Carlo IV. Imp. Con Gio de Ricci cittadino fiorentino, e Dottor di Legge 
(Alcune poesie di questo si leggono ne codici riccardiani) Giudice in una causa 
vertente fra Gio de Tebaldini, il comune di Pisa, e di figliuoli di Castruccio. Ved. 
il Lami in Synopsi chronologica inserita nel cronico degl’Imperatori di Leone 
Urbevetano ad hunc annu, e nell’Odeporico pag. 154.° 

Simone Pallaleoni? da S. Miniato scrisse in versi italiani La Politica che in un 
codice membranaceo manoscritto conservisi nella libreria del can. Riccardi. Nella 
fine del codice stà scritto = Expliciti liber politiae editj a Sjmone de Pallaleonij de 
S. Miniate ad correptione cuius libet Sanctiorij?°. 

Gio[vanni] di M[es]Sfer] Duccio?” da S. Miniato Monaco camaldolese. Non 
si sa in che tempo per appunto vivesse, ma ci assicura il Lami che il can. Biscioni 
vedde un codice della sua traduzione italiano del Petrarca De remediis utrius 
fortune = scritto nel 1464 dal che si ricava ch'egli dovette fiorire avanti l’anno 
mentovato. Dopo avere scritto cio leggo nell’odeporico, pag. 227° che questo 
morì nel 1427? ai 27 di Febb[raio]. Fù amico del celebre Coluccio Salutati di cui 
riporta una lettera scritta al medesimo pag. 190 del citato odeporico, e di un’altra 
fa menzio?® 

(p. 229) 

ne a p. 227 scrittagli dal d.o Coluccio in occasione, e per risposta di altre che 
Gio[vanni] avea mandata ad Agnolo Corbinelli volendolo ritrarre dallo studio di 
Poesia. Si trova questa in un codice M[ano]S[critto] n. 675 della libreria privata 
del can. Riccardi tradotta in volgare da Michele d’Agnolo Castellani. 

Lorenzo Buonincontri?! da S. Miniato. Di questo non parleremo lungam[ente] 





2! Cfr. DE, Odep., pars 1, MDCCXLI, p. 181; MSSM, p. 243; DBS, p. 234, ad vocem. 
2 Cfr. MSSM, pp. 237-238; DBS, p. 179, ad vocem. 
23 Cfr. MSSM, pp. 242; DBS, p. 179, ad vocem. 
2 Cfr. DE, Odep., pars 1, MDCCXLI, p. 154 e DE, Historia Pontificiae Et Augusta, pars 1, 
MDCCXXXVII, Chronicon, pp. 30 e ss. 
2 Cfr. DBS, p. 217, ad vocem. 
Grafia incerta, potrebbe essere anche Lanctiorij. 
Non presente in Rondoni né in DBS. 
28 Cfr. DE, Odep., pars 1, MDCCXLI, pp. 226-227. 
2 Correzione a inchiostro che rende incerta la comprensione. 
Nella colonna di sinistra si legge, in serie: “pag. 190 che nel 1496 egli vestì l'abito religioso, e 
pag [cassato.” ; “il Lami”. 


31 Cfr. MSSM, pp. 249-258; DBS, pp. 63-64, ad vocem. 


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Alexander Di Bartolo 





mentre di lui tratta il Muratori nella Pref. ad una parte de suoi Annali pubblicati 
nel settore degli scrittori dell’Istoria italiana, ed il Lami nella Pref. alla P. I e II 
della sua storia sicula. Esso dové scrivere fino oltre al 1481. Mentre avendo nello 
studio fiorentino in cui pare che fosse professore, spiegato il primo di tutti in Ita- 
lia pubblicando Manilio Poera, ed illustrato co’ suoi comenti gli dedicò al card. 
Raffaello Riario. Si vedono questi stampati in Roma il 1484. Nella Laurenziana 
Pluteo 29.11.11 cod[ice] cartaceo si ritrovano due opere del nostro Lorenzo. 
La prima ha per titolo = Laurentii Bonincontri Miniatensis super centiloquio 
- = Infine è scritto = Laurentii Bonincontri Minitensis commentu super 
centiloquio Ptolomei feliciter explicit transcriptu per me Laurentius M.(?) Vostri; 
canonica Ecclesiae S. Laurentii florenti. X Maii 1477 hora 22 

(p. 230) 

et med. = La# = Excerpta per me Laurentium Bonincontrium Minitatense 
ex quadripartito Ptolomei et expositiono Itali commentatorj, sive Porphyrii = I 
Suoi Annali m[ano]s[critti] si vedono nella Strozziana cod. 1082 E A. Il Lami poi 
nell’Odeporico pag. 227 congettura che al Buonincontri dirette sieno parecchi 
lettere latine di Michel Venino che in un cod[ice] della Libreria del can. Riccardi 
si leggono scritte a Lorenzo Mattematico.5* 

Michele Mercati” fu contemporaneo del nostro Lorenzo. Ad esso (L.1) fu 
diretta una lettera da Marsilio Ficino con questo titolo = Marsilius Ficiny Mi- 
chaeli Mercato Miniatensis dilecto condiscipulo uo J. D. = Di questo si racconta 
che convenisse col Ficino, che chi prima di loro morisse fosse oligato ad apparire 
all’altro, ed assicurarlo del suo essere, lo che accadde - che queste favole non me- 
ritano d’esser rammentate. 

Antonio Morale Samminiatese. Questo, a cui sono dirette varie lettere del 
Ficino L.I. e L.VIII viene da esso chiamato Lev(...)um?_et conphilosophum 
suum. 

Gio[vanni] Franc[esco] Tintio88, Il Lami dice?’ d’aver veduto un frammento 
di un codl[ice] scritto = pagelly Luteij = presso il D. Gualtieri con questa iscri- 
zione. 


(6,291) 








8. Cfr. Muratori L. A., Rerum Italicarum Scriptores ab anno aerae christianae millesimo ad millesi- 


mum sexcentesimum quorum potissima pars nunc primum in lucem prodit ex Florentinarum bibliotecarum 
codicibus, tomus I, Florentiae, MDCCXXXXVIII. Ex Tipographia Petri Cajetani Viviani. Superiorum 
permissu, vol. 27. 

33. Grafia incerta. 

3. Cfr. DE, Odep., pars 1, MDCCXLI, p. 154. 

8 Cfr. MSSM, p. 244; DBS, p. 195, ad vocem. 

36. Morali Antonio Serafico, secondo il DBS, p. 202, 44 vocem. 

37. Grafia incerta. 

38. Cfr. DBS, p. 276, ad vocem. 

®.. Cfr. DE, Historia Sicula, pars 1, MDCCXXXIX, p. XIV. 

4° Ampia nota nella colonna di sinistra nella quale si legge, partendo dall'alto verso il basso: 
“trascriptio in laberculo libro expresia (?) Lami”, probabilmente in riferimento all’iscrizione trascritta a 
inizio pagina. Mentre una seconda lunga annotazione recita: © Ho viduta una impronta, pare in gesso, 
di una medagla con ....lavorata e quattri stelle presso la testa (di) : e lettere Joannis . Francicius . Thin- 
chis . Miniatensis. A. P. Nel Rov[esci]o un ...... ..... che ha il campo diviso per il mezzo par lo lungo 
con una fascia in cui sono .... Stellle, e lettere intorno Insignis. Tinctinio. Miniatensis. An. M.D.LXX 





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Notizie di diversi letterati di San Miniato al Tedesco 
dal “Magazzino Universale” di Bencivenni Pelli 





Est Joannis Francisci Tinctiorum Miniatensis Terreum volumen quod de ma- 
teria plurima mundorum tractat demonstrans secus esse lumen Eos gradatim 
quot astra celoru[m] quovis cingente totidem qui lumen Prebent pro stellis cen- 
trico eius alis De quoru[m] primo gradu est hic nostraljs An. C. MDLXXXVI 

Sembra che quest'opera che forse non esiste più, trattasse il suo autore la fa- 
mosa questione della Pluralità de Mondi. 

Niccolò Buonaparte"'Fu Professore nello studio di Pisa, e compose una com- 
media che si trova impressa in Firenze presso i Giunti nel 1592 intitolata La 
Vedova. 

Michel Mercati*? Medico di Clemente VIII. Illustrò grandemente la sua Patria 
colle sue opere, la più famosa delle quali è la = Metallotheca Vaticana = scrisse 
ancora un = Istruzione sopra la Peste = e quj de Romanis obeliscis ad Sixtus . 
Pontif. Max. = Un supplementeo della quale sono le sue = Considerazioni sopra 
gli accriscimenti del sig. Latino Latini. = Vegg[e] il Maillon in Diario Italico 

lacopo Malpileo‘* Professore di Jus Civile nello Studio di Perugia 

(p. 232) 

Bernardetto Buonromei” di cui abbiamo l’infrascritta opera dedicata a Ber- 
nardetto Minerbetti Vescovo d'Arezzo. = Discorso della Fortuna diviso in due 
lezioni di Bernardetto Buonromei da S. Miniato al tedesco Accademico Fioren- 
tino, lette pubblicamente nell’Accademia di Firenze al consolato del magnifico, e 
gentilissimo M[esser] Gio: Rondinelli. In Fiorenza per Giorgio Marescotti 1572. 

Francesco Ansaldi*° che scrisse De Jurisdictione, e vari consigli. 

Mfesser] Antonio del Maestro da S. Miniato. Esso si dovea rammentare di so- 
pra per essere stato non di spregievole Poeta del XV secolo. Di questo si legge un 
cod. riccardiano una composizione in versi toscani = contro Alfonso di Aragona. 

Gio[vanni] Celso.‘ Giureconsulto. Abbiamo di esso alle stampe un libro inti- 
tolato Princeps Ex Tacito = che si pubblicò nel 1624. 

Donato Roffia‘” che compose una Ristampa in difesa della commedia di Dan- 
te sembra al Lami essere stato di S. Miniato. 

Aless[andro] di Bernanrdino da S. Miniato‘8, scrisse una commedia pastorale, 
el’ 

(p. 233) 


indirizzò a Pier Francesco Grifoni suo amico. 





(1775 Giugno). Infine, altra annotazione recita: “La Drammaturgia ed. del 1755 p. 804 cita altra ediz. 
De Giunti 1566 in 8°.” 

4! Cfr. DBI, vol. 11 (1969), 44 vocem. Anche Benedetto Croce se ne occupò: Commedie del 
Cinquecento, in Poeti e scrittori del primo e del tardo Rinascimento, II, Bari 1945, ad Indicem. Incerta 
l'attribuzione in DBS, p. 60, 44 vocem. 

4 Cfr. MSSM, pp. 286-306; DBS, p. 194, ad vocem. 

4. Si intenda Jacopo Malpigli. Cfr. DBS, p. 175, ad vocem. 

4 Cfr. DBS, p. 46, ad vocem 

5. Cfr. MSSM, p. 307; DBS, p. 19, ad vocem. 

40. Cfr. DBS, p. 80, ad vocem. 

47 Cfr. DBS, p. 244, ad vocem. 

48. Cfr. DBS, p. 38, ad vocem, onde si dice vissuto nel XVI sec. 


571 


Alexander Di Bartolo 





Ansaldo Ansaldi*° questo fu poeta e giurisconsulto, e si hanno di suo alla luce 
varie canzone, e altre poesie toscane Un trattato del Commercio, e della Merca- 
tura, diverse Descrizioni, e d altre scritture legali. 

Altri letterati averanno fiorito in S. Miniato de quali non averò scritto notizia, 
come vari Prelati et perché non ci siamo proposti di accennar tutti quelli che 
hanno saputo leggere. 

Jacopo Buonaparte? autore del Diario delle cose occorse nel sacco di Roma 
del 1527. Poco fa impresso per la prima volta fù di S. Miniato ma di una famiglia 
del [tu]tto distinta da quella che mandò alla luce Niccolò. 


Abbreviazioni usate nel testo: 


BNCF = Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze 

DBI = Dizionario Biografico degli Italiani (edizione on-line consultata il 
30/10/2020) 

DBS = Dizionario Biografico dei Sanminiatesi, a cura di R. Boldrini, Pacini, 
Pisa 2001 

DE = Deliciae Eruditorum di Giovanni Battista Lami (segue sempre il numero 
del volume, l’anno di stampa, e la pagina di citazione) 

MSSM = Memorie storiche di San Miniato al Tedesco, di Giuseppe Rondoni 
(dall'edizione Ristori, San Miniato 1876) 


Ringraziamenti 


Si ringrazia la bibliotecaria dott.ssa Alessandra Lenzi del Museo Galileo di 
Firenze per aver favorito e indirizzato la consultazione del Magazzino Universale 
con i propri suggerimenti. 


9. Cfr. DBS, p. 17, ad vocem. 
Cfr. MSSM, p. 261; DBS, pp. 58-59, ad vocem. 


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Notizie di diversi letterati di San Miniato al Tedesco 
dal “Magazzino Universale” di Bencivenni Pelli 








Niccolò Palmerini, Ritratto di Bencivenni Pelli, XIX sec., conservato nel “Gabinetto dei disegni e delle 
stampa della Galleria degli Uffizi” (incisione all’acquaforte) 


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Alexander Di Bartolo 


Fig. 2: frontespizio del “Magazzino Universale”, lettera D conservato nell’archivio del Museo Galileo 
di Firenze 


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Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 





ROBERTO BOLDRINI 


Introduzione 

Questa ricerca è dedicata alle elezioni politiche del 1919 nel Sanminiatese e 
agli scenari sociali e politici che fecero da viatico all'importante turno elettora- 
le. Allo stesso tempo si pone in continuità con il mio intervento dedicato alle 
elezioni politiche del 1913 che fu ospitato nel «Bollettino dell’Accademia degli 
Euteleti» dieci anni fa'. Per mettere meglio a fuoco l’obiettivo finale, lo sguardo si 
estenderà in parte anche al territorio circostante, in una prospettiva di continuità 
con i comuni del medio Valdarno e con Empoli. Tale prospettiva appare inelu- 
dibile per offrire dei termini di confronto attraverso la selezione di avvenimenti 
indicativi del riorganizzarsi dei principali attori sociali collettivi: le articolazioni 
locali dei partiti politici, l’associazionismo laico e cattolico, la Chiesa cattolica lo- 
cale, le organizzazioni dei lavoratori, le espressioni giornalistiche di questa realtà. 
Una realtà in fermento, che derivava in buona parte dalle attese generate nella 
popolazione dalla fine della guerra e quindi dalla speranza che le promesse fatte 
dal governo ai soldati e alle loro famiglie nell’ultima fase del conflitto trovassero, 
con la mediazione degli attori sociali cui ho accennato, una traduzione concreta 
attraverso accordi e leggi, divenendo quindi realtà?. Il percorso che tenterò di di- 
panare illustrerà la metamorfosi della rappresentanza politica del collegio di San 
Miniato in relazione al prospettarsi, e quindi alla promulgazione, di una nuova 
legge elettorale sui con scrutino di lista? che pose fine al periodo del 
collegio uninominale e ridisegnò le circoscrizioni elettorali in collegi plurinomi- 
nali, influenzando la condotta degli attori politici. Il recente centenario della fine 
del conflitto è stato occasione per approfondimenti e pubblicazioni* che hanno 
fornito nuove conoscenze su San Miniato nel periodo bellico. Grazie anche a 
questo, diciamo così, ponte gettato tra il 1915 e il 1918 potremo seguire meglio 





! Cfr. Boldrini 2010. 

2 Il clima gravido di attese che si addensò sul 1919 è ben descritto in sintesi da Vivarelli, 1991, 
I, p. 53 e p. 66-68. Cfr. anche Bianchi 2006, per l’attenzione ai moti annonari e contro il caroviveri. 

3 Su questo fondamentale passaggio mi limito a rinviare a cfr. Piretti 1995, pp. 197-225, dal 
quale trarrò alcune indicazioni nel corso del testo, come anche da Noiret, Piccioli, 1994, pp. 141-152. 
Il passaggio alla nuova legislazione si articolò in due momenti: la legge n. 1985 del 16 dicembre 1918 
che ammetteva tutti i combattenti, anche se minorenni, al voto, e la legge n. 1401 del 15 agosto 1919 
che sancì il passaggio al sistema proporzionale. 

4 Mi riferisco soprattutto a Parentini 2018, da cui attingerò via via notizie che l’autrice ha trat- 
to soprattutto da documenti dell'Archivio storico comunale di San Miniato, completando il lavoro 
con immagini e documenti di famiglie e infine con testimonianze orali. Cfr. anche Fiaschi 2019. 
In generale, la ricorrenza centenaria ha favorito la pubblicazione di molti studi locali, tra i quali segnalo, 
per l'accuratezza che ne fa una pietra di paragone, Bianchi 2018. 


575 


Roberto Boldrini 





la ripresa di una vita quotidiana sottratta ai ritmi autoritari dettati dalle necessità 
del conflitto e subito articolata in una pluralità di voci. 


Il campo liberal-costituzionale in affanno 

Nel 1919 la strategia dei liberali costituzionali, incardinata sulla centralità del 
notabilato e irrigidita in un MA system modellatosi in Toscana sul paternali- 
smo mezzadrile?, mostrava la corda: le campagne elettorali orchestrate attraverso 
la corrispondenza con i grandi elettori, convocati per lettera, potevano andar 
bene a livello di circuiti ristretti, in cui l'elettorato era vincolato a clientele ben 
definite. Un elettorato allargato fin quasi al suffragio universale maschile e più 
integrato nel sistema politico richiedeva una conoscenza a tappeto dei territori, 
l’organizzazione di contradditori, comizi, incontri di fronte al corpo elettorale, 
la produzione e distribuzione massiccia di materiale di propaganda, la divulga- 
zione di idee attraverso inni e canzoni°. Insomma, l'irruzione delle masse popo- 
lari e delle loro organizzazioni sulla scena politica sconvolse l'agenda poli 
amministrativa con un protagonismo fino allora sconosciuto. 

Le conseguenze dal uerra e la nascita dei partiti di massa travolsero la 
possibilità di incardinare la lotta politica su una dia come quella, ancora 
giocata sul contrasto capoluogo-frazioni, delle elezioni amministrative del 1914 
a San Miniato, tra «Partito di campagna» e «Partito di città»”. Quest'ultimo con- 
quistò la maggioranza in Consiglio comunale ed espresse il sindaco Vincenzo Di 
Somma. Tuttavia la chiamata alle armi lo costrinse ben presto alle dimissioni 
che, nella tarda primavera ed estate, coinvolsero altri consiglieri e portarono, 
nel settembre, alla nomina a sindaco dell'assessore anziano Egisto Elmi, che 
avrebbe detenuto la carica per cinque anni?. La dialettica città-campagna non 
scomparve del tutto, poiché non era facile continuare ad assicurare la coesione 
di un comune così vasto, tra le fattorie della pianura verso l'Arno, zone come 





° Cfr. Sagrestani 2002, p. 169. Sulla relazione tra mezzadria e sviluppi politici della Toscana in 


questo periodo mi limito a rinviare a Toscano 1978, in particolare 880-885. 

6 Cfr. Ivi, pp. 177-178: i liberali costituzionali erano «ancorati ai vecchi schemi personalistici 
e a meccanismi di rappresentanza fondati sulla logica dell’appartenenza al campanile, anche quando 
le regole imposte dal sistema proporzionale e l’estensione del collegio all'intera provincia spingevano 
verso una moderna forma-partito e verso la nazionalizzazione della politica, i liberali del microcosmo 
indagato, al pari di quelli dell’intera provincia, compivano la scelta miope legata ai moduli della compe- 
tizione binaria propria del sistema uninominale». Cfr. anche Piretti 1995, p. 223: «L'interrogativo più 
frequente torna ad essere la capacità di una classe politica cresciuta all’ombra del notabilato di misurarsi 
con un sistema elettorale che, nella tecnica prescelta, presuppone, più che creare, l’esistenza del partito 
come istituzione intermedia tra lo stato e la società». 

7 Cfr.«LN», 13 luglio 1914, Le elezioni in Toscana. San Miniato. Il manifesto dei partiti di campa- 
gna; ivi 16 luglio 1914, La situazione elettorale a San Miniato; ivi, Le elezioni in Toscana. A San Miniato. 

3 Il nome di Di Somma, come alcuni altri, compariva in entrambe le liste dei due «Partiti» 
(conto di tornare su queste elezioni in futuro). Il nuovo sindaco era genero di Giorgio Sonnino, pro- 
prietario della tenuta Castelvecchio di Cigoli, un outsider per l’ambiente sanminiatese ma la parentela 
coi Sonnino e quindi con Sidney, uno dei più influenti deputati liberal-conservatori, grande amico di 
Guicciardini e di li a poco più di 3 mesi ministro degli Esteri per tutta la durata della guerra, dava ga- 
ranzie di continuità con gli assetti consolidati. Per i nomi dei consiglieri rinvio a Parentini 2018, p. 13. 

2 Cfr. Parentini 2018, pp. 64-65 con accenni ai problemi che in un periodo così complesso 
l' Amministrazione comunale dovette affrontare. 


576 


Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 





Ponte a Egola che viveva un’ormai visibile fase di decollo industriale e una zona 
mezzadrile interna, in parte collinare, come la Valdegola. Il campanilismo e la 
contrapposizione città-campagna non scomparvero nel dopoguerra ma fecero 
parte dell’arsenale dei partiti di massa, mettendo ancora di più in imbarazzo il 
campo costituzionale che su questi temi si era tenuto in precario equilibrio. 
L'ancoraggio all’anteguerra e il disorientamento serpeggiante tra i notabili 
liberali è dimostrato da una discussione che si sviluppò a cavallo tra San Mi- 
niato e Empoli nella primavera 1919, quando a livello nazionale già ferveva la 
discussione sul modello proporzionale con scrutinio di lista. All’inizio di marzo 
i «maggiorenti» del collegio di San Miniato e «un considerevole numero di elet- 
tori» proclamarono Gino Incontri, assente all’iniziativa, candidato del collegio!°. 
Il 25 marzo Incontri ricordò a Paolo Guicciardini, figlio di Francesco e deputato 
del collegio per un trentennio, di non aver partecipato ad una prima riunione 
er la sua candidatura a Empoli con 120 «maggiorenti» locali, e si giustificò con 
fui per aver lasciato svolgere la proclamazione di San Miniato: 


dissero che non avevano candidati e che solo potevo battere il socialista (...) 
Non potevo e non posso portarmi diversamente con persone come Montanelli, 
Doddoli, Guerrazzi, Elmi, Conti ecc., tutte persone alle quali sono stato pre- 
sentato e raccomandato dal tuo povero padre. Se essi mi dicessero di trarmi in 
disparte lo farei subito, ma non ne hanno voglia ed io non posso dare il collegio 
in mano ai socialisti!!. 





0° Cfr. «LN», 2 marzo 1919, Collegio di S. Miniato: «Si fanno vari nomi ma quello che verrà 


proclamato ufficialmente domenica ventura è il nome dell’on. Gino Incontri, al quale il collegio di San 
Miniato venne già offerto quando l'on. Incontri era impegnato in una viva lotta nel Collegio di Empo- 
li»; Agf, Carte di Paolo Guicciardini, CCXIII, ins. 3, «Elezioni politiche 1919. Corrispondenza, spese 
elettorali, giornali, minute di discorsi e varie», Giuseppe Montanelli a Paolo Guicciardini, Fucecchio, 
26 febbraio 1919 e ivi, Circolare dattiloscritta che invita i monarchici per il 9 marzo alla proclamazione 
della candidatura di Gino Incontri, riprodotta in Ficini 1998, pp. 94-95. Cfr. anche «LR», 30 marzo 
1919, Proclamazione della candidatura del marchese Gino Incontri: «Erano presenti i rappresentanti dei 
comitati elettorali di S. Miniato, Fucecchio, Castelfranco di Sotto, S. Maria a Monte, Montaione, 
Montopoli e Gambassi». Incontri aveva sfidato due volte Giulio Masini, candidato socialista del colle- 
gio di Empoli: nel 1904 e nel 1913 era stato sconfitto, nel 1909 aveva vinto, cfr. Sagrestani 2002, pp. 
168-172. Nel quadro del «dinamismo dell’aristocrazia toscana», Incontri era stato «uno dei personaggi 
chiave della Mobilitazione civile»: «nel giugno 1914 aveva presieduto il Comitato permanente di salute 
pubblica per organizzare la revanche antioperaia e antisocialista, e che nel 1919 sarebbe stato — in nome 
del blocco con le forze cattoliche — uno degli affossatori della candidatura Sonnino», cfr. Soldani 1986, 
p. 419. Sulla posizione politica di Incontri, prima sonniniano poi nel 1914 avvicinatosi a Giolitti, cfr. 
Mazzei 2019, pp. 57-58. 

!!  Agf, Carte di Paolo Guicciardini, CCXIII, ins. 3, Gino Incontri a Paolo Guicciardini, Firenze 
25 marzo 1919. Montanelli era il consigliere provinciale eletto per il mandamento di Fucecchio; Dod- 
doli un ricco commerciante locale; Egisto Elmi, come abbiamo visto, era il sindaco di San Miniato; 
Carlo Alberto Conti era stato il consigliere provinciale per il mandamento di San Miniato dal 1907, cfr. 
Merendoni 1996. 


577 


Roberto Boldrini 





L'8 maggio seguente l'assemblea degli elettori costituzionali riunita ad Empoli 


deliberò 


di mettersi immediatamente in rapporto cogli elettori di San Miniato perché, 
nell’interesse del Partito, generosamente consentano allo stesso on. Marchese In- 
contri di optare per il collegio di Empoli iniziando così una nuova collaborazione 
politico-sociale dei due collegi limitrofi, i cui problemi sono intimamente con- 
nessi!, 


I liberali delle due città, ragionando ancora nei termini di un collegio unino- 
minale che non esisteva ormai più, e cercando di assicurarsi un candidato credi- 
bile, ricorsero dunque a Incontri e, «nel rispetto della vecchia articolazione ter- 
ritoriale ormai soppressa», lo portarono all'assemblea plenaria delle associazioni 
costituzionali della provincia di Firenze per ufficializzarlo'. Alcuni dei notabili 
fedeli a Guicciardini sollevarono dubbi sulla doppia designazione poiché avreb- 
bero gradito una candidatura del figlio Paolo, che n portato in dote allo 
schieramento liberale una vasta rete di relazioni nell’associazionismo agraria!”. 

Lo stesso Incontri preferiva la candidatura empolese e sollecitò Paolo Guic- 
ciardini a candidarsi e ad appoggiare la sua candidatura ad Empoli!. Entrambi 
avrebbero trovato posto nella lista liberale plurinominale ma entrambi stavano 
perdendo tempo prezioso in strategie vertenti sul collegio uninominale e alla fine 
non avrebbero conquistato il posto in Parlamento. Così frammentato e privo 
di coordinamento il campo liberal-costituzionale era in affanno. La tutela dei 
comuni interessi spinse invece i proprietari terrieri a coalizzarsi, formando l’As- 
sociazione agraria circondariale per fronteggiare le richieste dei coloni e delle 
altre categorie di lavoratori organizzati!°. Se è lecito considerare genericamente 
come liberali costituzionali i proprietari terrieri, si può affermare che questa fu 
l’unica forma di organizzazione di una qualche consistenza che seppero darsi 
nelle campagne al di là di una generica solidarietà tra membri della stessa casta. 





12 


Cfr. Sagrestani 2002, p. 177. Anche i socialisti ne parlarono sul loro periodico, cfr. «VN», 18 
maggio 1919, La proclamazione dell'on. Gino Incontri a candidato politico del Collegio di Empoli. 

15. Cfr. Ivi, p. 178. Drastica la conclusione dell’autore: «Il fatto, in parallelo all'improvviso ab- 
bandono della vita politica di Sidney Sonnino, cui i costituzionali avevano guardato come autorevole 
capolista, provocava la disintegrazione del cosiddetto partito liberale, lacerato da una duplice scissione: 
da un lato rivalità personali portavano alla nascita di una lista guidata dall’ex deputato di Borgo San 
Lorenzo, Gerini; dall’altro si costituiva il Blocco democratico, ovvero l'unione di frange progressiste, di 
radicali e di combattenti». 

Cfr. Agf, Carte di Paolo Guicciardini, CCXIII, ins. 3, Guido Maccianti a Paolo Guicciardini, 
Certaldo 7 marzo 1919. Secondo il mittente Incontri cercava soltanto «L’accaparramento degli elettori 
di S. Miniato quando il corpo del compianto di lei genitore giaceva ancora nel palazzo sul feretro della 
morte». Paolo Guicciardini faceva parte della Società degli agricoltori italiani e del Comizio agrario. 

55 Ivi, Gino incontri a Paolo Guicciardini, Firenze «sabato» senza ulteriore indicazione: «E scusa la 
mia franchezza: tu hai il dovere di mettere fuori la tua persona al servizio del collegio [di San Miniato] 
ed anche mio». Per il programma elettorale di Guicciardini cfr. Ficini 1998, p. 96. 


‘6 Cfr.ivi, p. 47. 


578 


Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 





Nel campo cattolico 

Ben più ampie le possibilità di mobilitazione dei cattolici, profondamente 
radicati grazie alla rete parrocchiale, che assicurava un indubbio substrato di po- 
tenziale consenso al neonato Partito popolare italiano (Ppi). Il vescovo Carlo 
Falcini, ordinario della diocesi di San Miniato, nel 1913 aveva sovrinteso con 
sguardo discreto alla mobilitazione dei parroci in favore del voto a Francesco 
Guicciardini!” e durante la guerra aveva promulgato lettere pastorali con cui in- 
vitava a pregare per la pace. Nel 1919 indisse un sinodo per i giorni 17, 18 e 19 
settembre!, prendendo l'iniziativa un po’ dopo rispetto al laicato cattolico che 
disponeva fin da prima della guerra di una forte organizzazione che comprendeva 
anche l’empolese, la «Federazione interdiocesana “i Valdarno inferiore». Proprio 
quest'ultima il 17 gennaio 1915 aveva organizzato a San Miniato Basso il conve- 
gno «per la buona stampa» con la presenza del conte Giovanni Grosoli, grande 
promotore della stampa cattolica, del vescovo Falcini e di numerosi sodalizi cat- 
tolici tra cui il Circolo democratico-cristiano di Santa Croce, il Circolo cattolico 
di Isola, il Circolo «Silvio Pellico» di Corazzano, il Circolo «Religione e Patria» 
di San Donato, i circoli cattolici di San Miniato, Isola, La Scala e Fucecchio!?. 
Nel dopoguerra la «Federazione» si dotò di un organo di stampa, «La Vedetta», 
sul quale ci soffermeremo nelle prossime pagine, che iniziò le pubblicazioni a 
San Miniato nello stesso periodo in cui sorse, con una certa precocità, la sezione 
locale del Ppi?° e a ridosso del primo congresso provinciale del Partito?!. 





17 Cfr. Boldrini 2010, anche per la bibliografia precedente sugli accordi con le curie diocesane 
per la mobilitazione del voto cattolico. Dopo la rotta di Caporetto il vescovo aveva dimostrato il mu- 
tato clima nei rapporti con le istituzioni liberali e monarchiche ordinando alle parrocchie di ospitare i 
profughi, cfr. Adsm, 45, Periodo bellico 1915-1918. Miscellanea, con i telegrammi di incitamento del 
Procuratore generale della Corte d’appello di Lucca della prima metà del 1918 a dispiegare attività di 
propaganda presso le popolazioni. Sull’incontro tra intransigentismo cattolico e la modernità nazionale, 
sulla «nazionalizzazione del culto», favorita dallo sforzo bellico, cfr. anche, per la bibliografia generale, 
Caponi 2019, pp. 79-102. 

18. Per gli atti del sinodo cfr. Adsm, 53, Carteggio 1908-1948, £. «17-18-19 settembre 1919. Sino- 
do diocesano». 

19° Cfr. «CT», 18 gennaio 1915, Imponente convegno per la buona stampa. L'eco del convegno fu 
vasto anche sugli altri periodici cattolici della provincia di Firenze e della Toscana intera. La Federazione 
era sorta nel 1911, come si ricava da «La Vedetta», 1 giugno 1919, Incamminandoci passo a passo. Sulla 
stampa cattolica del periodo cfr. Giovannini 2001. 

20. Del 20 marzo è infatti la richiesta del segretario della sezione del Partito popolare, Raffaello 
Taviani, per un locale in cui tenere l'adunanza, cfr. Ascsm, Postunitario, 119, Carteggio 1919, fasc. 
«Sciopero dei contadini». 

21 Trale località dell'ex collegio politico di San Miniato solo Castelfranco aveva partecipato con 
un rappresentante. Cfr. «LL», 11 maggio 1919, Il / convegno provinciale. La nascita della sezione di 
Castelfranco fu registrata anche ivi, 1 giugno 1919, Castelfranco. Per il partito. Segretario fu Augusto 
Ceccarini, presidente del circolo «Religione e patria». Per la nascita della sezione di Santa Croce sullAr- 
no cfr. ivi, 17 agosto 1919, Da S. Croce e Ficini 1998, p. 90. La sezione empolese sorse in settembre, 
cfr. «LV», 14 settembre 1919, La grande affermazione del PPI a Empoli; quella fucecchiese a ridosso delle 
elezioni nell'ottobre 1919, cfr. Casali 2005, p. 105. Nello stesso numero del periodico la cronaca del 
secondo congresso provinciale, dove furono rappresentate 42 sezioni. 


579 


Roberto Boldrini 





Nel campo socialista 

Il Partito socialista, che nei cinque anni del conflitto aveva tenuto fede al mot- 

to «né aderire né sabotare», era vieppiù egemonizzato dalla corrente massimalista, 
il cui programma di stampo -..... metteva al centro la smobilitazione, 
l’amnistia, lo sciopero generale per la conquista del potere e la dittatura del pro- 
letariato??. A livello locale, l’organizzazione del Psi era piuttosto debole, nono- 
stante la vicinanza del territorio sanminiatese all’empolese e alla bassa Valdelsa, 
dove invece il radicamento del partito era più esteso?3. In effetti l’ultima inizia- 
tiva prossima a San Miniato che ebbe per protagonisti i socialisti nel periodo di 
uerra, prima che il silenzio imposto della censura calasse sul dibattito politico, 

u il convegno collegiale del 4 giugno 1916 nella vicina Empoli?*. Shane sui 

socialisti non gravasse il fardello di una tradizione politica come quella del no- 
tabilato, essi pure si mossero con difficoltà in un ambiente così modificato dalla 
guerra. Cercando di trovare una propria strategia per il dopoguerra, mettendo 
da parte le timidezze imposte dal duro regime censorio del periodo bellico per 
affermare la propria presenza sul territorio, i socialisti cercarono di rinnovare la 
propria organizzazione attraverso un congresso di livello collegiale, dimostrando 
di essere legati, come i liberali, ad una articolazione organizzativa ancora basata 
sul collegio uninominale. Il congresso fu convocato per domenica 2 febbraio a 
Montecalvoli??, alla presenza del viareggino Luigi Glass candidato sconfitto 
nel 1913 da Guicciardini. Nei locali della cooperativa della frazione di Santa 
Maria a Monte furono convocate le organizzazioni politiche ed economiche del 
collegio di San Miniato. Parteciparono i circoli giovanili socialisti di Montecal- 
voli, Santa Croce, Fucecchio, Ponte a Egola, le associazioni di militanti di Fucec- 
chio e Santa Croce, le cooperative di lavoro di Montecalvoli, Ponte a Cappiano, 


22 Cfr. le fammeggianti frasi dell'ordine del giorno diffuso dalla Direzione del partito in occasio- 


ne del Primo maggio, «LD», 21 giugno 1919, Proletari! L'azione è imminente: fate che sia decisiva! 

23. Cfr. Caciagli 1990 e Carrai 2002. 

2 Cfr. «LD», 20 maggio 1916. Questo l'ordine del giorno: «Operato del nostro deputato, on. 
Giulio Masini, durante la legislatura in corso (relatore Giulio Masini); Convegno di Zimmerwald, Ber- 
na e movimento internazionale (relatore Costantino Lazzari); Lega dei comuni socialisti (relatore Luigi 
Marioli); Caro viveri (relatore Paolo Caciagli)». 

5. Cfr. «LD», 2 febbraio 1919, Montecalvoli: congresso delle organizzazioni politiche e economiche 
del collegio di S. Miniato. Montecalvoli è una frazione del comune di Santa Maria a Monte, a cui fu ag- 
gregata nel 1868. Aveva una forte presenza socialista e una Lega operaia aderente alla Camera del lavoro 
di Empoli. L'origine di questa forte presenza è probabilmente da ricercare nelle lotte sindacali legate ai 
lavori sul Canale Usciana in cui, fin da prima della guerra, erano impiegati centinaia di terrazieri locali, 
cfr. Marchetti 2018, pp. 107-109. «VE», 8 febbraio 1919, Montecalvoli. Convegno collegiale, da cui si 
citerà. Scusarono la loro assenza mandando l'adesione la sezione socialista, il Circolo giovanile socialista 
e la Lega mutilati di Montaione. 

26. Su questa importante figura rinvio a Fogliari 1981. Al congresso socialista del 1918 la mozione 
di Salvatori ottenne la maggioranza e le sezioni della zona empolese-Valdarno si schierarono tutte con 
lui. Il rapporto di Salvatori con il medio Valdarno, dopo la sconfitta del 1913, continuò nel dopoguerra, 
come dimostra una corrispondenza sul Primo maggio 1919, nella quale l'avvocato così commentò le 
denunce subite a causa della sua oratoria: «Avrei violato a S. Croce la mattina del Primo maggio mezzo 
codice penale, a Fucecchio nel pomeriggio l’altra metà per aver detto che in caso di nuova guerra il 
proletariato dovrebbe rifiutarsi alle armi», cfr. «VE», 25 maggio 1919, S. Croce sull'Arno. Echi del Primo 
maggio. Questo periodico era stato fondato proprio da Salvatori. Su Santa Croce cfr. Bartoloni 1995. 


580 


Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 





San Sebastiano, Santa Maria a Monte, la Lega mattonai delle Capanne, le leghe 
raffinatori e conciatori pellami di Santa Croce e Ponte a Egola, il Circolo di studi 
sociali di Castelfranco di Sotto”7. Il congresso riaffermò la solidarietà all’agitazio- 
ne del Consorzio delle cooperativa di lavoro?* e la richiesta della ripresa dei lavori 
al Canale Usciana, sospesi per gli eventi bellici. Nell'occasione fu programmato 
un comizio a Santa Croce per 123 febbraio seguente e furono votati due ordini 
del giorno concorrenti per giungere alla scelta del candidato politico in vista delle 
elezioni. Il primo ordine del giorno chiedeva che la designazione del candidato 
fosse fatta dalle sezioni, il secondo affidava la scelta alla Direzione del partito. Sal- 
vatori espose il programma massimalista e ottenne la maggioranza dei voti sulla 
base di un ordine del giorno a favore dell’immediata ‘mobilitazione dell’esercito, 
dell’amnistia, del «diritto delle libertà fondamentali della vita civile» e del ritiro 
delle truppe italiane dalla Russia. Il congresso si concluse in un clima eccitato, 
riaffermando «le concezioni massime del partito per la espropriazione dei mezzi 
di produzione e di scambio e per la dittatura del proletariato». L'iniziativa di San- 
ta Croce si concluse con un ordine del giorno a nome del «Popolo del Collegio 
di San Miniato» che ricalcava quello proposto da Salvatori a Montecalvoli??; a 
ulteriore dimostrazione che nel Valdarno il dibattito sul proporzionale non era 
ancora i 


Il risveglio di San Miniato attraverso la stampa 

Nella prima metà del 1919 nacquero a San Miniato quattro periodici di di- 
verso orientamento: «La Rocca. Periodico quindicinale»3°, «La Vedetta. Organo 
della Federazione Interdiocesana del Val d'Arno Inferiore»5!, «La Riscossa. Gior- 
nale dinamico-letterario-umoristico»’, anch'essi quindicinali, e infine «La Tra- 


2 Cfr. «LD», 2 febbraio 1919, Montecalvoli: congresso delle organizzazioni politiche e economiche 


del collegio di S. Miniato. 

28. Il Consorzio era sorto poco prima dello scoppio della Prima guerra mondiale attorno al grande 
cantiere per la sistemazione del Canale Usciana, attorno al quale era sorta un’ampia discussione tra le 
organizzazioni di ispirazione socialista, cfr. Casali 2005, pp. 90-92. 

2 Cfr. «LD», 8 marzo 1919, S. Croce sull’Arno. Grandiosa manifestazione socialista. L'iniziativa era 
stata organizzata dalle varie articolazioni del Psi: sezione socialista, circolo giovanile, circolo infantile, 
sezione femminile; vi presero parte il Circolo giovanile di Fucecchio, la Sezione proletaria mutilati e 
invalidi di guerra di S. Croce, la locale Lega pellettieri e la Lega conciatori di Ponte a Egola. Salvatori, 
impossibilitato a tenere il comizio, fu sostituito dall’anarchico Pasquale Binazzi. L'ordine del giorno 
chiedeva restaurazione delle libertà civili, l’amnistia, l'abolizione della censura, il disarmo, l’autodeter- 
minazione dei popoli, il ritiro delle truppe mosse contro la Russia rivoluzionaria, la giornata di 8 ore, le 
opere pubbliche date in appalto ai lavoratori associati in cooperativa. 

30 Uscì per 14 numeri, dal 16 marzo al 20 settembre 1919, quando i direttori, Ermanno Taviani 
e Ferrante Pellicini, furono richiamati alle armi e affidarono la direzione a Carlo Valentini ma il giornale 
non fu più pubblicato. Per i primi 6 numeri il gerente responsabile fu Luigi Becherucci cui successe 
Carlo Valentini. Di entrambi non abbiamo reperito notizie biografiche. 

31. Il primo numero, stampato come i seguenti dalla tipografia di Carlo Taviani, uscì il 18 maggio 
1919. Direzione e amministrazione erano a San Miniato. Gerente responsabile fu Luigi Degl’'Innocenti. 
Della rivista si è occupato, da un punto di vista circoscritto, Conforti 2013. 

3... Uscì per nove numeri, dal 6 aprile al 16 novembre 1919. Stampato a Empoli dalla tipografia 
Lambruschini e con direzione e amministrazione a Firenze. Sugli ultimi due numeri appare come ge- 
rente responsabile Pietro Gramigni. Per i primi due numeri i direttori furono Giorgio Giorgi e Cesare 


581 


Roberto Boldrini 





montana», con il sottotitolo «Tira quando gli pare e piace»5. Vediamone più in 
dettaglio gli orientamenti, con la consapevolezza che questo fermento editoriale 
era evidentemente anche una forma di reazione rispetto alla percezione di una 
crisi che stava scuotendo il prestigio del capoluogo. L'impegno della redazione 
de «La Rocca», fondata da giovani quasi tutti sui venti anni, alcuni dei quali con 
esperienza militare nel duo da poco terminato?*, si orientò agli «interessi» del 
capoluogo, in particolare alla sua «rinascita», come emerse fin Lido del 
primo numero del 16 marzo 1919: 


A noi, o giovani! Aria e luce! Libero campo alle battaglie per il vero! Fede nei 
grandi ideali della Patria e dell'Umanità! C'è da combattere ancora, c'è ancora da 
amare! Ed è “La Rocca”, il frutto d’un tentativo giovanile e d’un amore sincero. 
Cessata la guerra delle armi ed incominciando le nuove e nobili battaglie della 
civiltà destinate a consacrare in una grande apoteosi d’opere il sangue che per 
essa fu sparso, abbiamo creduto esser giunto il momento di fornire a San Mi- 
niato un giornale: necessità indiscutibile, deficienza non più oltre scusabile per 
un paese che voglia rinascere insieme alla rinascenza nazionale. “La Rocca” non 
sarà un organo settario e nemmeno di partito, quantunque il periodo che attra- 
versiamo ricco di eventi politici possa farlo supporre, bensì, oltre ad essere una 
degna palestra per una sana ginnastica intellettuale, dovrà essenzialmente curare 
gli interessi da troppo trascurati della nostra città e promuoverne l’immancabile 
risorgimento. Entusiasti e decisi, ma in pochi per ora per il completo svolgimento 
dell’arduo compito che ci siamo prefissi, con fede e con speranza contiamo nella 
collaborazione, nel sostegno e nella fiducia del sano popolo samminiatese e ci 
auguriamo anche di raccogliere sotto la nostra bandiera i non pochi indifferenti, 
affinché tutti insieme, in armonia di pensiero e d’opere, possiamo dedicare la linfa 
più viva delle nostra forze all’utilità e al bene di San Miniato. 


Le questioni principali verso cui si orientò il giornale furono l'assenza dell’i- 
struzione superiore in una città capoluogo di Circondario” e il problema delle 
comunicazioni, con la richiesta di linee automobilistiche per gli altri centri del Cir- 
condario?°. «La Rocca» sottolineò l'inadeguatezza dell’Amministrazione comunale 





Volpini. Negli altri numeri non è indicato un direttore. 

33. Uscì per cinque numeri, stampati dal tipografo Taviani, dal 3 agosto al 21 settembre 1919. 
Gerente responsabile fu Enrico Fiorini. 

3 Peri nomi dei fondatori cfr. «LaR», 13 aprile 1919: Angiolo Baccetti, Mario Banti (che dal n. 2 
al n.9 comparve come capo redattore), Ariberto Braschi, Lionello Benvenuti, Giulio Delli, Elmo Elmi, 
Cesare Franchini, Cosimo Gazzarrini, Giulio Giani, Aurelio Giglioli, Gino Giunti, Francesco Lami, 
Michele Morelli, Sabatino Novi ed i già citati Pellicini e Taviani. Su di loro (eccetto Elmi, Franchini, 
Gazzarrini, Morelli) cfr. alcuni cenni biografici in Boldrini 2001, 44 vocem 

8 «LaR», 16 marzo 1919, Provvedere, a firma di Ferrante Pellicini. Sul problema della scuola cfr. 
anche ivi, 30 marzo 1919, A//a riscossa: «Le Scuole Tecniche non sono ancora pareggiate, anzi, incurate, 
il Ginnasio lasciato nell’abbandono, in balia altrui, come se non esistesse». Ancora, ivi, 27 aprile 1919, 
Scuole...Scuole...Scuole, firmato da Pellicini, che auspicò la trasformazione del Regio Conservatorio di 
Santa Chiaria in Liceo-ginnasio e Scuola tecnica pareggiata, per sottrarle, con la statalizzazione, ad una 
gestione comunale troppo dipendente da bilanci variabili e insufficienti. In seguito «La Rocca» si orien- 
tò alla richiesta del pareggiamento della Scuola tecnica «almeno per ora», dato che nel corso della guerra 
il Comune aveva affidato la gestione delle classi ginnasiali (che non consentivano il conseguimento della 
licenza) al Seminario, cfr. ivi, 24 agosto 1919, Le mostre scuole secondarie. 

36. Cfr. ivi, 4 maggio 1919, Per un servizio automobilistico circondariale edizione straordinaria dif- 


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Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 





a mettere in campo un'azione efficace a tutela del capoluogo e soprattutto accusò 
il «Partito di campagna», che aveva la maggioranza fin dalle elezioni del 19149. Il 
giornale si dichiarò apartititico ma non perse occasione per esprimere il sentimen- 
to nazionalista criticando la presenza in Italia del presidente americano Wilson, 
contrario alle aspirazioni italiane su Fiume e la Dalmazia?. L'altro fronte su cui si 
schierò nettamente fu dunque la valorizzazione dei frutti della Vittoria, costata il 
sangue di centinaia di migliaia di giovani vite. «La Rocca» mostrò sempre un'equili- 
brata attenzione alla vita associativa, si trattasse della cooperativa sorta per supplire 
alle insufficienze dell’Ente autonomo di consumo riguardo all'aumento dei prezzi 
dei generi di prima necessità”, oppure dei cambiamenti di organigramma di so- 
dalizi già esistenti‘ o anche della celebrazione del Primo maggio come fattore di 
coesione nazionale“'. Registrò tuttavia con qualche sfumatura anticlericale le prime 
mosse del movimento politico di ispirazione cattolica dando notizia di «un’adunan- 
za preliminare per la costituzione della sezione del Partito Popolare Italiano», alla 
presenza di «tutti i rappresentanti delle associazioni cattoliche del Comune» e di un 
«propagandista» che illustrò il programma del partito”. L'impronta giovanilistica 
del periodico proseguì nel secondo numero con un articolo di Giulio Giani dal 
significativo titolo «Alla riscossa»‘. La distanza dal Ppi si registrò anche rispetto 





fusa gratuitamente. Sui progressi del progetto cfr. ivi, 6, 25 maggio 1919, Uno dei vitali problemi risolti. 
Il servizio automobilistico in via di attuazione. In seguito altri articoli furono dedicati al tema. 

87. Ivi, 11 maggio 1919, Amministrazione comunale. Si ricordò che il Consiglio comunale negli anni 
di guerra era stato convocato pochissime volte. Le critiche non risparmiarono tuttavia la minoranza. 

38. Ivi, 13 luglio 1919, Finalmente se n'è andato: «Che Istria, che Dalmazia! Il trattato di Londra 
[contenente le promesse fatte dagli Alleati all'Italia per convincerla nel 1915 a entrare in guerra] non 
era che un pezzo di carta, perché Wilson non l’aveva firmato. Gl'italiani si fermeranno a Trieste e Pola 
(...) L'auto decisione dei popoli? Va benissimo; è uno dei 14 punti; ma non è mica da applicarsi per i 
fiumani». Sull’argomento mi limito a rinviare a Candeloro 1984, pp. 241-257. 

9. Sui quali cfr. il duro articolo di Ermanno Taviani, Usque tandem..., ivi, 21 giugno 1919; cfr. 
anche ivi, 13 luglio 1919, Un metodo occorre, una sintesi occorre, dello stesso autore. In effetti, nel corso 
della guerra, l’Ente autonomo di consumo assunse una posizione di rilievo nella gerarchia dei poteri 
locali e fu al centro di polemiche, cfr. Ascsm, Defiberazioni del Consiglio comunale, 8 marzo 1915-25 
marzo 1921, n. 30, 13 dicembre 1919, «Comunicazioni del sindaco», sulle proteste per la mancata 
iscrizione all'ordine del giorno della nomina di una Commissione d'inchiesta. 

40 Ivi, 11 maggio 1919, Riorganizzarsil, dedicato all'attività della Misericordia e della Pubblica 
assistenza. 

4! Ivi, 27 aprile 1919, Primo maggio: «come lo deve festeggiare un popolo civile, e la serietà nostra 
dimostri che se l’Italia è fatta son fatti anche gl’italiani» 

4 Ivi, Partito popolare italiano, 16 marzo 1919: «Fu formata una Commissione Provvisoria di 
propaganda costituita dai Sigg. Ubaldini conte Federigo, Biagioni rag. Cesare, Paoli Lodovico, Mariani 
Emilio, Telleschi Paolo, Strozzalupi Emilio, Pucci Donato, Valori Luigi, Cecconi Stefano, Cheti Bal- 
dassarre, Quagli Angiolo, Cecchi Ferruccio, Stefanini Stefano, Salvadori Cesare, Brogi Serafino, Volpini 
Pio, Pancanti Valentino e Taviani Raffaello». Cita l'articolo anche Parentini 2018, p. 290. L'attenzione 
al Ppi continuò con la cronaca della conferenza di Gisberto Giannoni (responsabile della Federazione 
interdiocesana del Valdarno inferiore), che ebbe luogo il 6 aprile: «Il teatro era pieno di contadini e si 
notava qua e là nei palchetti anche qualche ecclesiastico». Giannoni prese le distanze dai liberali e dai 
socialisti, soffermandosi sulle necessità del mondo contadino e negando che il Ppi fosse un sodalizio 
clericale, invocando piuttosto il binomio «religione e patria», Ivi, 13 aprile 1919, Conferenza. 

4. Ivi, 30 marzo 1919, Alla riscossa: «Manca ad essa [San Miniato] una scuola, una palestra dove 
i giovani agguerriscano le loro anime alle lotte del pensiero!». 


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Roberto Boldrini 





alla legge elettorale, su cui il giornale non prese una posizione definita‘ se non in 
prossimità delle elezioni, esprimendo la contrarietà allo scrutinio di lista con rap- 
presentanza proporzionale, favorito invece dal partito di don Sturzo: 


Il metodo che in Italia fu adottato dal 1882 al 1891 lo riprendiamo così oggi 
perfezionandolo con l’aggiunta della rappresentanza delle minoranza caldeggiata 
da quasi tutti i partiti. Questa riforma a noi sembra più conservatrice che demo- 
cratica, perché mira a migliorare l’istituto parlamentare più che a trasformarlo in 
senso democratico”. 


Con un certo equilibrio fu anche data la notizia del primo sciopero di cui 
«La Rocca» si occupò: quello dei maestri elementari, attuato dall’ 11 Ni 20 giugno 
1919, mentrelosguardofupocoorientatoverso ilmalesseredelle campagne, oggetto 
invece, comevedremo, delle attenzioni de «La Vedetta», braccio giornalistico del Ppi. 
Lo «Scioperissimo» del 20-21 luglio fu invece duramente stigmatizzato‘”, tuttavia 
il giornale ospitò una lettera del socialista Paolo Brunelli, in risposta all’accusa di 
essere stato «il capo dell’agitazione del caro-viveri nel Comune di San Miniato»"8. 
L'accusa era venuta da «La Riscossa», giornale nato nel frattempo e con un pi- 
glio assai più polemico fin dall'adozione del motto «Marciare e non marcire» e 
dall’appello all’arditismo, espresso nell’editoriale del primo numero, come serba- 
toio morale per la rinascita della città, obiettivo quest'ultimo condiviso con «La 





4. Fu solo pubblicata una lettera del padre Mariano Sardi, che ascrisse a merito del Ppi l'aver 


trasferito la discussione sulla modifica della legislazione elettorale in senso proporzionale da «associazio- 
ni di studio» in mezzo alle folle, facendolo diventare «un problema vivo e sentito fino dal nostro non 
sensibilissimo parlamento», cfr. ivi, 27 aprile 1919. 

5. Ivi, 7 settembre 1919, Riforma elettorale, con una analisi tecnica dello svolgimento del voto e 
della ripartizione dei suffragi. 

4 Cfr. ivi, 21 giugno 1919, // primo sciopero sanminiatese. 

Ivi, 27 luglio 1919, 21 luglio... e ivi, Le giornate rosse, con ironia: «Le nostre guardie comunali 
s'armarono fino ai denti e rimasero per due giorni consecutivi di fazione dinanzi al Municipio, pronte a 
respingere ogni attacco da parte dei pontaegolesi e empolesi, che però, guardati a vista da mitragliatrici 
piazzate sopra alcune automobili, non si mossero». Cfr. anche ivi, Gli scioperanti e gli imboscati: «E per- 
ché lo scioperissimo non è riuscito? Perché questi falsi cavalieri del popolo si sono ritirati in buon ordine? 
La ragione è chiara, la risposta è puerile. La vera massa nazionale, quella che ha ben meritato (sic) ed 
apprezzato il sangue dei propri fratelli sparso sulle terre finalmente nostre, si è opposta, si è messa in 
piede di guerra, ed insieme all'esercito, fiore sempre fresco di disciplina e di cosciente fedeltà, ha deciso 
di salvare l'onore, la grandezza e il benessere economico e sociale della nazione». Sullo «scioperissimo» 
cfr. Bianchi 2006, capp. 8 e 9 con un punto di vista ampliato alle agitazioni in tutto il Paese. 

48. Ivi, 10 agosto 1919, Cara Rocca: «A questa agitazione aderì pure la cittadinanza sanminiatese, 
poiché nella Commissione vi erano anche degni rappresentanti della città che furono con noi concordi 
sia nello stipulare il calmiere sia nelle discussioni in genere. Bisognava comprendere che l'agitazione 
doveva arrecare maggior profitto alla maggioranza cittadina che è composta di impiegati, preti e frati, 
tutta degna gente, ma non organizzata e quindi meno in grado dei famosi rivoluzionari pontaegolesi di 
combattere la dura lotta del caro-viveri». 

4. «LR», 6 aprile 1919, articolo di fondo A noi/, firmato «La direzione»: «Samminiatesi di buona 
volontà, A NOI! Il grido terribile degli Arditi sia il nostro! Tutti intorno a questo programma! Program- 
ma chiaro e semplice: liberare S. Miniato da quei vecchi e nuovi parassiti che hanno ridotto la nostra 
città in uno stato così miserando, sanarlo di (sic) tutte le sue ferite e trascinarlo con l'energia e con la 
forza verso un destino più grande, verso un progresso che gli dia novella vita e novella potenza! L'ora 


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Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 





Rocca» ma con toni più netti, più polemici? e con personalismi al limite della 


diffamazione”. Gli articoli de «La Riscossa» echeggiavano gli accenti dannunzia- 
ni e futuristi diffusi da «Il Popolo d’Italia» mussoliniano, con tratti specifici come 
la ribellione giovanilistica nei confronti di un avversario oppressivo da abbattere: 


Ma pure su tanti abbandoni di vita e di energia, tre o quattro rosolacci malefici 
hanno osato sbocciare e fiorire! Ebbene, che cosa aspettiamo a calpestarli? Se nes- 
suno oserà, oseremo noi! Noi forti ed audaci, giovani e liberi. Se nessuno risponde, 
risponderemo noi! No, non li possiamo più sopportare! Ci ribelliamo apertamente! 
(...) che cosa fanno i nostri dirigenti? Cessino di dormire nell’affrescata sala comu- 
nale! Si sveglino. Vogliamo la verità, tutta la verità al popolo! È questo lo scopo per 
cui è nata La Riscossa”. 


Non tutti potevano condividere questi violenti proclami e così dopo il primo 
numero Giorgi e Volpini lasciarono la direzione’. I nomi della nuova gerenza 
non furono indicati ma i toni sopra le righe continuarono «contro i nemici di 
dentro [per] sradicare la pianta del bolscevismo che mano straniera ha cercato 
di trapiantare nel nostro bel paese». Toni polemici e venati di robusto anticle- 
ricalismo accolsero la nascita del Ppi”, percepito come un organo della gerar- 
chia e quindi lontano dai sentimenti nazionalisti e dal culto dei giovani morti 
in trincea”. Si può quindi immaginare il livello della polemica contro lo «Scio- 
perissimo» del 20-21 luglio, colpevole di arrecare una frattura nel corpo della 
Nazione”. In occasione delle elezioni il giornale si schierò apertamente, negli 
ultimi due numeri, con Edgardo Mortara della lista «Pace e lavoro», in nome 
della «alleanza agricolo-industriale» e cercando di sottrarre il candidato all’accusa 
di pescecanismo, che rischiava di travolgere la lista?8. Il giornale suggerì di votare 


della riscossa e del risorgimento è giunta!» 

5 Ivi, 8 giugno 1919, Gli Arditi de La Rocca e la loro strepitosa vittoria, a proposito del servizio 
automobilistico pubblico, ma con tono canzonatorio nei confronti del periodico concittadino. 

5! Ivi, 10 agosto 1919, Querele în vista. 

Ibidem, Operazione chirurgica. 
Ivi, 20 aprile 1919, Ringraziamento. 

% Ibidem, Pasqua di Pace. 

Ibidem, // partito dei pipi. 

5% Ivi, 11 maggio 1919, Ai martiri sanminiatesi. L'attenzione verso i giovani significò anche at- 
tenzione verso la scuola, cfr. ibidem, Scuole secondarie, dove si auspicò, in maniera provocatoria, la sop- 
pressione di tutte le scuole superiori del capoluogo per «Demolire per ricostruire su nuove e più solide 
basi»; ivi, 8 giugno 1919, Scuole secondarie, firmato «La Direzione», ancora su un tono nichilista; ivi, 3 
agosto 1919, S. Miniato. In quei mesi l’Amministrazione comunale stipulò dei mutui per la costruzione 
di nuovi edifici scolastici, cfr. Ascsm, Deliberazioni del Consiglio comunale dall'8 marzo 1915 al 25 marzo 
1921, n. 13, 26 aprile 1919, «Mutuo a pareggio del bilancio 1919»; n. 26, 10 maggio 1919, «Fabbricato 
scolastico a Roffia»; n. 27, «Fabbricato scolastico a Ponte a Elsa»; e, più tardi, n. 35, 13 dicembre 1919, 
«Fabbricato scolastico di Ponte a Egola» 

57. Ivi, 3 agosto 1919, La Repubblica di Pinocchio a S. Miniato, con l'attacco a Brunelli cui si è 
accennato. 

98. «LR», 13 novembre 1919, Pace e lavoro, firmato «La direzione» e Sarebbe tempo di finirla (a 
proposito di pescecanismo). In questo numero compare per la prima volta il nome di Gramigni come ge- 
rente responsabile. Probabilmente il candidato Mortara diventò finanziatore della testata, il cui ultimo 
numero, il 9, risale al 16 novembre, funzionale ad un ultimo scampolo di propaganda in occasione delle 


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Roberto Boldrini 





3 nomi della lista di 6 che fu proposta e sconsigliò il voto aggiunto perché «Non è 
possibile dare contemporaneamente voti preferenziali e aggiunti nella medesima 
scheda»? pena nullità. 

Anche «La Tramontana», cercò di assumere un tono ironico-polemico-scan- 
zonato, per dir così. Accusò «La Rocca» di aver perso quasi subito l'impulso in- 
ziale°° ma soprattutto polemizzò con «La Riscossa»® e del resto, nell’editoriale 
dell’ultimo numero, dichiarò proprio che era nata «col ‘proposito di abbattere 
la RISCOSSA e di essa, a quanto pare, non se ne parla più. Sorgemmo coll’idea 
di smascherare i rocchisti ed il presente numero ne è la prova più eloquente». 
Quindi possiamo immaginare + «La Tramontana» fosse nata per opera di per- 
sone che si ritenevano colpite dalle ironie de «La Riscossa» e che entrambe inve- 
rassero il vecchio detto latino Simwu/ stabunt simul cadent. 

Tutt'altra organizzazione e tutt'altro giornalismo quello de «La Vedetta», orga- 
no, come abbiamo visto, della Federazione interdiocesana del Valdarno inferiore 
e da inscriversi nella grande tradizione della stampa cattolica. Il primo incontro 
post bellico del forum delle associazioni cattoliche, presieduto da Gisberto Gian- 
noni, si tenne a Empoli l'11 maggio 1919, proprio nei giorni immediatamente 
successivi allo svolgimento del primo congresso provinciale fiorentino del Ppi. 
«La Vedetta», «amico dei nostri operai, dei nostri agricoltori», fu lo strumento 
che la Federazione si dette per affrontare a fianco del Ppi la battaglia delle idee 
che si prospettava‘*: 


Un nuovo periodico? Sì, un nuovo periodico per il popolo della nostra Val 
d’Arno a fine di formare la sua coscienza ai tempi nuovi, educarlo al vero senso 
di libertà e tutelare il patrimonio delle sue idee religiose mettendolo in grado di 
apprezzarne sempre meglio il valore e la decisiva influenza in tutte le manifesta- 
zioni della vita individuale, familiare e sociale. Un periodico che pure facendo 
larga parte ad un notiziario interessante e svariato, e prendendo a cuore gli in- 
teressi delle nostre popolazioni e in più largo sviluppo delle loro energie, sarà in 
prevalenza un periodico di idee espresse in modo cd e piano, alla portata del 
popolo. La famiglia, la scuola, le varie classi sociali, la legislazione sociale, la be- 
neficenza e assistenza sociale, la coscienza cristiana e tutti gli altri problemi la cui 
soluzione si impone imperiosa e secondo che formano il programma del Partito 
Popolare Italiano, saranno da noi svolti a mano a mano alla luce del cristianesimo, 
volgarizzando i principi cristiani e confutando i moderni errori. Questo il nostro 
programma, che confidiamo incontrerà il plauso di quanti riconoscono che ora 
più che mai la società civile potrà solo essere salvata dalla idea cristiana rettamente 
compresa e intensamente vissuta‘ 


elezioni del giorno stesso. 

59. Ivi, 16 novembre 1919, Come si deve votare. 

6 «LT», 3 agosto 1919, La compagine de «La Rocca». 

6! Ivi, 7 settembre 1919, A tappe. 

Ivi, 21 settembre 1919, Ai nostri 26 lettori. Un congedo con la promessa di tornare. 

6 La sezione fiorentina del Ppi era sorta il 6 aprile 1919, cfr. Ballini 1969, pp. 388-389. Per il 
dettaglio delle 31 sezioni al congresso cfr. «La Libertà», 25 maggio 1919. Il partito era intransigente 
contro le alleanze con altri partiti. 

6 «LV», 18 maggio 1919, Programma, firmato «La redazione». All’interno cfr. altri articoli dedi- 
cati al Partito popolare: // perché di un partito, firmato dal futuro deputato Guido Donati, e Rinnovare! 
firmato da C. Nazzi. 


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Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 





«La Vedetta» si mosse quindi a cavallo con la diocesi fiorentina e in particolare, a 
contatto con le vicende empolesi. Non ebbe quindi una caratterizzazione sanminia- 
tese così netta come quella degli altri giornali sucui mi sono soffermato. Tuttavia non 
disdegnò di entrare in polemica con «La Rocca» e con il suo orientamento laico. 
Sul terreno politico emerse subito la consapevolezza che l’era del collegio unino- 
minale era terminata ed era giusto adottare 


il collegio plurinominale a larga base; e perché le minoranze stesse non ab- 
biano a ar vogliamo la rappresentanza proporzionale (...) la riforma elet- 
torale urge ancora di più perché già parecchi nuovi ricchi, i numerosi pescicani 
coi milioni accumulati durante la guerra si accingono a comperare dei collegi, ad 
acquistare in blocco dei corpi elettorali a peso vivo ed al prezzo corrente‘. 


Dalle pagine del giornale emerse chiaramente anche il desiderio di una nuo- 
va classe dirigente rispetto alla quale la riforma elettorale avrebbe potuto fare 
da levatrice, spazzando via quelli che erano ritenuti i difetti del metodo uni- 
nominale maggioritario: principalmente il personalismo e la scarsa rappresen- 
tanza, cioè il notabilato incardinato sul sistema dei grandi elettori. Con la 
sezione del Ppi già operante, sorse anche il «Segretariato del popolo», primo 
passo per costituire l'Unione del Lavoro a livello circondariale, l'organo sinda- 
cale che avrebbe dovuto rappresentare il corrispettivo delle Camere del lavoro 
socialiste*8. Nei confronti dei clerico-moderati «efficacemente coadiuvati da 
certi massoni....che vanno a messa» fu espressa diffidenza. Uguale atteggia- 
mento si riversò sulla sezione dell’Associazione Nazionale Combattenti (Anc), 
dopo un'iniziale simpatia”. Il giornale polemizzò con i promotori della sezio- 
ne: un esiguo gruppo di circa 30 combattenti «su centinaia che sono nel Co- 
mune», sospettati di lavorare, in vista delle elezioni, alla formazione di una li- 
sta di orientamento anticlericale e massonico, che in realtà non emerse mai”. 
I toni polemici contro un consiglio ritenuto poco legittimo perché «autonomi- 
natosi» continuarono fin quasi alle elezioni, vertendo sul sospetto di un'ispira- 


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«LaR», 25 maggio 1919, Allerta... Vedetta! e ivi, In risposta al Signor ‘m. 
Ivi, Rinnovare. La predilezione del Ppi per il metodo proporzionale è ribadita anche in Ballini, 
1969, p. 390. 

9 Ivi, 1 giugno 1919, Problema dell'ora. La riforma elettorale nel programma del PPI. 

68 Cfr. ivi, 8 giugno 1919, // segretariato del popolo e 15 giugno 1919, Il contratto di lavoro dove 
furono auspicati, come del resto già illustrato nell’enciclica Rerum Novarum, i controlli arbitrali per ri- 
solvere le controversie di lavoro; cfr. anche ibidem, L'organizzazione dei coloni del PPI, firmato da Mario 
Augusto Martini. 

9 Ibidem, /r guardia. 

Ivi, 27 giugno 1919, Associazione Nazionale dei Combattenti. Cfr. anche Parentini 2018, p. 
233. Forse il primo segno di un'associazione riconducibile al combattentismo è però la lettera di Carlo 
Alberto Conti («il bibliotecario») del 15 marzo 1919 con la quale veniva chiesto l’uso della biblioteca 
comunale per l'adunanza dell’Associazione dei mutilati, cfr. Ascsm, Posturitario, 119, Carteggio 1919, 
fasc. «Uffici vari e corrispondenza privata». 

7" «LV», 12 ottobre 1919, Associazione combattenti? Comitato elettorale? «La Vedetta» non apprez- 
zò la costituzione diretta di un consiglio senza affrontare il passaggio di un Comitato provvisorio che 
coinvolgesse capillarmente gli ex combattenti del Comune prima di costituire la sezione Anc. 


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zione «antireligiosa»”? e sull’assenza di un programma scritto”?. L'altro bersaglio 
della battaglia politico-giornalistica de «La Vedetta» fu naturalmente il sociali- 
smo. Nei confronti dei suoi presupposti ideologici tradotti in richieste ritenute 
demagogiche, la polemica fu sempre aspra. In particolare «La Vedetta» si im- 
pegnò sul terreno organizzativo, divulgando nel territorio della Federazione le 
iniziative del balivo agrario cattolico attuate nelle campagne fiorentine 
con la nascita della Federazione interprovinciale mezzadri e piccoli affittuari 
(Federmezzadri)”f. In questo fervido clima, in giugno il segretario provinciale 
dell’associazione, Enrico Frascatani, parlò a Isola e a Sant'Angelo a Montorzo per 
invitare i coloni ad associarsi all'Unione professionale agricoltori, raccogliendo 
«moltissime adesioni»”?. 


Le organizzazioni cattoliche e le agitazioni contadine 

Il terreno per tentare di mobilitare i coloni sembrava pronto anche a San Mi- 
niato, dove E 12 luglio fu pubblicato un proclama della «Società dei lavoratori 
della terra dei comuni di Fucecchio, S. Croce, Cerreto, S. Miniato e Altopascio», 
rivolto a «tutti i lavoratori di ogni categoria chiamandoli a solidarizzare con le 
lotte che stavano per i i contadini toscani». Ma il mese di luglio fu 
ricco soprattutto di agitazioni annonarie contro il «caroviveri», che non si colle- 
garono con gli obiettivi delle organizzazioni coloniche e anzi attraverso le requisi- 
zioni, penalizzarono i mezzadri. A San Miniato la protesta contro il caroviveri fu 
canalizzata attraverso una inedita collaborazione tra Amministrazione comunale 
e rappresentanze popolari: 


In tutto il nostro comune l’agitazione contro il caro-viveri è proceduta calma 
e dignitosa grazie all’attività ed all'energia dell’egregio nostro sindaco cav. Elmi e 
di tutta Amministrazione comunale coadiuvata delle così dette ‘guardie rosse’. 
Nelle fattorie e nei magazzini sono state requisiti centinaia di quintali di vini 
generosi, olio in abbondanza, prosciutti, salami, ecc.”°. 


Come in altri centri dell’empolese e della Valdelsa, una «Commissione popo- 
lare» agì di concerto con l’Amministrazione LL regolare il commer- 
cio e soddisfare le pressanti richieste popolari. L'accenno alle «guardie rosse» senza 





7 Ivi, 19 ottobre 1919, Ex combattenti: «Il consiglio autonominatosi c'è e, con l’aiuto di quella 


trentina di amici ci resta, e farà la campagna elettorale con quell’indirizzo antireligioso che i primi pro- 
motori hanno inteso di dare alla sezione». 

7 Ivi, 26 ottobre 1919, Ziappole per gli ex combattenti, che si prestavano a costituire «uno degli 
ingredienti per la confezione di quei blocchi di marca francese [radical-massonici] e di memoria infau- 
sta». E infine ivi, 9 novembre 1919, Combattenti e massoneria: «I nostri principali nemici sono i socialisti 
e i massoni». Sull’alleanza tra combattenti, socialisti riformisti, repubblicani, radicali e la formazione del 
Blocco democratico un accenno in Ballini 1969, p. 411. 

7 Il 27 aprile era nata a Sesto Fiorentino l'Unione professionale agricoltori con 350 aderenti, 
seguita il primo giugno, sempre a Sesto, dalla costituzione della Federazione provinciale che aderì alla e 
la Federazione nazionale mezzadri e piccoli affittuari (Federmezzadri) e alla CIL. 

5 Cfr. «LL», 22 giugno 1919, S. Miniato, cfr. Bianchi 2001, p. 187. 

76. Cfr. Bianchi 2002, pp. 215-256: 228, nota 37, e pp. 230-231. Cfr. anche Ficini 1998, p. 89, 
secondo il quale la partecipazione di esponenti del Ppi locale alla Commissione fu negata dai socialisti 
che ne erano stati promotori. 


588 


Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 





alcuna valutazione, nel periodico dei liberali costituzionali empolesi, «Piccolo 
corriere del Valdarno e della Valdelsa», da cui la citazione è tratta, testimonia di 
una situazione ancora fluida, in cui le posizioni politiche non si erano ancora 
del tutto irrigidite nella contrapposizione, come emerse nei giorni precedenti le 
elezioni””, mentre l'aspirazione popolare a prezzi equi e giusti aveva un connotato 
morale largamente condiviso. 

Il 22 luglio lAssociazione agraria, che riuniva i proprietari terrieri, e la Feder- 
mezzadri iniziarono una serie di colloqui che si incrociò con le agitazioni proclama- 
te in Toscana dalle leghe rosse e dai socialisti, culminato nel pressoché fallito «Scio- 
perissimo» del 20-21 luglio. I tentativi di mobilitare le campagne si addensarono 
piuttosto nell’empolese’*, nel Montalbano e nella bassa Valdelsa. Le discussioni 
per quello che fu noto come «Patto di Firenze» terminarono il 7 agosto”?. «La Ve- 
detta» ne pubblicò il testo, auspicando che anche i proprietari locali, riuniti nella 
sottosezione dell’Associazione agraria che faceva capo al Comizio agrario, lo rece- 
pissero contro «gli incomposti dada di chi vorrebbe proletarizzare la classe dei 
mezzadri»*°, cioè i socialisti e le leghe rosse contro le quali tornò a parlare Frascata- 
ni, in un comizio a Roffia a metà mese. In realtà la direzione centrale dell’Agraria 
non ratificò l'accordo e non riconobbe come controparte la Federmezzadri che, 
insieme al Ppi, non aveva la forza per imporre l’accordo. «La Vedetta» comprese 
che il metodo del pragmatismo nella ricerca di accordi che puntassero ad avvi- 
cinare i coloni alla proprietà del fondo si doveva affiancare a una maggiore forza 
e promosse l'iscrizione alle organizzazioni sindacali legate al Ppi per rinsanguare 
un'organizzazione che veniva definita ancora «meschina»*!. La Federmezzadri mutò 


7 Cfr. Sagrestani 2002, p. 182. 

78. Il 27 luglio si tenne a Cerreto Guidi il «Convegno interprovinciale promosso dalla Cgil, dalla 
Federazione dei contadini e dalla Camera del lavoro di Firenze. A quel convegno parteciparono tutti i 
dirigenti delle più importanti leghe mezzadrili della Toscana centrale, che raccoglievano nel complesso 
circa 10.000 contadini», cfr. Carrai 2005, p. 115. 

?. Cfr. De Simone 1990, pp. 107-108: il «Patto» prevedeva tra l’altro accordo scritto obbligato- 
rio, regolare tenuta del libretto colonico, liquidazione annuale dei conti, spese per anticrittogamici divi- 
se a metà, abolizione di vari obblighi, spese di trebbiatura a carico del proprietario, opere del contadino 
a favore del proprietario pagate in misura non inferiore al 75% del salario degli operai agricoli avventizi, 
la direzione del fondo esercitata dal proprietario nel comune interesse sociale. Cfr. Baldini 1994; Ficini 
1998, pp. 49-51; «LN», 9 agosto 1919, Concordato fra l'Associazione agraria toscana e la Federazione 
provinciale mezzadri e piccoli affittuari. 

8 «LV», 17 agosto 1919, Il movimento dei coloni è principiato e, ivi, A Roffia, con la cronaca 
dell'intervento di Frascatani. Cfr. anche «LL», 17 agosto 1919, A S. Miniato. Frascatani tornò a Roffia 
per illustrare il nuovo patto colonico concordato «nei maggiori punti» con l'Associazione agraria, e 
invitò a iscriversi all'Unione coloni mezzadri di San Miniato; i presenti «nominarono una commissione 
composta di 8 membri con l’incarico di propagandare il nuovo patto e di curare l'iscrizione dei capi 
famiglia di quella importante plaga». Cfr. Ballini 1969, p. 401 e ivi, Appendice IV per il testo del Patto. 

8! Cfr. «LV», L'organizzazione dei coloni nel Comune di San Miniato e ivi, 27 luglio 1919, L'ora è 
questa: in conseguenza dei grandi scioperi del luglio, ai coloni «si imposero calmieri eccessivi, ad essi ob- 
blighi di vendita, divieti d’esportazione, requisizione di bestie, vino, grano, insomma tutta l’ingordigia 
di una massa leninista si riversò su questa rispettabile classe di onesti lavoratori che, colti all'improvviso 
in parte resistettero in parte cederono (...) Non basta essere simpatizzanti, bisogna dare la propria ade- 
sione». Cfr. anche il dialogo tra contadini usato in un'ottica didascalica ivi, n. 11, 7 settembre 1919, Fra 
Cecco e Tonio. Il 15 agosto a Firenze si era svolto il secondo Congresso provinciale Ppi che registrò 43 


sezioni, cfr. Ballini 1969, p. 398. 


589 


Roberto Boldrini 





invece strategia, cercando di realizzare accordi comunali o mandamentali sollecitati 
anche attraverso mobilitazioni e scioperi*. Forse fu la percezione di un movimen- 
to ancora debole in previsione delle elezioni a far circolare il progetto di assorbi- 
mento nel Ppi dell’associazionismo cattolico, di cui la Federazione interdiocesana 
rappresentava m24gna4 A con la quarantina di associazioni che ne facevano parte. 
«La Vedetta», che della Federazione era espressione, rifiutò il progetto attraverso la 
voce del direttore Raffaello Taviani e propose un referendum tra gli iscritti. Taviani 
non escludeva infatti la partecipazione dei circoli locali all’azione del partito ma 
intendeva preservare il carattere economico-sindacale della Federazione e avrebbe 
preferito scinderla in due: una per il territorio fiorentino e una per il pisano*. 
Questa discussione organizzativa puntava a rafforzare il Ppi facendo diventare le 
associazioni locali in pratica sezioni del partito, moltiplicando così la presenza poli- 
tica sul territorio. Non sappiamo come finì questa vicenda comunque il 12 ottobre 
il Ppi sanminiatese aprì la campagna elettorale con un comizio del futuro deputato 
Mario Augusto Martini8*. Tre giorni dopo iniziò lo sciopero colonico socialista e 
«La Vedetta» ricordò che il movimento di ispirazione cattolica preferiva la concilia- 
zione allo sciopero e che nel corso della trattativa l'imperativo era di non scioperare: 


Così anche in molti comuni del Circondario di San Miniato, dove la mancata 
opera nostra ha permesso l’infiltrazione socialista, il lavoro dei campi è stato ed è 
in procinto di essere sospeso (...) lo sciopero deve essere l'eccezione nelle compe- 
tizioni fra le classi sociali, non la regola: ed è arma che va adoperata quando siano 
esaurite tutte le altre forme di conciliazione possibili (...) conseguentemente nei 
centri dove esiste la nostra Federazione le trattative già cominciate seguono il loro 


corso e pendenti le trattative non si sciopera”. 


La rivista asserì che proprio i successi della Federmezzadri nel fiorentino, dopo 
il patto di San Casciano, avevano indotto i socialisti a proclamare rapidamente 


#2 Il più noto, per i contenuti avanzati, fu quello di San Casciano Val di Pesa, stipulato il 20 


settembre, cfr. De Simone 1990, p. 108 e p. 136. L'accordo non portò tuttavia al riconoscimento espli- 
cito della Federmezzadri ma conteneva «una clausola che prevedeva l'istituzione di una commissione 
paritetica per dirimere le controversie fra proprietari e mezzadri». Cfr. anche Ballini 1969, p. 402: «Il 
Patto di San Casciano ricalcava il concordato del 7 agosto nelle sue linee fondamentali, con un'unica, 
importante eccezione: nessun accenno veniva fatto al riconoscimento delle associazioni di agricoltori e 
dei loro rappresentanti per ogni controversia tra contadini e proprietari. La capitolazione dei mezzadri, 
che proclamando lo sciopero avevano richiesto come ‘pregiudiziale il riconoscimento completo e asso- 
luto dell’organizzazione’ appariva evidente». 

88 Ivi, 28 settembre 1919, Referendum sulla nostra Federazione e ibidem, Sì, scritto da Giuseppe 
Rosselli; ibidem, Risveglio, per la replica di Taviani; ivi, 19 ottobre 1919, Federazione interdiocesana, 
firmato M. A. 

84 Cfr. «LL», 26 ottobre 1919, Una conferenza dell'avv. Martini a San Miniato, Martini (1884- 
1961) parlò al teatro Verdi presentato da Gino Mori Taddei. Fu allievo di Giuseppe Toniolo a Pisa e 
presidente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (Fuci) tra il 1905 e il 1907. Organizzò in 
provincia di Firenze dal giugno 1919 la Federazione nazionale mezzadri e piccoli affittuari e, insieme a 
Felice Bacci, fu artefice delle trattative per la stipula dei nuovi patti colonici tra il luglio e il novembre 
1919; cfr. Dell’Anno 2005, pp. XII-XIV. Si veda anche Ballini 1988. 

8 Cfr. «LV», 19 ottobre 1919, Agitazioni agrarie. Sullo sciopero delle Leghe rosse cfr. Ballini 
1969, pp. 404-405. 


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Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 





lo sciopero prima che nuovi successi «bianchi» oscurassero l’azione dei «rossi». 
Lo sciopero promosso dai socialisti si spense tuttavia in meno di due setti- 
mane proprio mentre la Federmezzadri, alla metà di ottobre, riuscì a concordare 
un patto nel Comune di San Miniato sul modello del concordato di San Cascia- 
no*°. Con questo viatico il movimento cattolico locale si avviò alle elezioni con 
un programma chiaramente incardinato su capitoli come «la piccola proprietà 
coltivatrice», «l’istruzione agraria», «restaurazione del patrimonio zootecnico», 
«associazione e cooperazione», «patrimonio forestale», «provvedimenti sociali». 


La rincorsa dei socialisti 

Il 21 settembre i socialisti avevano tratto nuove energie dal congresso provin- 
ciale delle leghe dei contadini alla Camera del lavoro di Firenze. In quella sede fu 
esposto il progetto di riforma dei patti agrari che doveva spingere i coloni all’agi- 
tazione: Augusto Mancini rappresentò la lega di Ponte a Egola e Angelo Berton- 
cini quella di San Miniato85. La voce del socialismo e dei socialisti faceva tuttavia 
fatica a farsi sentire nel sanminiatese ed era piuttosto amplificata dal periodico 
socialista di Empoli «Vita Nuova», agguerrita voce dell’intransigentismo classi- 
sta che da poco aveva ripreso le pubblicazioni. Dalle pagine del periodico emerge 
come la presenza socialista nel sanminiatese fosse ancora connessa all’energia di 
individualità o di gruppi locali (per esempio le leghe sindacali operaie pontaego- 
lesi), il cui riferimento era la sezione empolese?°. Una di queste individualità fu 
il socialista Luigi Gensini di Corazzano. Presidente della locale Lega sterratori, 
prese parte attiva alle trattative per il concordato con i proprietari. Il 3 ottobre 
comunicò infatti all'avvocato Alfredo Corti, consigliere comunale del «Partito 
di campagna», che l’accordo era stato raggiunto A base delle 8 ore lavorative 
giornaliere alla paga di 1 lira l'ora, un accordo in generale del tutto simile a quello 
conseguito dalla Lega boscaioli di Balconevisi. Quella paga oraria costituì la base 
della trattativa secondo i dettami della Camera del Lavoro di Firenze che infatti 
il 14 ottobre seguente, sulla soglia dell’inizio dello sciopero dichiarato in tutta la 
Toscana?!, scrisse al sindaco di San Miniato chiedendo di convocare i proprietari 
delle fattorie di Castellonchio, Castelvecchio, Catena per notificare loro che la 
Lega terrazzieri di Cigoli e San Miniato aveva deliberato di non riprendere il la- 





86 Ivi, 26 ottobre 1919, Sotto la rocca. Agitazioni agrarie. 


Ibidem, // programma agrario del Partito popolare. 

88. Sagrestani 2002, p. 180 sulla base di «VN», 28 settembre 1919, // congresso provinciale dei 
contadini, 50 leghe rappresentarono per l'occasione «circa 5000 organizzati». Sagrestani cita la lega di 
Ponte a Elsa ma non quelle di Ponte a Egola e San Miniato. Ficini 1998, p. 51, le cita ma non ricorda 
quella di Ponte a Elsa. 

©. Dopo il Congresso nazionale del Psi (Bologna 5-8 ottobre), l’assemblea delle sezioni socialista 
del Circondario condivise il programma massimalista. Ne riporta la cronaca, tratta da «VN», Ficini 
1998, p. 87. Il giornale fu spesso in polemica con il Ppi, cfr. ad esempio ivi, 12 ottobre 1919, // Partito 
Popolare Italiano dove Jaurès Busoni previde per il Ppi una vita difficile nelle città, a fronte dell’appoggio 
che nelle campagne potevano dare i sacerdoti. 

9% Cfr. Carrai 2002. 

% Cfr. Ficini 1998, pp. 52-54, la Camera del lavoro di Firenze aveva inviato le proprie richieste il 
3 ottobre chiedendo ai proprietari una risposta entro il 12 che non venne. Di conseguenza fu dichiarato 
lo sciopero. 


87 


591 


Roberto Boldrini 





voro fino al riconoscimento di quel compenso”. La Lega sterratori concluse l’ac- 
cordo ma non è chiaro se lo stesso giunse alla ratifica, condividendo il destino di 
altri documenti simili su cui mi sono soffermato, magari accettati in sede locale 
ma respinti dall’Associazione agraria centrale. In effetti le leghe sorgevano rapida- 
mente e spesso senza un retroterra consistente e i loro risultati erano effimeri al di 
fuori di un coordinamento come quello che la Camera del lavoro di Firenze tentò 
di dare. E in effetti la citata Lega boscaioli di Balconevisi, la cui nascita fu annun- 
ciata in quei giorni in una corrispondenza da Corazzano scritta probabilmente 
dallo stesso Gensini, aderì alla Camera del lavoro fiorentina”. Il bersaglio delle 
corrispondenze da Corazzano sul periodico socialista fu il pievano locale, pro- 
motore di una Lega contadina nella fattoria di Barbialla sulla base di un proprio 
memoriale in concorrenza con le richieste avanzate dai socialisti’*. Nella frazione 
della Valdegola, anche il Ppi organizzò una iniziativa di propaganda”. 


La campagna elettorale e la proporzionale alla prova 

Le liste in competizione elettorale furono 5: Ppi, Psi, la Concentrazione libe- 
rale’, il Blocco democratico «ovvero l’unione di frange progressiste di radicali e 
di combattenti»? e la lista liberale dissidente «Pace e lavoro», cui ho brevemente 
accennato. Il Circondario di San Miniato in pratica riuniva i comuni dei vec- 
chi collegi uninominali di San Miniato e Empoli’, era compreso nel Collegio 
di Firenze insieme ad altri 3 Circondari: quello della città di Dante, quello di 
Pistoia e quello di Rocca San Casciano. Alla legge proporzionale fu affianca- 
to lo scrutinio di lista plurinominale, che li l’uso di liste concorrenti 
non bloccate con voti preferenziali e voto aggiunto, per contenere l’effetto della 
proporzionale e garantire margini di agibilità al notabilato, che rischiava di es- 





9. Cfr. Ascsm, Postunitario, 119, Carteggio 1919, fasc. «Sciopero dei contadini», lettera di Gensini 


a Corti, Corazzano 3 ottobre 1919 con la bozza «Convenzione fra proprietari e lega mista sterratori Co- 
razzano», firmata da Gensini; lettera della Camera del Lavoro di Firenze, Firenze 14 ottobre 1919; mi- 
nuta del verbale dell'adunanza dei proprietari, San Miniato 19 ottobre 1919. L'assemblea dei proprietari 
arrivò ad offrire 90 centesimi. Cfr. anche Ficini 1998, p. 57 che riporta le caratteristiche dell'accordo e 
sottolinea tuttavia che una questione importante come la disdetta del contratto di mezzadria non fu in 
genere regolata nei concordati locali. 

9 Cfr. «VN», 12 ottobre 1919, Corazzano-San Miniato: «non ha scopi politici ma solo economi- 
ci» Su Gensini, che nel 1920 diventò consigliere provinciale per il Psi, cfr. la breve scheda biografica in 
Boldrini 2001, 44 vocem. 

% Cfr. ivi, 19 ottobre 1919, Corazzano (San Miniato). Per il dettaglio delle richieste socialiste per 
la riforma dei patti colonici cfr. ivi, 5 ottobre 1919, Richieste per la riforma del patto colonico. 

5. Cfr. ivi, 16 novembre 1919, Corazzano (San Miniato). Falsari, in occasione di una conferenza 
del Ppi. 

9%. Sulle difficoltà con le quali si formò la lista liberale cfr. Sagrestani 2002, pp. 178-179, nota 22. 
Cfr. ivi, p. 178: «La rottura [in seno ai liberali] prefigurava — ora che non era riproducibile 
la formula clerico-moderata per la presenza di un autonomo partito dei cattolici — il collasso certo del 
soggetto detentore della leadership dall’Unità in poi». 

9%... Suddiviso in 85 sezioni comprese nei 14 comuni di San Miniato, Santa Croce sull'Arno, Ca- 
stelfranco di Sotto, Fucecchio, Montopoli, Montaione (già costituenti il collegio uninominale sanmi- 
niatese), Empoli, Castelfiorentino, Certaldo, Cerreto Guidi, Montelupo, Vinci, Capraia e Limite (già 
costituenti il collegio uninominale empolese). 


97 


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Le elezioni politiche del 1919 a San Miniato 





sere spazzato via dall’irruzione dei partiti di massa”. La scheda elettorale, di cui 
la legge prescriveva le misure e la posizione del contrassegno, si poteva ritirare 
fuori e anche dentro il seggio. All’interno di quest'ultimo l’elettore riceveva una 
busta bollata e firmata dalla sezione elettorale in cui inseriva la scheda votata. 
Le schede non erano prodotte dallo Stato, come sarebbe stato sancito nel 1923 
da una legge del governo Mussolini, bensì dalle formazioni politiche stesse che 
ne curavano la distribuzione. Anche questo avvantaggiò i nuovi partiti di mas- 
sa che, se non erano ancora radicati nel Paese in maniera omogenea, poteva- 
no contare comunque su reti di simpatizzanti più ampie rispetto alle reti del 
notabilato, articolate attraverso i «grandi elettori». Nel collegio di Firenze, che 
eleggeva 14 candidati, oltre al voto di lista si potevano dare fino a 3 preferenze 
(si poteva esprimere una preferenza se i candidati della lista fossero stati da 1 a 
5, due preferenze se i candidati fossero stati fino al numero di 10, 3 preferenze 
si candidati fossero stati fino al numero di 15 e 4 preferenze oltre tale numero). 
Se i candidati di una lista fossero stati in numero inferiore rispetto a quelli as- 
segnati al collegio!°, l’elettore aveva la possibilità di esercitare il voto aggiunto 
(panachage), cioè aggiungere nomi di candidati appartenenti ad altre liste, fino 
però al numero di tà. 

Sabato 1 novembre, a 15 giorni dal voto, San Miniato poté ascoltare diretta- 
mente la voce dei candidati socialisti Gaetano Pacchi, futuro deputato, e Giulio 
Masini mentre domenica 2 novembre per il Ppi l'avvocato Michele Badalassi 
introdusse Guido Donati e Felice Bacci!, destinati anche loro all’elezione. 

La città era nuova al confronto politico duro, ma quella campagna elettorale 
ne offrì un'anticipazione. Pochi giorni dopo in Piazza Taddei «il candidato dei 
costituzionali indipendenti, Giorgio Mangianti, non poté parlare se non dopo 
tafferugli con scambio di pugni e bastonate»!°: Mangianti, giornalista e did 
to della lista «Unione Pace e Lavoro», fu interrotto dal socialista Brunelli. L’eco 
di questo alterco causò l'ingresso nella battaglia elettorale anche dell’Associazione 
combattenti con un ordine del giorno che stigmatizzò il comportamento dei 
socialisti anche in occasione di un altro comizio di quel giorno, organizzato dagli 
stessi combattenti con Silvio Lessona, presidente della sezione fiorentina, e Ugo 
Castelnuovo Tedesco!9. Negli stessi giorni ci furono altri disordini! e i 
Gino Incontri incorse in brutte avventure, rimediando una bastonata durante 
l’attraversamento in auto di Castelfranco per essere poi assediato insieme a Guic- 





9 Per queste indicazioni generali e quelle che seguono faccio ricorso Ballini 2001. 


La lista del Ppi contava 12 candidati, la lista liberale 13, il Blocco democratico 12, il Psi 14, la 
lista «Pace e lavoro 6». Per i nomi dei candidati Ppi e liberali cfr. Ficini 1998, p. 91 e p. 95. 

101 Cfr. «LV», 4 novembre 1919, numero straordinario, Cronache elettorali. 
Cfr. Acs, Mi, Dgps, anno 1913, 94, f. «Firenze», lettera del prefetto De Fabritiis, Firenze 
6 novembre 1919. A Fucecchio Mangianti non poté prendere la parola. Il prefetto segnalò anche il 
disturbo arrecato a iniziative del Partito popolare a Montelupo e Vinci. Nello stesso giorno il prefetto 
scrisse anche di un altro comizio a Fucecchio, degenerato dopo che l'avvocato Pacchi aveva chiamato al 
contraddittorio l'avvocato Alberto Doddoli, della lista Combattenti. 

15 Cfr. «LN», 3 novembre 1919, Zafferugli elettorali a S. Miniato; ivi, 6 novembre 1919, Echi dei 
tafferugli a San Miniato e ibidem, Comizio elettorale dei combattenti. 

19 Cfr. per esempio «GI», 13 novembre 1919, / tumulti di Fucecchio. Gl'incidenti contro Meoni. 


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Roberto Boldrini 





ciardini nella sede dei Circolo costituzionale di Santa Croce!'®. Era il sintomo di 
una intensa polarizzazione ma anche dei problemi più profondi che agitavano un 
campo liberale pressoché scompaginato, prima di tutto a livello organizzativo. 
Piuttosto che tentare di rimediare a queste carenze, alcuni notabili del Circon- 
dario scelsero di fare in pubblico professione di astensionismo e di votare la lista 
liberale fidando come in passato sui rapporti personali mediati dai grandi eletto- 
ri!°°. Ma i proprietari più consapevoli erano ormai disillusi sull’efficacia del patro- 
nage system, in un dopoguerra caratterizzato dalla presenza di partiti che comin- 
ciavano a disporre di mezzi efficaci per penetrare capillarmente nelle campagne: 


La Concentrazione liberale ha trascurato in modo assai pericoloso la cam- 
pagna. Qui nel sanminiatese i sei candidati non si sono fatti quasi mai vedere, 
nessun energico propagandista nostro è stato inviato dalle nostre parti, mentre 
conferenze dei partiti sovversivi spesseggiano a S. Miniato, a Ponte a Egola e Ci- 
goli (...) Io credo che la Concentrazione liberale si faccia l'illusione di poter fare 
cieco assegnamento sui grandi proprietari e quindi sui contadini. I contadini se 
non a Castellonchio sono belli e sfuggiti di pugno ai proprietari. Almeno la Con- 
centrazione liberale ottenga dalle autorità che il giorno delle elezioni la sicurezza 
personale degli elettori sia tutelata, altrimenti in talune sezioni (soprattutto Ponte 
a Egola) ci sarà una generale astensione di coloni!”. 


Paolo Guicciardini, che sperava maggiori consensi da Firenze, curò la distri- 
buzione di 129 schede nel territorio dei due ex collegi di S. Miniato e Empoli, 
che componevano il Circondario, e anche questo dato dà la misura della scarsa 
coscienza dell’irruzione delle masse e della forza dei numeri nell’agone politico. 
Il risultato non poté che essere deludente: i «grandi elettori» non riuscirono ad 


attivarsi!8, irretiti dai nuovi metodi della propaganda e timorosi di minacciate o 





195 Cfr. «LN», 4 novembre 1919, L’orrorevole Incontri vilmente aggredito a Castelfranco di Sotto e ivi, 


9 novembre 1919, // programma dell'onorevole Incontri. Cfr. anche «VN», 9 novembre 1919, Castelfranco 
di Sotto. Sante bastonate. Riporta la corrispondenza Ficini 1998, pp. 97-98. 

106 Cfr. Agf, Carte di Paolo Guicciardini, CCXIII, ins. 3, lettera di Torquato Lami a P. Guicciardini, 
Santa Croce, 11 novembre 1919: «Ieri sera infatti fu tenuta l'assemblea [dei liberali costituzionali] e fu 
votato un odg di astensione come associazione organizzatrice, invitante però tutti a non disertare le urne 
ma di [sic] accorrervi compatti per votare una lista che non sia anticostituzionale (...) Noi con questa deli- 
berazione abbiamo voluto coprire anche il nostro stato attuale di quasi completa disorganizzazione (...) la 
lista però che privatamente noi tutti voteremo e faremo votare a chi è a nostra disposizione è senza dubbio 
quella del giglio ed a lei in particolare posso affermare che daranno il voto aggiunto anche quelli del pipì 
[sic] e i combattenti che ho potuto lavorare (...) ma il guaio è che non si trova chi faccia il rappresentante 
di lista. Si figuri che non c'è neppure riuscito trovare gli scrutatori per i seggi. Anche per i manifesti io mi 
sgomento: si figuri che non mi è stato possibile trovare qui chi mi affiggesse il manifesto della Prefettura 
con le 5 liste. A questo bel risultato siamo arrivati per la completa inerzia in cui le nostre autorità ci hanno 
lasciato e per la soddisfazione che ci danno quando subiamo qualche affronto!». 

107 Cfr. ivi, lettera di Livio Carranza a Guicciardini, Castellonchio, 10 novembre 1919. 

108 Cfr. ivi, lettera di Giulio Dal Canto a Guicciardini, Santa Maria a Monte, 27 novembre 1919: 
«Le elezioni sono andate in modo indecente e vergognoso ma tutto per colpa dei famosi grandi elettori, 
che se ne sono stati in casa e qui poi a S. Maria a Monte non si sono mossi assolutamente di casa e si 
limitarono a ordinare e spendere inutilmente (...) Le basti, Sig. Conte, che non hanno votato la nostra 
scheda neppure i contadini di casa e si capisce il perché: furono lasciati tutto il giorno del 16 per le 
bettole in mano dei socialisti». 


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reali prepotenze, nella denunciata latitanza della forza pubblica!°. Il voto aggiun- 
to fu usato in prevalenza dagli elettori del Ppi per venire in soccorso dei liberali 
sotto la regia della gerarchia ecclesiastica, nel comune intento di assicurare la 
stabilità sociale nelle campagne, prima che le forze rivoluzionarie monopolizzas- 
sero le agitazioni. In effetti questa strategia produsse dei buoni risultati a livello 
di collegio!!° ma non tali da consentire a Guicciardini e Incontri, che ebbe parole 
molto amare e disilluse!!!, di accedere al Parlamento. 

Rispetto alla legge elettorale i socialisti non furono unanimi al loro interno. 
I massimalisti, maggioritari nel Circondario di San Miniato, avrebbero voluto il 
collegio unico nazionale mentre avversavano il panachage (come dimostrano gli 
scarsissimi voti aggiunti nella loro lista) Quindi non furono contenti della nuova 
legge: «Non abbiamo potuto ottenere il collegio nazionale, né evitare il panacha- 
ge - diritto di scegliere e includere nelle proprie candidati di altre liste - (...) La 
Legge è difettosa perché permette l'aggiunta ad una lista incompleta di candidati 
di A liste ed il voto di preferenza»!!. In effetti il PSI preferì liste bloccate, con 
un numero cioè di candidati pari a quello dei deputati da eleggere. 

Nel Circondario di San Miniato gli iscritti al voto furono 48.781, i vo- 
tanti 29.908 (61,3% degli aventi diritto), registrando dunque un vasto as- 
senteismo. A livello di collegio i votanti raggiunsero il 55,9%. Nel Circonda- 
rio il Psi ebbe 17.407 voti (59%), risultando il più rosso del collegio, il Ppi 
5.103 (17,3%), la lista di Concentrazione liberale 4.537 (15,4%), il «Bloc- 
co democratico» 1.235 (4,2%) e la lista «Pace e lavoro» 1.211 (4,1%)!!. 





19 Sugli atteggiamenti violenti cfr. Vivarelli 1991, II, p. 765: questa infatuazione per la violenza 


non fu «semplicemente portato della guerra. Secondo i documenti del tempo, infatti, non si ritrova 
nei mesi immediatamente successivi alla fine delle ostilità, quando gli animi sono assai più distesi. Per 
poterne cogliere i primi non sporadici segni bisognerà attendere l'autunno del 1919». 

1!° Preferenze e voti aggiunti a livello di collegio sono riportati in Giusti 1921, p. 21. 

Ivi, Niccolò Guicciardini a Paolo Guicciardini, Montopoli, 14 novembre 1919: «Stamani 
è venuto a cercarmi il pievano e mi ha detto in confidenza che ha avuto ordine da S. Miniato di far 
votare come aggiunto alla lista del pipì [sic] o il tuo nome o quello di Mortara, però lui lavorerà per 
te. Il Mortara qui a S. Miniato lavora molto e pare che si faccia strada a forza di biglietti da mille che 
distribuisce a destra e sinistra». Incontri riportò 5.546 preferenze di cui 2.854 nel Circondario e 1.163 
voti aggiunti di cui 632 nel Circondario, facendo assai meglio di Guicciardini, col quale tuttavia si sfogò 
amaramente, cfr, ivi, lettera di Gino Incontri a Guicciardini, Gambassi, s. d., «Che dirti? Sono tranquil- 
lissimo ma nauseato. Esser battuto per poche centinaia di voti da Philipson francamente mi avvilisce. Tu 
ed io siamo stati ignobilmente traditi dal P. P. Io ho le prove che non ci hanno aggiunto mentre hanno 
largamente servito i due ebrei [Mortara e Philipson]. Guarda i voti aggiunti di Mortara a S. Miniato. 
Io rinunzio definitivamente». Cfr. anche Piretti 1995, p. 219: eccetto il Psi, gli altri partiti le liste «le 
lasciarono aperte in un gioco di scambio: per esempio i popolari coi liberali, ma i tatticismi svilivano il 
proporzionale che assicurava la rappresentanza a tutti, in teoria senza bisogno di riesumare i blocchi con 
personalità diverse all’interno». Sulla «disfatta» liberale cfr. Sagrestani 2002, pp. 186-187. 

2 «VN», 2 novembre 1919, Scrutinio di lista e proporzionale. In particolare il giornale socialista 
ricordò che «I voti aggiunti si danno prendendo candidati di altre liste e scrivendone il nome sulla 
propria scheda incompleta fino a raggiungere il numero dei candidati da eleggere. Non si può al tempo 
stesso usare il diritto di preferenza e quello di aggiunta». I candidati socialisti furono presentati sul 
giornale della federazione fiorentina, cfr. «LD», 18 ottobre 1919, / candidati socialisti e ivi, 5 novembre 
1919, Elezioni politiche 1919, per il programma. 

113. Nel Paese la partecipazione al voto, che nel 1913 si era attestata al 65,8%, subì una flessione 
fino al 56,8%. Nel collegio di Firenze il Psi ebbe 91.596 voti, il Ppi 39.722, la lista di Concentrazione 


111 


595 


Per celebrare la vittoria un corteo di circa 200 socialisti si diresse da Ponte a Egola 
a San Miniato con la bandiera rossa in testa e accompagnato dalla banda musi- 
cale, si sciolse dopo un incidente con un camion che i manifestanti non inten- 
devano far passare! Le elezioni ebbero un forte impatto sulle amministrazioni 
locali, lascito di un'epoca ormai chiusa. Il Ppi invocò le dimissioni della giunta 
sanminiatese, che uu giunsero!!, lo stesso fecero le organizzazione 
locali socialiste!!°. 

Alla luce del diverso sistema elettorale, collegio uninominale nel 1913 contro 
collegio plurinominale con scrutinio di lista nel 1919, è difficile fare dei raftronti 
tra le due elezioni. Inoltre i dati delle sezioni del Comune di San Miniato, che 
furono pubblicati dal quotidiano «La Nazione»"!” e da «La Vedetta», sono discre- 
panti in alcuni punti. Ho scelto tuttavia di pubblicare i risultati del periodico 
locale fidando che la vicinanza alla sede comunale, dove pervenivano i risultati, 
consentisse una comunicazione migliore rispetto a quella tra un corrispondente e 
il suo giornale a Firenze. Le sezioni da 9 che erano nel 1913 diventarono 12: nel 
capoluogo si aggiunse la sezione «Asilo»; sul territorio le sezioni di Balconevisi e 
Isola. Gli elettori furono 6.767, rispetto ai 5.422 del 1913, in aumento quindi 
di quasi il 25%. La percentuale dei votanti raggiunse appena il 54,9%. L'ottima 
performance del Ppi nel capoluogo, spinta da «La Vedetta» e probabilmente dalla 
Curia, non bastò, come si vede dalla tabella che segue, a colmare la forte mobi- 
litazione socialista, in particolare a Ponte a Egola, Pino-Ponte a Elsa e Stibbio- 
San Romano, dove l'aumento degli elettori fu praticamente pari all'’aumento di 
voti socialisti rispetto alle elezioni del 1913. Il blocco liberale che aveva a lungo 
sostenuto Guicciardini padre nel capoluogo si era dissolto senza lasciare eredi e 
senza lasciare una rappresentanza costituzionale al territorio": dei quasi 800 voti 
del 1913 ne erano rimasti qualche decina, in parte probabilmente comprati da 
Mortara. Frammentazione, assenteismo, attrazione esercitata dai socialisti in par- 
ticolare nei centri urbani di pianura e affermazione dei popolari colpirono duro 
il campo liberal-costituzionale. 





liberale 25.801, il «Blocco democratico» 14.504, la lista «Pace e lavoro» 7.526. Per questi dati cfr. Sa- 
grestani 2002, p. 183. 

!!4 Acs, Mi, Dgps, anno 1919, 94, f. «Firenze», lettera del prefetto De Fabritiis. Purtroppo ho 
smarrito l'appunto con la data della lettera del prefetto di Firenze al Ministero dell'Interno. 

15 «LV», 23 novembre 1919, Sotto la Rocca. Dimissioni: «Liberali di data più o meno recente, so- 
stenitori accaniti prima dell’Incontri poi di Mortara, poi di tutti e due, hanno visto i candidati del loro 
cuore malamente caduti». Cfr. ivi per i risultati del Comune di San Miniato. Lo stesso accadde a Santa 
Croce cfr. «VN», 30 dicembre 1919, S. Croce. Dimissioni del Consiglio comunale. 

16 Cfr. ivi, 21 dicembre 1919, Ponte a Egola. La richiesta fu avanza dalla sezione socialista, dalla 
lega pellettieri e raffinatori, dalla lega dei contadini e dalla lega proletaria reduci di guerra. 

!!" Da cuili riprende Ficini 1998, p. 100. 

118 I due eletti della lista liberale costituzionale, Giovanni Rosadi e Dino Philipson, erano espres- 
sione di zone diverse del collegio fiorentino. 


596 


Risultati delle elezioni di domenica 16 novembre 1919 
nel Comune di San Miniato 


Sezioni Iscritti Votanti —Popolari Liberali Liberali Ind. Democratici Socialisti 
Palazzo comunale 483 252 168 16 26 25 17 
Asilo 578 278 135 18 82 33 10 
San Domenico 650 318 138 34 56 77 21 
Cigoli 619 305 55 52 8 2 188 
Ponte a Egola 684 423 14 35 2 2 368 
La Scala 481 262 74 56 47 25 60 
Pino - Ponte a Elsa 437 275 14 46 6 4 205 
La Serra 443 237 116 42 32 18 29 
Stibbio 671 384 32 14 10 7 321 
Pinocchio 673 360 98 61 52 12 137 
Balconevisi 637 327 145 29 28 25 100 
Isola 411 280 55 17 20 5 188 
Totali 6767 3701 1044 420 369 235 1644 
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Abbreviazioni 

Acs = Archivio centrale dello Stato 

Acs, Mi, Dgps = Acs, Ministero dell'Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza 
Ascsm = Archivio storico del Comune di San Miniato 
Adsm = Archivio diocesano San Miniato 

Agf = Archivio Guicciardini Firenze 

«CT» = «Corriere Toscano» 

«GI» = «Il Giornale d’Italia» 

«LD» = «La Difesa» 

«LL» = «La Libertà» 

«LN» = «La Nazione» 

«LR» = «La Riscossa» 

«LaR» = «La Rocca» 

«LI» = «La Tramontana» 

«LV» = «La Vedetta» 

«VE» = «Versilia» 

«VN» = «Vita Nuova» 


599 


Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 


LUIGI GIUNTI, BRUNA GOZZINI, 
GIOVANNI GOZZINI, MANUELA PARENTINI 


Durante la Prima Guerra mondiale non era inusuale che in una famiglia par- 
tissero per il fronte tutti i figli maschi. 

In La di queste famiglie i figli non tornarono, come nella famiglia Morelli 
di Ponte a Egola, nella famiglia Fontanelli di Calenzano, la famiglia Barbieri di 
Agliati o ancora i fratelli Cioni di Ponte a Egola. 

Il dolore e lo sconforto colpirono queste famiglie che non solo perdevano gli 
affetti, i figli, i fratelli, i nipoti, ma in una società mezzadrile, perdevano li 
le “braccia” per mandare avanti il podere, con conseguenze disastrose per tutta 
la famiglia rimasta. Sappiamo di episodi in cui i padri, le madri impazzirono dal 
dolore, alcuni si lasciarono morire, Un dramma nel dramma. Senza contare che 
chi tornava era spesso malato o mutilato nel corpo e nell'anima. 

Questo piccolo contributo vuole raccontare invece le vicende di tre fratelli, i 
fratelli Gozzini di San Miniato, tutti partiti per il fronte e tutti miracolosamente 
tornati a casa. 

I fratelli Gozzini, Mario, Agostino e Pietro, hanno avuto storie e vicende di- 
verse e di due di loro sono conservati anche i «diari di guerra». 

I fratelli erano nati da Cesare Gozzini! e Pia Telleschi?, ambedue sanminiatesi. 


Il primogenito dei fratelli, Mario Gozzini, era nato nel 1888 a San Miniato®. 
Di professione “stagnino”, “lattoniere”? e idraulico. È sempre vissuto a San Mi- 
niato, fino alla morte, avvenuta nel 1970. Si sposò con Ida Caponi°, con la quale 
ebbe, da fidanzati, una fitta corrispondenza dal fronte. Dal matrimonio nacquero 





! — Cesare di Pietro e di Annunziata Gazzarrini era nato il 12 agosto 1860 nel popolo de La Cro- 


cetta. Poi però nel 1901, secondo il censimento di quell’anno, si è trovato che la famiglia abitava in via 
Ser Ridolfo (popolo di San Jacopo e Lucia). 

2 Pia Telleschi, o meglio, Cesira Maria Pia Telleschi, era figlia di Gaetano Telleschi e Ottavia 
Valori. Era nata il 9 febbraio 1868 e la famiglia resiedeva a San Miniato nel popolo di San Jacopo e 
Lucia, ACVSM, Battezzati, n. 6. Secondo gli Stati dell’Anime della parrocchia della SS. Annunziata, 
detta de La Crocetta, nel 1900, la famiglia viveva in questa parrocchia. Ma nel nucleo familiare sono ri- 
portati, oltre ai genitori, solo i figli Angelo e Giuseppe (fratelli dunque di Pia) con le rispettive famiglie, 
ACVSM, 86, Archivi Parrocchiali. 

3. Mario nacque il 12 marzo 1888 a San Miniato. 

4 Lo stagnino è un artigiano che salda usando lo stagno ed esegue lavori in latta e lamiera. 

Più o meno è lo stesso significato di stagnino, in quanto il lattoniere è colui che lavora la lamiera 
metallica in genere, impiegando utensili manuali o macchine. 

6 Ida Caponi era nata il 17 novembre 1898 da Cesare e da Grazietta Palagini. Avevano un nego- 
zio di alimentari (vedi lettera del 21-041918). Si sposò con Mario il 16 ottobre 1920. 


5 


601 


Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





Renzo” e Ada. 

Fu richiamato alla leva nel 1909, inquadrato nel 62° Reggimento? con il grado 
di Caporale. Vi rimase fino al settembre del 1910. Fu di nuovo richiamato allo 
scoppio della guerra “coloniale” nel novembre del 1911 e inquadrato nell’83° 
Reggimento di fanteria!°. Fu congedato nell’ottobre del 1914, per essere poi ri- 
chiamato di nuovo alle armi nel maggio del 1915, nello stesso Reggimento.!! Nel 
giugno del 1916 fu promosso Caporal Maggiore e in seguito, nel maggio 1917, 
Sergente. Il “Ruolo Matricolare”!°12 ci riporta una succinta descrizione fisica 
di Mario, che era alto un metro e 63 cm. e mezzo, aveva i capelli neri e lisci, gli 
occhi castani e il colorito bruno, la dentatura sana e sapeva leggere e scrivere!313. 

Durante la Prima Guerra frequentò la “Scuola Militare montatori 
d’Aeroplano”! e, verso la fine della guerra, frequentò anche il corso per allievo 
pilota al campo Cameri presso Novara!. Da prima il suo desiderio infatti, era 
quello di diventare pilota d’aerei. Fu Caporal Maggiore ancora nell’83° Reggi- 
mento di Fanteria, Primo Plotone, Primo battaglione di Pistoia. 

Quando divenne Sergente e gli fu consentito di frequentare il corso per Allie- 
vo Pilota, fu inserito nel 2° Battaglione Aviatori, 6* Compagnia Montatori presso 
la “Tesoriera” di Torino!‘. 





7. Renzo Gozzini nacque il 12 agosto 1921 a San Miniato. Si sposò con Lida Giorgi (nata a San 


Miniato il 9 marzo 1932 da Augusto e Anna Gallerini), il 20 agosto 1967. 

8 Ada Gozzini nacque il 24 marzo 1925 e si sposò con Vasco Falaschi nel 1946. 
La Brigata Sicilia riuniva i battaglioni del 61° e 62° Fanteria. 
La Brigata Venezia riuniva i battaglioni del 83° e 84° Fanteria 
La Brigata Venezia, allo scoppio della guerra era già sul fronte alpino. Nei primi mesi di guerra, 
seppur avendo occupato alcune località non riuscì a sfondare il fronte nemico. Nel 1916 sferrò una 
serie di attacchi con successi discontinui. Il 24 maggio i reggimenti vengono a contatto col nemico che 
attacca le posizioni del Monte Civaron (tenuto dall’83° RF) e del Monte Levre (84° RF), ma in seguito 
la brigata è costretta a ripiegare. Nel 1917 la brigata fu posta sotto le dipendenze della 2° Armata, parte- 
cipando l’Undicesima battaglia dell’Isonzo (detta anche della Bainsizza). La brigata partecipa anche alla 
battaglia di Caporetto. Nel 1918 ritorna in prima linea fino alla fine delle ostilità. 

2 Il “ruolo matricolare” è un documento che riporta i dati relativi all'iscrizione e all'esito di leva, 
la data di arruolamento e di congedo, il corpo presso il quale è stato prestato il servizio di leva, il grado 
militare e tutte le notizie relative al soldato. 

1. ASFi, Distretto Militare di Pistoia. Ruoli Matricolari Classi 1871-1908, F. 109, classe 1889. 
Matricola n. 19783 (1888). 

14. Scuola Militare montatori d’Aeroplano. 

Campo Cameri, nei pressi di Novara, era una delle 8 scuole di volo presenti in Italia a maggio 
del 1916, con San Giusto, Coltano, Busto Arsizio, Cascina Costa, Venaria Reale e Cascina Malpensa. 
Poi esisteva una scuola di allenamento a Mirafiori e una scuola di osservatori a Centocelle. L'aeroporto 
di Cameri si può dire fu “impiantato” nei primi anni del Novecento. Nel 1910 iniziarono le lezioni di 
volo. In seguito, dopo il fallimento della società A.V.I.S. (Atelier Voisin Italie Septentrional), che gestiva 
l'aeroporto, nel 1913 Giuseppe Gabardini stipulò l’atto di acquisto dell'aeroporto. Gabardini dopo es- 
sere andato in Francia, nel 1909 a Parigi, progettò e costruì il suo primo idroplano. Nel 1912, rientrato 
in Italia, fondò la “Aeroplani Gabardini”. Nello stesso anno realizzò un monoplano. Nel 1913 a Cameri, 
rilevò le attività della A.V.I.S., una scuola di volo fondata dal francese Thouvenot e vi costruì delle offici- 
ne. Fu così che nacque la “Aeroplani Gabardini-Officine e scuola di volo-Aerodromo Cameri”. La scuola di 
volo rimase attiva sino al 1930 quando Italo Balbo ne decise la chiusura. Giuseppe Gabardini fu anche 
sindaco di Cameri. 

16. “Tesoriera” di Torino. 


9 
10 
11 


15 


602 


Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





Dal libretto personale di volo si evince che le lezioni pratiche di pilotaggio 
erano effettuate con l’apparecchio “Gabardini 35 HP 15”! 

Nel libretto erano annotate le condizioni atmosferiche, la durata del volo, in 
tutto si contano 25 lezioni pratiche. 

Della corrispondenza tra Mario e la sua futura moglie sono rimaste sole le 
lettere che lei gli mandava e mancano quelle di Mario, quindi rimane più difficile 
ricostruire la sua carriera militare e i lavori che svolgeva. 

Le lettere di Ida sono piene di racconti familiari, dei loro rapporti e dell’ansia 
per il ritorno a casa di Mario, dato il particolare momento storico. Solo qualche 
accenno ai compiti di Mario. 

Senza dubbio la volontà di Mario era quella di rendersi utile alla propria Pa- 
tria, come si evince dalle note con le quali si propone come operaio Gel varie 
industrie militari!8. 

Sicuramente a maggio del 1918 Mario si trovava a Grugliasco, inquadrato 
nell’8° Compagnia — Battaglione Specialisti Aviatori!?. 

Ida si lamentava di non aver avuto notizie del futuro marito, si preoccupava 
quando lui non scriveva, sperava di vederlo tornare in licenza, ma anche, final- 
mente, in congedo e diceva: 


«[...] basta che tu seguiti a volermi bene, come ora, il resto si accomoda[...] ogni sera 
guardo la tua fotografia, mi sembra di parlarci [...]»?®. 


In una lettera si legge: 


«[...] avrei piacere quando ai (sic!) da fare gli esami farmelo sapere, sento che ai (sic!) da 
studiare continuamente e per questo non ai (sic!) da perdere di molto tempo per scrivere 


[ca Jpi. 


Ida sperava che una possibile promozione avrebbe portato Mario finalmente 
in Toscana??. 

Dalle lettere si viene a sapere che a Mario era stato chiesto di fare il pilota di aerei, 
ma che lui non aveva accettato?5, e aveva anche brillantemente superato degli esami 
di specializzazione inerenti la tecnica di volo, nell'agosto e nel settembre del 191824. 

Nella documentazione conservata da Mario si trovano interessanti libretti sui 
ruoli e sui compiti degli ufficiali e sotto ufficiali. In particolar modo ve ne è uno 
che ricorda le varie squadre del reggimento di appartenenza di Mario, e dove si 





1 Come detto, dopo l’acquisto di campo Cameri da parte di Giuseppe Gabardini, lì vi furono 


costruite le officine aeronautiche “Gabardini”, la cui omonima scuola di aviazione diventerà, negli anni 
precedenti la Prima Guerra mondiale la più grande del mondo, brevettando 1500 piloti tra i quali Silvio 
e Natale Palli, fratelli cui sarà intitolato l’aeroporto nel 1921. Uno degli aeroplani lì costruiti fu appunto 
il “Gabardini 35 HP 15”. 

18. APGG, Si vedano le lettere del 12 ottobre 1917. 

19 APGG, Cartolina di Ida a Mario del 25 maggio 1918. 

20 APGG, Lettera di Ida a Mario del 16 aprile 1918. 

2! APGG, Lettera di Ida a Mario del 19 giugno 1918. 

2 APGG, Lettere di Ida a Mario dell’11 e 21 luglio 1918. 

2. APGG, Lettera di Ida a Mario del 21 luglio 1918. A fine luglio Mario ancora non aveva soste- 
nuto l’esame per il quale stava facendo il corso. Lettera di Ida a Mario del 30 luglio 1918. 

2 APGG, Lettere di Ida a Mario del 13 Agosto e del 14 settembre 1918. 


603 


Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





vede che egli era per posizione e grado il secondo ufficiale della squadra, con ben 
11 suoi subordinati”. 


Nelle lettere di Ida poco si sa della vita sanminiatese. 

La fidanzata di Mario è molto presa dall’invio e dal ricevimento delle lettere 
del suo futuro marito, dalle questioni familiari. Pochi gli accenni a quanto acca- 
deva a San Miniato. 

Solo il 9 novembre 1918, a guerra oramai dichiarata finita, Ida fa un accenno 
a quanto la “Spagnola” avesse colpito il comune di San Miniato. 

In questa lettera?” diceva: 


«[...] abbiamo avuto una bella scossa con questa influenza parecchi ne sono morti e tanta 
gente ammalata [...]»?7. 


Anche l’ultima figlia della famiglia Natalina?5, sorella di Mario, Agostino e 
Pietro, morì a ottobre del 1918 per la “Spagnola”?9. 

Tuttavia, a parte una lettera inviata a Mario da un imprecisato amico, non si 
trova accenno di questa prematura scomparsa nelle lettere tra Ida e Mario. 

La corrispondenza tra i due futuri coniugi continua nel 1919. 

In queste lettere Ida parlava quasi esclusivamente delle notizie date sui soldati 
congedati e sull’imminente rientro di Mario. 

Ancora ai primi di settembre Ida scriveva a Mario aspettando che rientrasse a 
casa?°, Secondo i Ruoli Matricolari il nostro soldato ebbe il congedo illimitato il 
15 agosto del 1919*!. 

Prima del suo congedo ottenne ottime referenze in tutte le officine dove aveva 
prestato servizio, come attestano le note dell’ingegnere Angelo Lingu, il quale 
dice che Mario: 


«[...] ha prestato ottimo servizio adempiendo con zelo e intelligenza alle mansioni sue, e 
dimostrando perfetta conoscenza delle arti sue [...]»??. 





2 Ruolino tascabile ad uso dei Sott Ufficiali e Caporali del Reggimento di Fanteria, II° Plotone- 


IV Squadra. Da questo si vede che Mario aveva solo come superiore il maggiore Costantino Falorni, 
mentre vi erano alle sue dipendenze i soldati: Luigi Valori, Ugo Biagini, Dante Puccini, Alessio Bardaz- 
zi, Giocondo Beneforti,Giovacchino Gallerini, Ottavio Matteoli, Leonello Bertini, Agostino Stefanelli, 
Osiodo Vannini, Emilio Cerverai. 

26. Anche Ida e la madre si erano ammalate. Ida però era guarita in fretta. Si veda APGG, lettere 
del 16 ottobre e del 19 novembre e 18 dicembre 1918. 

27 APGG, lettera di Ida del 9 novembre 1918. Da questa lettera oltre agli accenni sulla situazione 
sanitaria a San Miniato, si viene a sapere che anche Torino era stata colpita dalla “Spagnola”, che erano 
stati chiusi i teatri e i cinematografi, per cercare di evitare la diffusione del morbo. 

28. Natalina era nata il 21 dicembre 1897. Morì il 4 ottobre 1918 per “bronchite tubercolare”. 
Tutti i discendenti dicono che in famiglia era chiamata Enrica. 

29. Non è retorica dirlo, e molti studi lo stanno dimostrando, che fece più morti questo terribile 
morbo, della guerra stessa. La morte toccò sia ai civili che ai militari, indistintamente. 

30. APGG, Lettera di Ida a Mario del 14 settembre 1919. 

31 ASFI, Distretto Militare di Pistoia. Ruoli Matricolari Classi 1871-1908, E 96, classe 1889.. 
Matricola n. 893 bis (1888) già n. 19783 a ruolo. 

8. APGG, Lettera datata 9 marzo 1919 


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Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





Mario ha conservato moltissimo materiale del periodo passato in guerra, oltre 
alle lettere qui ricordate, vi sono i libretti di istruzione degli aerei e dei suoi corsi, i 
vari attestati, i libretti di addestramento del Reggimento di Fanteria, riviste, oggetti 
usati e di equipaggiamento e molto altro, tutte preziose testimonianze della guerra. 

In particolar modo si sono conservati i manuali di addestramento riguardanti 
la costruzione, il funzionamento e la manutenzione degli aerei in dotazione all’a- 
viazione militare, alcuni dei quali in tre lingue: francese, inglese e tedesco, segno 
evidente che Mario disponeva della conoscenza di base di alcune lingue straniere. 

Inoltre, dato quanto studiato, senza dubbio disponeva di conoscenze specifi- 
che di fisica e principi fondamentali di meccanica, indispensabili per ottenere il 
brevetto di pilota. 

Ciò è confermato da un quaderno di appunti scritto a mano da Mario dove 
sono descritti i principi base del volo, della fisica e della meccanica e in più sono 
riportati disegni, formule matematiche e geometriche, che oltre a farci capire il 
grado di conoscenza che Mario aveva acquisito in questo campo ci fanno co- 
noscere i vari tipi di aerei dell’epoca, e la struttura meccanica dei mezzi aerei in 
dotazione all’esercito durante la Prima Guerra, data anche l'assoluta novità di 
queste macchine nel panorama dei nuovi sistemi offensivi, in un’epoca proiettata 
verso la ricerca di novità e modernità in ogni campo e sapere umano. Inoltre tra i 
suoi appunti è emerso un libretto che attesta la conoscenza di Mario dell’alfabeto 
Morse, indispensabile per le comunicazioni veloci e a distanza. 

Tornato alla vita civile Mario Gozzini, insieme a suo padre e a suo fratello 
Pietro, incentivò la ditta di famiglia, che si occupava di idraulica. 

La ditta ha avuto una vasta e importante clientela che l’ha portata ad avere 
lavori e commissioni, anche importanti, non solo nella città di San Miniato e 
nelle residenze sparse nella campagna antistante, ma anche in città come Firenze, 
Pisa e sulla costa pisana. 

Fino alla metà degli anni ’50 i fratelli Gozzini lavorarono insieme, per poi 
costituire due ditte indipendenti. 

La ditta di Mario, composta anche da diverse maestranze, ha continuato ad 
operare in San Miniato, anche grazie al figlio Renzo, che ha proseguito l’attività 
di famiglia. 


Agostino Gozzini, detto Gosto, era il secondogenito, ed era nato a San Minia- 
to il 31 luglio 1890. 

Da sempre conosciuto come uno dei commercianti storici di San Miniato 
che, con la figlia Enrica, ha per lungo tempo gestito un negozio di mesticheria nel 
centro storico di San Miniato. Agostino è morto il 12 sh 1984. 

Arruolato il 21 aprile 1916 con i “riformati”, venne assegnato al 68° Reggi- 
mento, poi al 205° Fanteria ad Asso presso Como. Poi però fu inviato al fronte? 

Partì il 15 luglio 1916 per Cormons*, zona di guerra, e combatté sui fronti di 





8. Secondo quanto riferito oralmente da Agostino alla famiglia, sembra accreditare l'ipotesi che 


l’invio al fronte forse in parte dipeso dal fatto che Agostino, attendente di un ufficiale, ne avesse “insi- 
diato” la “morosa”. 
#6 è si Ila via di Gorizia. Nel della pri dial È 
ormos è situata sulla via di accesso a Gorizia. Nel corso della prima guerra mondiale passò 
dapprima in mano agli italiani, poi venne riconquistata dagli austriaci (il 28 ottobre 1917 durante la 
XII battaglia dell’Isonzo). Passò definitivamente in mano italiana al termine del conflitto. 


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Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





Gorizia — S. Marco e Monte Merzli, nei pressi di Caporetto”. 

Il 24 ottobre 1917 venne fatto prigioniero a Caporetto e, con altri 800 com- 
militoni, portato nel paese di Pobro, e, in seguito, in Ungheria?°. 

Il 26 marzo 1918 venne trasferito a Kovel (allora nella Polonia Russa), dove 
rimase fino al 20 novembre 1918?7. Nel dicembre, dopo un lungo viaggio, ritornò 
in Italia ed ottenne una licenza di 20 giorni*. Poco dopo, il 10 gennaio 1919 venne 
destinato a Milano fino al 10 agosto ed il 15 agosto ottenne il Congedo Illimitato. 

AI suo ritorno dal fronte scrisse il suo Diario, riportando gli episodi più sa- 
lienti del periodo vissuto, con dovizia di particolari e vari documenti, fotografie e 
varie cartoline inviate ai genitori e alla futura moglie, Fortunata Corsi??. 

Il Diario, scritto dopo la fine del conflitto, inizia con un piccolo excursus sul 
periodo che va dal 1910, anno della visita militare, al 25 agosto 1916, allorché 
Agostino arrivò a Gorizia, poi a San Marco” a Castagnevizza”! e infine sul Monte 





8. Questa zona fu teatro di aspri conflitti che sfociarono nella “rotta di Caporetto”. 


Non ci si può nemmeno immaginare quanti siano stati i campi di prigionia in tutto l’ex regno 
Austro-Ungarico e in Germania. Quando si parla di lager, campi di prigionia, si pensa sempre alla 
Seconda Guerra. Invece molti di questi, resi famosi nel Secondo Conflitto, furono costruiti proprio 
durante la Prima Guerra. Ed ebbero la stesse modalità di gestione. In questi campi difficilmente si usciva 
vivi. Si moriva per malnutrizione, malattie, e assassini, che erano all'ordine del giorno. 

#7 È una città nella provincia della Volina, oggi in Ucraina. È ed è stata un importante nodo 
ferroviario dell'Ucraina nord-occidentale, con sei linee ferroviarie che si diramano dalla città. La prima 
di queste ferrovie fu costruita nel 1873, collegando la città con Brest- Litovsk e Rivne. Poi nel 1877 fu 
costruito il collegamento ferroviario con Lublino e Varsavia. A Kovel, durante la Prima Guerra mondia- 
le, gli Austro-Germanici respinsero un'offensiva russa (luglio-novembre 1916). 

38. Di questa licenza se ne parla anche in una lettera che la fidanzata di Mario, Ida, scriveva al 
futuro marito Mario, fratello di Agostino. 

3. Fortunata Corsi nacque a San Miniato il 6 luglio 1898 da Gaetano e Ersilia Biagioni. Si sposò 
con Agostino il 22 febbraio 1922. 

‘0 Il monte San Marco si trova nei pressi del confine sloveno. Fu teatro di scontri durissimi tra i 
due eserciti belligeranti. 

4! Castegnevizza è un paese della Slovenia, frazione del comune di Mema — Castagnevizza. Du- 
rante la prima Guerra Mondiale, dal novembre 1916 (7a Battaglia dell’Isonzo) all'ottobre 1917 (ripie- 
gamento di Caporetto), il paese di Castagnevizza fu aspramente conteso tra Italiani e Austriaci, preso e 
riperduto varie volte. 


36 


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Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





Mrzli*, nei pressi di Caporetto” il 24 ottobre 1917". 

Proprio da ottobre 1917 si entra “nel vivo” del racconto. In quel momento si 
stava combattendo la 12a battaglia dell’Isonzo. Dopo la conquista dell’altipiano 
di Bainsizza“, l’Austria era allo stremo e non aveva più le forze militari per af- 
frontare altre battaglie decisive. L'alleato tedesco, per timore di un crollo militare 
dell’Austria, spostò parte del suo esercito sul fronte italiano”. 

Agostino raccontava che dal 6 ottobre 1917 si trovava a riposo, in una 


«[...] Valletta alle falde del Monte Nero in prossimità dell’Isonzo; il giorno 12 a sera quasi 
improvvisamente (dico così) perché dovevamo stare a riposo almeno fino alle 16, e cioè per 





4 Il monte, Mrzli che sta al di la dell’Isonzo è fronteggiato dalla catena del Kolovrat da cui discen- 


dono le principali valli Udinesi (Natisone esclusa) che portano nel piano a Cividale. Al Mrzli si accede 
da Caporetto o da Tolmino e proprio da qui gli austroungarici presero la via che discende le valli, la via 
più corta per aggirare lo schieramento della II e III armata fino al mare. Fa parte del bastione montano 
Monte Nero-Vodil, che si eleva sulla sinistra del fiume Isonzo, tra le conche di Plezzo e di Tolmino 
(quota 1360). Durante la Prima Gguerra Mondiale, nel maggio-giugno 1915, le truppe del IV corpo 
d’armata italiano attaccarono più volte le posizioni che gli Austriaci tenevano sul massiccio Sleme- 
Mrzli, ma, pure combattendo con valore e subendo perdite rilevanti, non riuscirono che ad affermarsi 
sulle pendici dei due monti, trincerandosi a breve distanza dall’avversario (prima battaglia dell’Isonzo). 
Nell’agosto successivo, essendo risultati vani i tentativi di portare la “linea in cresta”, rimasero in quella 
posizione per oltre due anni, sotto il completo controllo del nemico. Il mattino del 24 ottobre 1917, 
gli Austriaci, iniziando la dodicesima battaglia dell’Isonzo, fecero scoppiare, sulla dorsale del Mrzli, una 
grande mina, che sfondò le trincee italiane, riuscendo così a superare la nostra difesa e ad arrivare nel 
fondovalle. 

4... Caporetto si trova attualmente in Slovenia. Posta in posizione strategica nell’alta valle dell’Isonzo. 

44 Il 24 ottobre alle 2 del mattino 15 divisioni miste austro-tedesche attaccarono nella conca di 
Plezzo e Tolmino la nostra 2a armata. 

4. La dodicesima battaglia dell’Isonzo si combatté tra il 24 ottobre e il 10 novembre 1917. Dopo 
la sconfitta subita dall'Austria nella conquista dell’altipiano della Bainsizza, questa non era più in grado 
di resistere militarmente. Ciò determinò un impegno più massiccio delle armate tedesche sul fronte 
italiano. Il 24 ottobre, nell’arco di poche ore, l’ala destra della 2a armata cedette; per evitare l’accer- 
chiamento, il 25 ottobre circa, un milione di uomini, cioè tutti quelli impegnati sul “fronte Giulio”, 
iniziò a ritirarsi verso il fiume Torre, poi verso il Tagliamento, poi verso il Livenza. La notte tra il 25 e 
il 26 ottobre anche la 3a armata del Carso, per non rimanere accerchiata, iniziò il ripiegamento verso il 
Piave e il Grappa, che raggiunse il 6 novembre. Il Re destituì Cadorna e nominò Diaz comandante delle 
Forze Armate. La battaglia (rotta) di Caporetto costò all'Italia 10.000 morti, 30.000 feriti, 300.000 
prigionieri, 350.000 sbandati e disertori. 

6 Si trattava dell’11a. battaglia dell’Isonzo. Combattuta dal 17 al 31 agosto 1917. Il 17 agosto alle 
6 del mattino, tutti i cannoni delle due armate aprivano contemporaneamente il fuoco, dal Merzli al 
mare. Sull’Isonzo, nei pressi di Caporetto, gli italiani avevano costruito uno sbarramento artificiale per 
diminuire la portata del fiume e permettere la costruzione di passerelle, sulle quali la notte del 19 agosto 
passavano le truppe del XXVII e XXIV corpo d’armata. In merito al forzamento del fiume, la Relazione 
Ufficiale Austriaca riporta: «[...] 19 agosto. Grazie ad una preparazione molto accurata, gli italiani 
riuscirono a superare l’Isonzo, costituente un notevole ostacolo di fronte le posizioni dei difensori, e 
dopo, con relativa rapidità, travolti i posti di guardia, produssero ben presto una situazione critica per 
la difesa Dopo due giorni di lotta, con alterne fortune, la battaglia riprendeva vigore, spostandosi verso 
l’altipiano della Bainsizza[...]». 

4 Lo spostamento dei tedeschi sul fronte italiano fu consentito dal crollo del fronte Russo e 
agevolato dall’inerzia degli alleati francesi. Il 24 ottobre alle 2 del mattino 15 divisioni miste austro- 
tedesche attaccarono nella conca di Plezzo e Tolmino, la nostra 2a armata. 


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Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





un periodo di 10 giorni (come consueto) ricevemmo l'ordine di recarsi immediatamente in 
trincea a causa che l’altra Sezione che era in linea aveva avuto in seguito a una azione recente, 
tutte le armi fuori uso, nonché una parte dei 27 uomini componenti la Sezione Mitragliatrici 
stessa [...]»f8 


egli ricordava il «disappunto» dei soldati della sua Sezione che appresero la 
notizia di dover andare in trincea molto mal volentieri e proseguiva 


«[...] dato che in tempo di guerra e tanto più in Zona di operazioni, gli ordini si esegui- 
scono e non si discutono, subito dopo consumato il rancio, con Zaino e coperta e due Armi 
Mitragliatrici Pistola che avevamo in dotazione, c'incamminammo su per il Monte Merzi 


9...» 


Agostino e i suoi compagni di sventura sapevano bene che ogni rifiuto, ogni 
minimo accenno di ribellione sarebbe stato punito spietatamente. Le fucilazioni 
erano oramai divenute prassi per sedare ogni minimo segnale di rivolta o d’insu- 
bordinazione”. 

Il nostro soldato accennava al fatto che mentre si recava in trincea la serata era 
splendida, e il chiaro di luna, in compagnia di vari riflettori che illuminavano a 
intervalli, permettevano ai soldati di avanzare «ora i sentieri ora i camminamenti» 
che i militari dovevano fare per arrivare alle postazioni. Di notte, intorno alle 2, 
la Sezione giunse in una 


«[...] grande galleria distante circa 300 metri dalla 12 linea (dove si rifugiava la truppa in 
tempo il a e anche alcune ore del giorno a riposare) Ad un tratto passando 
da un posto di collegamento esce fuori, da un rifugio, un soldato il quale rivolto a noi ci dice 
a voce bassa:fate piano e senza far rumore perché il camminamento che porta alla curvetta B 
(così chiamasi il posto dove si dovevano collocare le nostre due Mitragliatrici) è quasi tutto 
sconvolto dalle Bombarde che la notte scorsa gli Austriaci ci nno tirate e quindi andate svelti 
uno a uno. Noi, senza parole, ci guardammo e già ci eravamo capiti [...]»?! 


Il racconto continua con l’arrivo alla postazione, senza che gli Austriaci, situati 
dalla parte opposta della trincea se ne accorgessero e ricevuta È consegna dai po- 
chi soldati rimasti nella postazione dell’altra sezione, loro se ne andarono e quelli 
della sezione di Agostino piazzarono le armi e «per quelle poche ore della Notte, 


48. APLG, Diario di Agostino Gozzini 

4 Si trattava in realtà del monte Merzli. Chiamato anche Mrzli, Merzli, Mrzlwrick, Smerli, nome 
storpiato nelle cronache. Dai soldati italiani infine chiamato più semplicemente monte Smerle, che si 
trova lungo la valle dell’Isonzo, tra la Bainsizza e Caporetto, appena al di là della frontiera tra Italia e 
Slovenia. La sua forma ricorda un cono, la sua cresta è lunga poco più di 300 metri, solcata interamente 
da una grande trincea austriaca. 

5% Forcella E., Monticone A.(1968), Plotone di esecuzione, I processi della Prima Guerra Mondiale, 
Laterza, Bari, (I ed.); Cappellano F. (2015), Cadorna e le fucilazioni nell'esercito italiano (1915-1917), 
Annali n. 23, Museo Storico Italiano della Guerra. Tra il 1915 ed il 1917, furono eseguite circa 140 
fucilazioni, dovute ai motivi più disparati. Inizialmente questo provvedimento fu preso solo in casi di 
estrema gravità come in caso di diserzione o spionaggio, ma successivamente si estese anche ad altri casi, 
come un ritardo dal ritorno dalla licenza. Lo stesso avvenne per tutti quegli ufficiali che, anche per un 


solo momento, avessero messo in dubbio le scelte fatte dal Comando Supremo. 
9! APLG, Diario di Agostino Gozzini 


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Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





oramai rimaste, nessuno chiuse occhio». 

I giorni seguenti Agostino racconta della calma relativa che vi era in trincea, 
del fatto che si sentiva ogni tanto scoppiare una bomba e di alcuni colpi che «i 
nostri e i loro artiglieri si scambiavano». 

Egli racconta dei commenti che venivano fatti dai soldati in particolar modo 
che «gli Austriaci in aiuto dei Tedeschi avrebbero intrapreso una grande offensi- 
Va». 

Il tempo trascorreva in trincea in attesa di quest’offensiva, con le notizie che 
arrivavano dai «portaordini di battaglione», che a loro volta le avevano apprese 
dai prigionieri austriaci’?. Agostino proseguiva dicendo che quasi tutti i soldati 
erano convinti che si trattasse di «alcune delle tante fandonie che si raccontano in 
trincea tanto per passare il tempo». Qualcuno diceva: 


«[...] ma se fosse vero, dato che i comandi ne sono a conoscenza invierebbero e materiali 
e munizioni e anche rinforzi in uomini; ma dato che questo non fanno, vuol dire che queste 
voci non corrispondono alla verità, molto più che un Battaglione del nostro Reggimento è 
tutt'ora a riposo, aggiungeva un altro, lo avrebbero fatto venire in linea [...]». 


In questo racconto vi è tutta la drammaticità dell'evento. I comandi militari 
pur sapendo che si stava preparando un'offensiva da parte dei tedeschi-austriaci, 
rimasero immobili, non presero decisioni. 

Alcuni storici parlano di una serie di equivoci e dissidi tra Cadorna?‘ e il gene- 
rale Capello”. Il primo schierato per il mantenimento delle postazioni e quindi 
in posizione ferma e difensiva e È altro fautore di una manovra controffensiva, 
intuendo il pericolo di un'azione nemica”. 

I Comandi Italiani erano convinti che la guerra fosse ormai entrata in una 
«stasi invernale», prevedendo che l'eventuale grande offensiva nemica non si fosse 
realizzata se non prima della primavera del 1918. 

Quest’'atmosfera rilassata cominciava a essere turbata da notizie che arrivavano 
circa i preparativi del nemico per un'offensiva molto vicina. Già il 4 di ottobre i 
prigionieri austriaci parlavano di un’offensiva imminente”. 

Un attacco nemico avrebbe aperto dalla testa di ponte di Tolmino?*, avrebbe 





5. Agostino dice che la notizia della grande offensiva era stata data dai prigionieri austriaci presi 


dal 5 all’8 ottobre 1917. Si veda APLG, Diario di Agostino Gozzini. 

5. APLG, Diario di Agostino Gozzini. 

3. Per un approfondimento su Cadorna cfr, Rocca G. (1985), Cadorna, Milano 1985. 

>. Per un approfondimento sul generale Capello cfr, Mangone A. (1994), Luigi Capello. Milano. 
Il dissidio tra i due militari era da un punto di vista di strategie militari. Cadorna pensava di 
attaccare dalla Bainsizza, Capello invece pensava ad un attacco dal Tolmino, per eliminare la testa di ponte 
austriaca. Comunque i rapporti tra Cadorna e Capello si erano, via via, deteriorati a partire dal tempo della 
presa di Gorizia, quando Capello aveva, ingiustamente, accusato Cadorna di non avergli dato i mezzi per 
sfruttare il successo. Le conseguenze di tale dissidio furono che i contatti personali, necessari e indispensa- 
bili in quel momento, fossero più che rari, quindi mancò un confronto sulle strategie da fare. 

9. Dunque il Diario di Agostino riporta giustamente la situazione. 
La testa di ponte di Tolmino è composta dai colli di Santa Maria (Mengore) e di Santa Lucia. 
Insieme alle posizioni davanti a Gorizia quelle nelle vicinanze di Tolmino sono le uniche sulla riva destra 
dell’Isonzo e costituiscono la cosiddetta testa di ponte di Tolmino, che inizia sulle alture del Merzli — 
Vodil, sulla riva sinistra. 


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Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





sfondato in fondo valle a Volzana?, rimontando così la destra dell’Isonzo, en- 
trando nella prima linea italiana oltre l’Isonzo e la seconda al di qua del fiume, 
aprendosi la strada per Cividale e Udine. 

Seppur il generale Capello avesse intuito la possibile offensiva nemica, non 
diede nessuna disposizione, inoltre egli era convinto che l’attacco nemico avve- 
nisse dal Tolmino e dalla conca di Plezzo®. 

Per dirla breve i battaglioni dell’esercito italiano, lungo questa parte di fronte 
«brancolavano nel buoi», da una parte giungevano le notizie di un imminente at- 
tacco, dall’altro vedevano Enimobio del Comando Supremo, facendo supporre 
che queste fossero tutte voci. 

Lo stesso Agostino era convinto che le notizie di un'imminente offensiva fos- 
sero «chiacchere». Le sue supposizioni erano confermate dal fatto che ai primi di 
ottobre, lui stesso aveva visto il ritiro di alcune batterie di cannoni. 

Invece, come raccontava Agostino: 


« [...] la mattina del 24 Ottobre, saranno state le ore 4 circa, gli Austriaci, certamente in 
unione con i Tedesci iniziarono un bombardamento e di ogni calibro, che andò sempre au- 
mentando d’intensità, fino a raggiungere verso le ore 6 un fuoco a tamburo concentrato nelle 
retrovie e nei più lontani camminamenti [...] La mattinata era del tutto a nostro svantaggio 
dato che una nebbia fittissima non ci permetteva di vedere un Uomo alla distanza di 5 o 6 
metri. Non si vede niente dicevano di tanto in tanto la sentinelle più avanzate [...] »9 


Il «Diario» proseguiva con la descrizione delle sensazioni: paura, rassegna- 
zione, speranze del giovane Agostino, che diceva speranzoso «quando usciranno 
dalla loro trincea ci penserà bene la nostra Artiglieria», e diceva: 


« [...] saranno state appena le 10 quando quel fuoco intenso cessò quasi del tutto. Noi 
impazienti si aspettava, come del resto sempre succedeva, che cessato loro il fuoco, comin- 
ciasse la nostra Artiglieria a sparare, ma invano nemmeno un colpo passava sopra le nostre 

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teste [...]» 


Lo stupore dei soldati era forte. Agostino stesso diceva: «ma che diavolo suc- 
cede? Ma che sono tutti morti?». 





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Volzana si trova attualmente in Slovenia è una località nei pressi di Tolmino e dell’Isonzo 
Cividale fu sede, per un breve periodo, del comando della II armata. Il 27 ottobre 1917, dopo 
Caporetto fu occupata dalle truppe austriache. 

6! Udine, dopo Caporetto fu invasa dai profughi e soldati in riturata. Poi, il 29 ottobre 1917, fu 
occupata dai tedeschi e austriaci. 

6. Plezzo è un comune, ora sloveno, che si trova nell’alta Valle Isonzo, posto in una piana alla 
confluenza tra la val Coritenza (Koritnica) e la Valle di Trenta, nelle Alpi Giulie, 

8. APLG, Diario di Agostino Gozzini 

6 Il 24 ottobre, nel giro di poche ore, l’ala destra della 2a armata cedette. Per evitare l’accerchia- 
mento il 25 ottobre tutti i soldati del fronte giulio, iniziarono a ritirarsi verso il fiume Torre, poi verso 
il Tagliamento e il Livenza. La notte tra il 25 ed il 26 ottobre anche la 3a armata del Carso, per non ri- 
manere accerchiata, iniziò il ripiegamento verso il Piave ed il Grappa, che fu raggiunto il 6 novembre. Il 
7 novembre il Re destituiva Luigi Cadorna da Comandante in Capo dell’Esercito Italiano; al suo posto 
veniva nominato il generale Armando Diaz. Il 10 novembre terminava la ritirata italiana. La sconfitta 
era costata 10.000 morti, 30.000 feriti, 300.000 prigionieri, 350.000 sbandati e disertori. Erano stati 
persi 3.152 pezzi d’artiglieria, 1.732 bombarde, 3.000 mitragliatrici. 


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Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





Dal comando del battaglione non giungeva alcun ordine, anche se dal lato 
italiano si ricominciò con un «nutrissimo fuoco di fuciliera» a cui risposero gli 
austro-tedeschi. 

I tedeschi intanto erano riusciti a «rompere a sinistra» e venivano verso le po- 
stazioni italiane, che erano ancora prive di ordini. 

Così Agostino e i compagni, lasciate quasi tutte le armi che non si potevano 
trasportare, e con solo due «mitragliatrici pistola», con le poche munizioni rima- 
ste si ritirarono giù per il camminamento. 

Lungo il percorso trovarono tantissimi soldati morti e 


«[...] che dire poi dei lamenti di quei poveri feriti, i quali non potevano avere che pochi 
e inadeguati aiuti [...] ». 


Nell’arretramento Agostino contò circa 50 uomini, quasi tutti della sua Se- 
zione, ma anche i superstiti di una compagnia che aveva abbandonato la trincea. 
Tutti erano convinti di scendere verso un'altra trincea dove da lì fare resistenza 
all'avanzata del nemico, ma arrivati alle «falde del Monte», con loro stupore ap- 
presero che da due ore i tedeschi «passavano giù per la strada» e infatti gli sventu- 
rati trovarono lungo il sentiero un drappello di soldati nemici a i... e, come 
raccontava Agostino, «Fu qui che noi tutti rimanemmo prigionieri». 

Egli visse di persona la «sconfitta di Caporetto», con le sue devastanti conse- 
guenze. Era il 24 ottobre 1917. Egli diceva: 


«[...] Fu qui che noi tutti restammo prigionieri e fu proprio in questo luogo Caporetto 
che dovetti levarmi le giberne’, appoggiare una Mitragliatrice- Pistola (l’altra l'avevo messa 
fuori uso) al ciglio della strada e senza tascapane, senza gavetta e senza altri indumenti passai 
in Austria[...]» 


Insieme a Agostino vi erano altri 800 prigionieri circa, che furono portati a 
piedi e senza mangiare al paese di Pobro”. 

I prigionieri furono messi a lavorare, cioè a spaccare pietre lungo la strada che 
tedeschi stavano allargando. Solo il 26 ottobre ricevettero il rancio che si trattò 
di ben poco: gallette e marmellata. La notte i prigionieri dormivano in baracche 
dove faceva molto freddo. Dopo questo lavoro furono trasferiti con dei vagoni 
treno e portati a costruire proiettili di tutti i calibri destinati proprio al fronte e 
contro gli italiani e come dirà Agostino «e questo non era poco, lavorare per fare 
uccidere i nostri fratelli ». 

In seguito Agostino fu trasferito in un campo di concentramento in Un- 





5. APLG, Diario di Agostino Gozzini 
6 Le giberne erano delle “tasche” portamunizioni. 
Non siamo riusciti a individuare dove si trovava il paese. 
Delle terribili condizioni di vita ci sono giunte notizie dai diari dei sopravvissuti e dalla “Re- 
lazione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti” (1920). Uno dei primi libri pubblicati su 
quest’argomento è stato quello di Procacci G. (2000), Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, 
Bollati Boringhieri, Torino. 

9 Già dall’inizio del conflitto la massa dei prigionieri da gestire costituì un problema per tutte le 
nazioni belligeranti. Gli Italiani prigionieri finivano a Mauthausen , Theresienstadt (nomi divenuti poi 


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Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





gheria a «Cesot-Bei-papa»”°. Qui i prigionieri patirono la fame e solo a dicembre 
Agostino poté inviare una cartolina per dare notizie alla sua famiglia. A gennaio, 
per il freddo, accanto ad Agostino morirà un suo compagno di sventura. 

A fine marzo il prigioniero sarà trasferito, come già accennato, insieme a altri 
2.000, per Kovel, nella «Polonia russa». 

Una parte dei prigionieri, tra cui Agostino, furono adibiti a caricare i vagoni 
nella stazione ferroviaria di Kovel che era un grosso snodo ferroviario. Questa 
«campagnia» l'avevano denominata «compagnia della Morte», poiché chi ci lavo- 
rava era sempre sporco e nero. 

Ad aprile Agostino poté scrivere di nuovo a casa e, poco dopo, a causa di 
una ferita riportata durante il lavoro, fu ricoverato all'ospedale di Kovel, dove fu 
operato a un dito, da sveglio. Da qui trasferito all'ospedale di Chelin”, sempre 
in Polonia, e precisamente al Feldspital n. 140572. Dopo il rientro a lavoro, a 
maggio, il prigioniero si ferì di nuovo, stavolta per operarlo sarà addormentato. 
Durante la degenza al Feldspital n. 1405 ad Agostino gli rubarono il cappotto 
che aveva comprato da un soldato austriaco. Solo a giugno ricevette anche lui 
posta da casa”?. Ma la situazione del prigioniero Si perché da prima verrà 
messo a fare il trasporto dei feriti austriaci, ma anche degli italiani e dei russi e fu 
autorizzato a recarsi in tutte le zone della città. In seguito fu messo a lavorare nella 
cucina di un comando prigionieri 

Agostino intanto seppe che lì vicino vi era un altro prigioniero originario 
di San Miniato. Con piacere Agostino scoprì che si trattava di un suo amico 
d'infanzia: Marzino Bertelli?", con cui iniziò a trascorrere alcune ore quando gli 
veniva permesso. 

Agostino ebbe la fortuna di essere assegnato a fare le pulizie a un ufficiale 
austriaco”?. Con le mance che gli venivano date iniziò ad uscire e andò persino al 
cinematografo e a teatro a vedere il varietà”. 

Ma un improvviso ordine che vietava ai prigionieri di recarsi in città, se non 
accompagnati da militari austriaci, lo fece ripiombare nel suo stato di recluso e 
così non poté più frequentare l’amico Bertelli, né recarsi in giro in città. 

Agostino però riuscì a mantenersi informato comprando la «Gazzetta di 
Trieste»? e finalmente, da casa, ricevette il primo pacco contenente «Riso e dadi 





tristemente famosi), in Moravia a Raabs, a Pilsen e Praga, in Slesia, in Ungheria e perfino in Bulgaria. 
La lista dei luoghi di lavoro poi era veramente lunga. Si trattava di cantieri, industrie, boschi da taglio, 
fattorie, ecc.. 

70 In realtà si scrive Csot Bei Papa. Era un campo di concentramento che accoglieva oltre 30.000 
prigionieri. Ma arrivò a contenerne molti di più. 

7 Non siamo riusciti ad individuare dove si trovava il paese. 

7 Si dovrebbe trattare dell’ospedale da campo n. 1405. 
Il primo pacco spedito dall'Italia arrivò alcuni mesi dopo. Peccato che il contenuto di viveri era 
stato mangiato, come diceva Agostino dagli « Austriaci, perché avevano la stessa fame che avevamo noi 
prigionieri». 

7. Marzilio Bertelli era legnaiolo. 
Agostino lo chiama «Cadetto». 
Egli esce con un prigioniero che fa l'interprete. 
Notizie su questo giornale si possono trovare su Della Peruta E(2011), // giornalismo italiano 
del Risorgimento. Dal 1847 all'Unità, FrancoAngeli editore, Milano 


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Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





Maggi»”*, con cui si preparava il rancio che trovava «con la fame che avevo [...] 
squisito ». 

L'amico Bertelli intanto fu trasferito per Wladimir?. Dei pacchi spediti dalla 
famiglia ne arrivarono ben pochi, la posta arrivava di rado, il rancio era distribu- 
ito una sola volta al giorno e si trattava sempre o di barbabietole e cavolo oppure 
di orzo e cavoli con carne di cavallo, quasi sempre la testa. 

La situazione del vitto peggiorò sempre di più e in seguito i prigionieri ebbero 
solo « un terzo di pagnotta nera circa 200grammi — Crauti lessi e un mescolo di 
Caffé — ma era di Ghiande ». 

Agostino venne a sapere che alla Cancelleria da dove egli dipendeva erano 
arrivate richieste di notizie dalla Santa Sede, dato che la famiglia aveva richiesto 
l'intervento della Curia Vescovile sanminiatese. 

In Città correvano voci sull’arrivo del trattato di pace, ma Agostino non riu- 
sciva più ad acquistare il giornale in italiano. Le poche copie che riusciva a trovare 
erano in tedesco®° che lui, con i commilitoni italiani si facevano tradurre gli arti- 
coli da un loro compagno interprete. 

Finalmente si venne a sapere che l’Austria stava trattando l'armistizio da sola 
e che ogni singolo Paese dell'impero voleva essere indipendente, determinando 
così il crollo dell’impero Austro-Ungarico®!. La Polonia venne abbandonata dagli 
austriaci e insieme a loro partirono anche gli italiani. 

L'8 novembre 1918 Agostino, insieme a molti altri prigionieri*, partì per Che- 
lin. Al mattino seguente arrivarono a Kavel e alla sera a «Wladimir- Valinsch»89. 

Discesi a questa stazione, i prigionieri furono costretti a fare circa 10 km a 
piedi per arrivare al campo di concentramento di «Zimma»*". 

Dai vari segni e comportamenti dei soldati boemi Agostino capì che il mo- 
mento di essere libero si avvicinava: i soldati boemi infatti staccavano i bottoni 
con l’effige austriaca dai cappelli e li gettavano via, al loro posto misero una 
coccarda ua e rossa, in segno di indipendenza dall'impero” e «tra loro regna 
grande allegria, tra noi non meno in quanto sono in circolazione delle voci più o 





78. Il dado “a cubetti” fu un'invenzione di Julius Maggi. 


Forse si trattava del campo di Wladimir Wolkyik. È comunque utile osservare che non vi sono 
notizie esaustive sui campi di concentramento della Prima Guerra, soprattutto di quelli polacchi, un- 
gheresi, slavi, ecc. Come se se ne volesse cancellare la memoria. 

80 Nel diario si fa riferimento al giornale «La Narzhen Zeiturg» 
La dissoluzione dell'impero era già iniziata da tempo, con le continue lotte indipendentiste. La 
Prima Guerra diede alla dinastia asburgica il colpo finale. L'imperatore Carlo I, divenuto erede al trono in 
seguito all’assassinio dello zio Francesco Ferdinando nel 1914, subentrò a Francesco Giuseppe nel 1916. 
Subito dopo la firma della resa, tutti i territori sottoposti al dominio asburgico chiesero l'indipendenza 

8 Erano circa 200 italiani e alcuni soldati russi 
Forse si dovrebbe trattare ancora del campo di Wladimir Wolkyik 
Agostino raccontava che per tutto il percorso piovve a dirotto. Arrivati al campo zuppi d’acqua 
trovarono le baracche sporche e così dovettero anche sopportare l'aggressione dei pidocchi. Qui ad Ago- 
stino, alcuni soldati triestini ancora austriaci gli confermano che l’Austria sta trattando la pace separata 
e che si vocifera dell'occupazione di Trieste e di Lubiana da parte dell'Intesa 

8 Il regno di Boemia, inserito nell'impero asburgico, cessò ufficialmente di esistere alla fine della 
Prima Guerra con la trasformazione nella Repubblica Cecoslovacca (composta dalle regioni della Boe- 
mia, Moravia, Slesia, Slovacchia e Rutenia). 


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meno attendibili e cioè che fra non molto, saremo tutti alle nostre case»80. 

Ancora tutto cambiò per Agostino e gli altri prigionieri. Questi sventurati 
vennero di nuovo trasferiti, e tornarono È nuovo a «Wladimir- Valinsch», ma 
sotto la protezione di alcuni ufficiali triestini, in quanto, con questo ennesimo 
trasferimento, in una zona ancora più lontana, vi era il pericolo di uno sbanda- 
mento dei prigionieri”. 

Ma lo sbandamento non era solo per i prigionieri. La fame, gli stenti, la pover- 
tà era anche «appannaggio» dei civili affamati. Tanto era che È stessi prigionieri 
italiani dovettero fare i turni di guardia per difendere i magazzini dove erano i 
pochi viveri a loro assegnati e che sarebbero dovuti servire ai prigionieri stessi nel 
lungo tragitto per tornare in Italia8. 

In procinto di andare a «Wladimir-Valinsch», ritrovò l’amico Bertelli. Qui i 
prigionieri vennero messi su 40 vagoni scoperti, dove patirono il freddo, ma il 
pensiero della liberazione, e di poter tornare a casa, li faceva gioire. Al mattino 
partirono e un’altra gioia venne da quanto cibo riuscirono a trasprortare. Entra- 
rono in possesso anche dei tanti pacchi inviati dalle famiglie e mai recapitati, di 
coperte e teli per coprirsi dal freddo. 

Il 4 dicembre finalmente partì il treno, ma poco dopo furono costretti a fer- 
marsi perché i civili avevano manomesso la ferrovia facendo deragliare il treno 
allo scopo di impossessarsi del cibo. Solo più tardi il treno ripartì grazie all’inter- 
vento di alcuni soldati tedeschi che viaggiarono con loro. La loro presenza faceva 
vociferare la possibilità di essere portati anziché a Trieste in Germania. In testa al 
vagone vennero piazzate delle mitragliatrici a protezione del treno e il comando 
Lc scortò il vagone®?. 

La mattina seguente il convoglio arrivò a «Brest-Litoxchi»®, poi a «Kielc»? e 
il 7 dicembre arrivarono a Cracovia. Da lì il convoglio proseguì per la Boemia a 
Wel- Welinast??, dove lo stesso giorno arrivarono anche i soldati cechi-slovacchi, 





8 Agostino e gli altri prigionieri ricevono anche 3 kg di gallette ciascuno inviate dal governo ita- 


liano. Che dire in proposito: finalmente l’Italia si ricordava di loro! A detta degli ufficiali quest’invio e 
questo quantitativo sarebbe arrivato ogni 10 giorni. Agostino osserva che questo cibo era arrivato dopo 
ben 13 mesi di prigionia. 

#. Agostino riferiva nel Diario che i prigionieri del campo di concentramento di Sigmusberger, 
uno dei più grandi dell'Austria, erano stati lasciati liberi e allo sbando, senza un aiuto o guida costretti 
a tornare alle loro case ciascuno su propria iniziativa 

#8. Agostino racconta che l’Austria è distrutta. Che vengono alloggiati in una caserma che prima 
era dei cosacchi e poi era stata usata dagli austriaci. La caserma è quasi completamente distrutta. 

8. Arrivati a Kavel, a loro si aggiungono altri prigionieri italiani, si dice che siano gli ultimi inter- 
nati in questa zona. 

9 Località famosa, perché qui a Brest-Litovsk fu firmato il trattato di pace tra Russia ed imperi 
centrali il 3 marzo 1918. È un paese in Bielorissia. Il trattato fu molto importante perché decretò la 
vittoria degli austro-tedeschi sul fronte orientale e l'uscita della Russia dalla Prima Guerra. Dopo il 
trattato iniziarono le rivendicazioni di indipendenza di vari parti dell'impero russo, come l'Ucraina, la 
Bielorussia, ma anche la Polonia. 

% Si tratta di Kielce. Questa è una delle più grandi città polacche e un importante centro com- 
merciale. Negli anni precedenti al primo conflitto mondiale furono diversi i tentativi d’insurrezione da 
parte della popolazione contro il dominio russo. Dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Kielce 
fu la prima città polacca da essere liberata da questo dominio. 

9. Località non individuata. 


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Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





prigionieri probabilmente in Francia. Poi il treno, carico degli sventurati italiani, 
proseguì per Praga e il giorno seguente per Linz, dove i prigionieri, in stazione, 
trovano bandiere dell'Intesa e striscioni inneggianti a Wilson®, Presidente degli 
Stati Uniti. Arrivati a Stigr®“, furono costretti a consegnare alcune balle di farina 
e gallette alla popolazione affamata e Agostino osservava: 


«[...] Qui regna gran fame, e perfino le ragazze, domandano, davanti ai nostri vagoni 
della galletta e che noi offriamo loro, volentieri, in quanto sappiamo che fra poco saremo in 
Italia [. a .]p® 


Il 10 dicembre il treno arrivò ad Innsbruck, dove gli ufficiali tedeschi conse- 
gnarono i prigionieri agli ufficiali italiani e dove i prigionieri italiani dovettero 
cambiare treno, finalmente in vagoni coperti. Il treno quindi poseguì per Bolza- 
no, Trento, Rovereto, Ala, Verona. Infine a Quistello, in provincia di Mantova, 
dove gli ex prigionieri italiani, per i primi due giorni, furono 

«[...]scaraventati in un prato dove stavano 5 soldati per ogni tenda, dopo in alcuni am- 
bienti di civile abitazione dove dormivano in dieci per ogni stanza sistemati su uno strato di 


paglia[...]» 


In questa località rimasero alcuni giorni in attesa di disposizioni. Qui Agosti- 
no, ancora militare, usufruì di una licenza di 20 giorni. Terminata la licenza, il 10 
gennaio 1919, fu destinato al 68° Reggimento di Fanteria a Milano”. A Milano il 
povero Agostino rimase fino al 10 agosto 1919, giorno in cui gli fu consegnato il 


congedo illimitato e poté intraprendere il viaggio di ritorno a casa dopo 39 mesi 
98 


passati in guerra e in prigionia 


Pietro Gozzini, era nato a San Miniato il 19 Agosto 1895 era il terzogenito. 
Aveva imparato il mestiere dal padre Cesare e dal fratello Mario ed era anche lui 
un abile artigiano idraulico (insieme al fratello ed in seguito da solo ha gestito a 
lungo, assumendo molti operai, la storica officina in via Carducci)”. A San Mi- 
niato faceva il «meccanico» o meglio l'idraulico. Arruolato il 13 gennaio 1915 nel 
Corpo del 42° Reggimento Fanteria Brigata Modena! venne assegnato a Ge- 





9. Il principio di autodeterminazione dei popoli fu dichiarato da Wilson, presidente degli Stati 


Uniti d'America, in occasione del Trattato di Versailles. Ma il presidente si era già espresso in questa 
materia. Tale principio avrebbe dovuto guidare gli Stati usciti dalla guerra per tracciare i nuovi confini 
dei costituendi Stati sovrani. In realtà non fu così, e se ne videro le conseguenze, contribuendo ad creare 
le basi per un nuovo conflitto. 

% Località non individuata. 

9 Da come Agostino riportava l'episodio doveva essere molto inconsueto che delle «ragazze», 
chiedessero e si avvicinassero a soldati stranieri, poi ex prigionieri. 

9% Comune in provincia di Mantova. Si trova lungo il fiume Serchia. 
La sede del 68° Reggimento era Milano. 
Nelle lettere di Ida Caponi, futura moglie di Mario Gozzini si fa accenno al ritorno a casa di 
Agostino, sia in licenza che per l’agognato congedo. 

9. Pietro si sposò con Maria Nacci il 16 dicembre 1922 ed ebbero i figli: Bruno, Giulio e Bruna. 
La Brigata “Modena” riunisce i battaglioni del 41° Fanteria, di stanza a Savona, e del 42° Fan- 
teria, di stanza a Genova. 


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Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





nova alla 2° Sezione Mitraglieri!" e dopo 3 mesi di istruzione prestò giuramento. 

Con l’entrata in guerra dell’Italia parti da Genova per Udine e da qui per 
Cividale del Friuli verso le zone di combattimento: Monte Pleca — Monte Nero 
— Monte Merzli (1915 — 1916)!°, 

Esonerato per «morbilità» il 16 dicembre 1918, venne assegnato alle Officine 
Meccaniche di Rivarolo Ligure! e a Torino Arsenale! Fu congedato il 30 ot- 
tobre 1919. Anche lui, come il fratello Agostino, scrisse un suo Diario al ritorno 
dal fronte, riportando gli episodi più salienti delle sue esperienze di guerra. Ha 
vissuto a S. Miniato fino alla morte avvenuta nel settembre 1994. 

Il «Diario», che è «mutilo», in quanto mancante delle ultime pagine, iniziava 
con un «prologo» di Pietro, su «Come e dove ho passato la vita militare avanti e 
dopo la nostra guerra Europea»!°. 

Pietro raccontava come, dopo un giorno passato in treno, il 14 gennaio 1915, 
arrivò a Genova, bianca per la neve. Era notte e i soldati furono fatti incamminare 
fino alla caserma Colombo!. 

Pietro ricordava il dispiacere avuto nel vedersi allontanare dagli amici di San 
Miniato con i quali era partito e che furono assegnati tutti a compagnie diverse: 
«Così rimasi solo e mi misero alle mitragliatrici», ma con sua gioia lì trovò un 
certo «Fontanelli che mi conosceva»! Dopo tre mesi passati a Genova! lo tra- 
sferirono «a fare il Campo»! Arrivò a Millesimo il 3 aprile 1915, dove prestò 


!0! AI momento dell’entrata in guerra ogni battaglione di fanteria e bersaglieri aveva una sezione 


mitragliatrici. L’equipaggiamento di queste sezioni cambiò con l'evolversi della guerra, ma fino al 1917, 
queste sezioni erano mal armate e con armi pert lo più vecchie e inadeguate. 

! Monte Pleca - Monte Nero — Monte Merzli. Queste zone erano importantissime strategica- 
mente. Nella conca di Plezzo gli italiani vi arrivarono già nei primi giorni di guerra percorrendo le varie 
vallate che dalla pianura del Friuli arrivavavano alle Prealpi Giulie. Questa ampio territorio era uno sno- 
do centrale della viabilità di accesso per la Slovenia grazie al passo del Predil e al passo della Maistrocca. 
Il monte Krn, in lingua slovena, è alto mt. 2245 e fa parte di una catena che si sviluppa grosso modo tra 
Tolmino e Plezzo, dominando quasi tutta la vallata del medio Isonzo. Dal Monte Nero partivano due 
strade molto importanti per i rifornimenti che confluivano nella conca alle spalle di Tolmino. Il monte 
Merzli, o meglio Mrzli, si trova a nord di Tolmino, sulla sponda sinistra dell’Isonzo. 

105 A Rivarolo, quartiere genovese nella bassa Val Policella, nelle Officine Meccaniche di Rivarolo 
Ligure furono installate le Officine elettromeccaniche del gruppo Piaggio che si aggiunsero ad una serie 
di officine meccaniche della Società ferroviaria del Mediterraneo di Genova, che avevano sede anche in 
altre parti di Genova e dei comuni limitrofi. Cfr 

Lamponi M. (1975), La storia di Rivarolo Ligure, Valenti, Genova. E cfr, Coppa A. (a.a. 2003- 
2004), La Val Polcevera: industriale. Sviluppo e declino (1880-1980), Facoltà degli Studi di Genova, 
Facoltà di Economia, tesi di Laurea, Relatore prof. M. Doria. 

19 Sorse come Regia Fabbrica delle Polveri e Raffineria dei Nitri e ospitò, a partire dal 1867, alcune 
lavorazioni del Regio Arsenale. Ebbe un rapido sviluppo durante gli anni della Prima Guerra Mondiale 
e a cavallo dei due conflitti mondiali occupandosi della produzione di materiale bellico. 

105. APBG, Diario di Pietro Gozzini. 

16 Non siamo riusciti ad individuare quale fosse la Caserma Colombo a Genova. 

107 APBG, Diario di Pietro Gozzini 

108 Nel diario sono annotati molti indirizzi di persone conosciute nel periodo trascorso a Genova. 
Pietro non aveva difficoltà a socializzare ed era rimasto molto legato a questa città, tanto che volle por- 
tarci la moglie in viaggio di nozze nel ’22 e raccontava di aver visitato il “Conte Rosso” e il “Biancamo- 
no”, piroscavo rimasto in cantiere durante la guerra e dove si fece fotografare con la moglie. 

199 Per “Fare il Campo” si intendeva il luogo dove si facevano esercitazioni militari. 


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Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





giuramento «in un monte storico dove aveva combattuto Napoleone»!!°. 

Tornato a Genova egli raccontava come la città vivesse l'approssimarsi del 
possibile conflitto. 

Non passava giorno che non vi fossero articoli di giornali sull’avvicinarsi della 
guerra in città e «[...] tutti i giorni vi era il picchetto armato causa le grandi dimostrazioni 
favorevoli e contro la guerra [...]»!!!. 

Anche Pietro si trovò a fare «un gran picchetto» e dovette «[...] mandare indietro 
col fucile tutti quelli che si spingevano avanti gridando w la guerra m l’Austria [...]»!!?. 

Pochi giorni dopo in caserma vi era un gran caos. Ciò faceva presagire l’im- 
minente partenza per il fronte e che «non vi era più via di scampo», «infatti il 13 
maggio si partì per ignota destinazione». 

Dopo 3 giorni di treno il convoglio militare arrivò ad Udine. Il treno era «lun- 
go e per discendere ci volle del tempo». 

Ma ancora il viaggio non era finito e così i soldati affrontarono altre 2 ore di 
strada a piedi. Arrivati a destinazione, tutti furono divisi per compagnie, plotoni 
e squadre. Gli fu ordinato di fare le tende e Pietro aggiungeva: «Immaginatevi 
che confusione nessuno era pratico di farne una». Ma molti, non riuscendovi, 
dormirono per terra e ancora non si erano riposati che vi fu la sveglia e dovettero 
rifare «fagotto». 

Lungo il tragitto i soldati trovavano dei «paesetti» e Pietro scriveva che «la 
popolazione [era] molto allegra verso di noi»!!. 

Arrivati a Moimocco!! ti le truppe si fermarono per 3 giorni. Dovevano 
arrivare a Cividale 


«[...] ultima città del territorio italiano e non vi era altro che poco cammino da fare per 
arrivare al territorio austriaco. Ma non importa oramai il pensiero era di già fatto e tutti era- 
vamo contenti, pur sapendo di già quello che avveniva[...]». 


115 


Il 18 maggio la truppa arrivò a Cividale in Friuli! e li fecero riposare 


!!° Pietro si riferiva alla “battaglia di Millesimo” che fu combattuta tra il 13 e il 14 aprile 1796 dalle 


truppe austriache della prima coalizione, comandate dal generale Jean-Pierre de Beaulieu, e dalle truppe 
del Regno di Sardegna contro quelle francesi dell’Armata d’Italia comandata dal generale Napoleone 
Bonaparte. 

!!! APBG, Diario di Pietro Gozzini 

!!2 Come in quasi tutte le città d’Italia, prima della dichiarazione di guerra e subito dopo, si sus- 
seguirono in tutto il Paese manifestazioni e scioperi che vedevano contrapposti due schieramenti: gli 
interventisti da una parte, che premevano per l’ingresso dell’Italia in guerra, e i neutralisti dall’altra, che 
al contrario speravano di tenere fuori il paese dal conflitto. A Genova, ad esempio, il 5 maggio 1915, 
pur non essendosi ancora saputo ufficialmente dell’intenzione del governo di dichiarare la guerra, in 
occasione delle celebrazioni del Primo Maggio si formarono due cortei che arrivarono allo scoglio di 
“Quarto”, dove era partito Garibaldi, e dove si sarebbe dovuto inaugurare il monumento all’Eroe. Qui 
intervenne D'Annunzio con un discorso in favore dell'intervento. A queste manifestazioni risposero 
manifestazioni neutraliste, specialmente in Toscana ed Emilia Romagna, dove si arrivò addirittura a 
scontri violenti. A Torino le manifestazioni neutraliste furono imponenti e portarono ad uno sciopero 
generale contro la guerra. 

153 APBG, Diario di Pietro Gozzini. 

14 Paese in provincia di di Udine presso Cividale. 
Cividale fu al centro del conflitto. Fu sede, per un breve periodo, del comando della II armata 
e rimase anche danneggiato da bombardamenti aerei. Il 27 ottobre 1917, in seguito alla rotta di Capo- 


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Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





«[...] in un campo dove era seminato il granturco, affamati, stanchi ci misero a lavorare 
per fare le tende, il terreno era morbido e i picchetti non stavano al posto, allora noi si pensò 
di andare alle viti e li a stroncare legni per fare i picchetti e bastoni, finalmente dopo tanto 
lavoro s'era terminato ma però mancava una cosa. Mancava la paglia e noi vedemmo un pa- 
gliaio di la dal fiume, non si messe tempo in mezzo in un minuto non vi era rimasto altro che 
il fusto [...] tutto era a posto ma di mangiare non se ne parlava [...]» 


Il 23 maggio il tenente radunò i soldati e gli comunicò la notizia che l’Italia 
era entrata in guerra. L'ufficiale ricordò ai soldati di pensare 


«[...] al momento in cui noi siamo, tocca a voi prestarvi a dare il vostro sangue per la 
Patria. L'ora è già sonata per voi in cui bisogna farsi prevalere le ragioni [...]». 


Pietro ricordava che la notte 


«[...] non si dormì mai e arrivati alle 2 di mattina si sentì suonare l’armi. Non potete 
immaginare il movimento che vi era nelle truppe. E in mezzora (sic/) tutto era al posto pronti 
per partire. Tutto fu proseguito in silenzio e in ordine e allo spuntar del sole già ci si trovava 
sotto quelle famose montagne, ove vi risplendeva sulle [...] alte vette i grappi di neve!!°. Il 
prete militare ci stava sempre dietro, e veniva da noi dicendoci di confessarci [...] spesso si 
rivedeva il cappellano con qualche soldato la ad una macchia e lì li confessava, di lì in poi 
pensai che non vi fosse più scampo [...]» 


La marcia verso il fronte continuava e Pietro raccontava che erano passati in 
alcuni paesi, in uno di questi San Pietro al Natisone! aveva perfino fatto un 
bagno ma aggiungeva 


«[...] non vi potete immaginare la paura nel sentire i primi spari del cannone. Il tenente ci 
faceva di coraggio, rideva ma noi se n’aveva poca voglia [...] non potete sapere quanto erava- 
mo impressionati. Finalmente dopo qualche giorno ci fecero partire per occupare un piccolo 
villaggio chiamato Clenire alle falde del Monte Nero! A dire come si fece il cammino per 
arrivare sarebbe troppo da scrivere. Vi dirò soltanto che dopo aver camminato 10 ore sempre 
di seguito sotto l’acqua, passando [...] torrenti si arrivò al posto la mattina del 2 Giugno [...] 
Eravamo tutti bagnati, + angosi . non poter più camminare. Ci fecero accendere dei fuochi 
per scaldarci, ma ci fece male alla testa[...]». 


Ripartiti Pietro raccontava di come la marcia fosse silenziosa e man mano che 
si avvicinava il fronte 


«[...] Il cannone si faceva sentire sempre di pe ogni poca strada facendosi si incontrava 
bersaglieri ciclisti motociclisti, e noi curiosi si faceva loro delle curiose domande, e non ci 
pareva di arrivare al momento di partecipare pure noi a qualche impresa. Via via si passava 


retto, Cividale fu occupata dalle truppe austriache. 
!!6 Intesi, forse, come “grappoli di persone”. 

Il Comune si trova in provincia di Udine in Friuli Venezia Giulia. Strategico durante la Prima 
Guerra mondiale, fu al centro dei combattimenti. Infatti nei pressi del paese si trova la cima del monte 
Matajur e la dorsale del Colovrat, dove vi era la linea difensiva della Seconda Armata a protezione della 
pianura friulana. Il 24 ottobre 1917 il territorio comunale venne sottoposto ai bombardamenti che 
diedero inizio alla battaglia di Caporetto, ed in seguito il suo territorio fu invaso dalle truppe austro- 
tedesche che, dopo l'occupazione, proseguirono verso il Piave. 


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Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





dei villaggi, ove si trovava delle pezze bianche alle finestre in segno di arrivederci!!8. I giorni 
passavano e noi si procedeva sempre avanti e nelle file dei nostri soldati ci pareva d’andare a 
Trieste in 15 giorni. Finalmente arrivati a Caporetto il giorno 26, paese occupato dai nostri 
il giorno avanti si trovò tutto imbandierato e i nostri bravi soldati si erano già accantonati in 
vari posti [...]»!!. 


La marcia si arrestò momentaneamente a Caporetto giacché il ponte sul fiume 
Isonzo era rotto in due parti. Ma i soldati del «Genio» in poco tempo costruirono 
un ponte di legno, così da permettere alla truppa di attraversare il fiume a piedi. I 
soldati proseguirono verso il paese di Idesco!?° e per una mulattiera cominciarono 
a salire verso il monte Pleca!?! e dopo 10 ore di cammino si riposarono. 

E Pietro diceva: «[...] Non vi potete immaginare la differenza di clima che si trovò un 
freddo la notte e la mattina che quando ci si destò eravamo tutti rappresi[...]». 


Da li proseguirono su per il monte. Il cammino fu lungo e impervio prima di 
arrivare a destinazione. I soldati erano stanchi e affamati. Dopo un po di riposo 
la truppa fu messa a lavorare per fare la trincea dove potersi accampare e con- 
trollare i movimenti dei nemici: «[...] tutti curiosi si guardava sempre dove sparava il 
cannone. Ogni tanto si vedeva dei nuvoli di fumo e subito dopo il rombo. Non potete sapere 
quanto eravamo impressionati [...]»!??. 

Pochi giorni dopo la compagnia dove era Pietro fu fatta ripartire per occupare 
il villaggio di Cherin, alle falde del monte Nero!5. 

Dopo poco che ebbero occupato il villaggio, dove erano rimasti solo i vecchi 
e i bambini, il nemico iniziò a lanciare granate. 

Il «Diario di guerra» di Pietro Gozzini si conclude così. Mancano molte pa- 
gine sui fatti accaduti in seguito, ma ci danno la dimensione di quello che visse 
Pietro stesso!‘ con i suoi sventurati compagni. 

In seguito fu ricoverato per sospetto congelamento ai piedi (morbilità) all’o- 
spedale militare, dove, dopo poco tempo, come ha raccontato spesso in famiglia 
durante la sua lunga vita, simulando una malattia molto grave, con il favore del 
tenente militare e l’aiuto di alcune suore, ottenne una licenza e in seguito l’esone- 
ro dal servizio attivo in zona di guerra (16.12.1918). Passerà il resto del militare 
assegnato alle Officine meccaniche di Rivaloro Ligure e in seguito a Torino Arse- 
nale, dove si producevano armi per il fronte'??. Fu congedato il 30 ottobre 1919. 





!!8 Forse, più che un saluto, era un segnale di «resa». 


159 APBG, Diario di Pietro Gozzini. 

120. Il paese di Idesco è Idesco sull’Isonzo frazione di Caporetto oggi in Slovenia. 

La linea che dal monte Pleca scendeva alla strada del fondovalle era di vitale importanza per 
la solidità del sistema difensivo italiano, dato che, se gli austro-tedeschi l’avessero oltrepassata, avrebbe 
potuto risalire l’Isonzo alle spalle dell'esercito italiano. 

122 APBG, Diario di Pietro Gozzini. 

123. Pietro racconta sommariamente le difficoltà del cammino verso il villaggio, dove dovettero far 
fronte a dirupi, torrenti, scarpate, ecc. I soldati arrivarono nel villaggio, tutti bagnati e fangosi, dove 
erano rimasti solo i vecchi e i bambini. 

124 Pietro ha raccontato a figli e nipoti un episodio in cui si era visto perso. Una volta gli fu ordina- 
to di portare alla trincea una mitragliatrice e poiché la strada era lunga e in salita, per alleggerire il peso 
lui svuotò il serbatoio dell’acqua di raffreddamento (per durare meno fatica), ma quando cominciarono 
a sparare, l'arma si surriscaldò e si inceppò. Fu scoperto il colpevole e per punizione fu legato per un 
certo tempo ad un palo, fuori dalla trincea e quindi senza protezione dal fuoco nemico. Per fortuna non 
fu colpito (non spararono) e se la cavò con un enorme spavento. 619 


211 


Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





Tutti e tre i fratelli Gozzini tornarono a San Miniato sani e salvi nella loro 
famiglia che, per ironia della sorte aveva perso l’unica figlia femmina a causa della 
“Spagnola”. 

In vario modo i tre fratelli hanno lasciato una testimonianza importante sulla 
loro vita durante la Prima Guerra mondiale, con i loro diari, con la loro corri- 
spondenza, i loro documenti, i loro racconti, che testimoniano la crudezza del 
conflitto, i disagi, la lontananza da casa, la paura provata, da loro come da tutti 
questi giovani soldati che parteciparono al Primo conflitto. 


Fonti 


Archivio Privato Luigi Giunti (APLG) 

Archivio Privato Bruna Gozzini (APBG) 

Archivio Privato Giovanni Gozzini (APGG) 
Archivio Curia Vescovile (ACVSM) 

Archivio Storico Comune di San Miniato (ACSM) 
Archivio di Stato di Firenze (ASFi) 


Bibliografia 


Copra A. (a.a. 2003-2004), La Va/ Polcevera industriale. Sviluppo e declino (1880- 
1980), tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova, Facoltà di Economia, 
relatore prof. M. Doria 


CapPELLANO F. (2015), Cadorna e le fucilazioni nell'esercito italiano (1915-1917), 
Annali n. 23, Museo Storico Italiano della Guerra 


DeLLa PERUTA F. (2011), // giornalismo italiano del Risorgimento. Dal 1847 all'U- 
nità, Franco Angeli editore, Milano 


ForceLLA E., MonTICONE A. (1968), Plotone di esecuzione, I processi della Prima 
Guerra Mondiale, Laterza, Bari, (I ed.) 


Lamponi M. (1975), La storia di Rivarolo Ligure, Valenti, Genova, 
MAncONE A. (1994), Luigi Capello, Milano 


Procacci G. (2000), Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Bollati 
Boringhieri, Torino 


Rocca G. (1985), Cadorna, Milano 
Sitografia 
www.pietrigrandeguerra.it 


www.storiaememoriadibologna.it 
www.cimetricee.it 





125 Nel diario infatti sono presenti molti piccoli disegni schematici di mitragliatrici. 


620 


Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 








Fig. 1: Mario Gozzini durante la Prima Guerra 


621 


Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 








Fig. 2: Ida Caponi futura moglie di Mario Gozzini 


622 


Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 








Fig. 3: Libretto dove si vede la squadra di soldati comandati dal caporale Mario Gozzini 


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Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 


Fig. 4: Libretto di volo di Mario Gozzini 
624 





Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 


Fig. 5: Mario Gozzini in divisa militare 





Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





Fig. 6: Alfabeto Morse 
studiato da 

Mario Gozzini 

per le comunicazioni 





626 


Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 


Fig. 7: Libretto di Istruzioni Volo di Mario Gozzini 





Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 








Fig. 8: Tessera dei Combattenti e Reduci intestato a Mario Gozzini 





Fig. 9: Agostino Gozzini in divisa militare 


628 


Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 








Fig. 10: La moglie di Agostino Fortunata Corsi 


629 


Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





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Ricngo di Gorizia 


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Fig. 11: Soldati del campo di concentramento dove era Agostino 


630 


Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 














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Fig. 12: Agostino durante la prigionia 
631 


Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 


Fig. 13: Agostino con la moglie 


632 





Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





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Fig. 14: Agostino alla fine degli anno Trenta del Secolo Passato 


633 


Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 


Fig. 15: Agostino alla fine degli anno del Secolo Passato 


634 





Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 








Fig. 16: Agostino Gozzini in un momento di relax al mare 


635 


Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 








Fig. 17: Pietro Gozzini 


636 


Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 








Fig. 18: Pietro Gozzini con la moglie Maria Nacci 


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Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 








Fig. 19: Diario di Pietro Gozzini 





Fig. 20: Enrica Gozzini 


638 


Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 


Fig. 21: Il Diario di Pietro Gozzini 





ici Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 





Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 








Fig. 22: Disegni fatti da Pietro di una mitragliatrice 


641 


Luigi Giunti, Bruna Gozzini, Giovanni Gozzini, Manuela Parentini 











no Ns. 
) Mod.N, #9, i 
Zugulam, pol Roelutam, (4 448) 


SN del Catal. CR, 1818). 















TO. MILITARE M Bi; 





BEDO ILLUMIT 


na care. 15 





Fig. 23: Foglio di Congedo Pietro Gozzini. 


642 


Sanminiatesi al fronte. I fratelli Gozzini 





PET 


) 





Fig. 24: Tessera dei Combattenti e Reduci di Pietro Gozzini 


643 


La strage della stazione di San Miniato — 7 Aprile 1944 





FRANCESCO FIUMALBI 


Introduzione: la Stazione di San Miniato 

Nel progetto originario della Strada Ferrata Leopolda non era prevista alcuna 
fermata nel Comune di San Miniato, poiché nel rettilineo fra San Romano ed 
Empoli non vi erano centri urbani significativi. Tuttavia, con il completamento 
del tratto Pontedera-Empoli nel 1847), la stazione fu realizzata, sebbene indicata 
col nome di “San Pierino”, il centro situato a nord della ferrovia nel Comune di 
Fucecchio. Più a sud si trovava l’abitato di Pinocchio, ribattezzato San Miniato 
Basso dal 1924. Dunque la stazione fu realizzata in una zona che alla metà del 
XIX secolo si presentava completamente agricola, al di fuori di centri urbani di 
rilievo, a cui era collegata attraverso la viabilità esistente di origine medievale?. E 
qui nel 1857 fece una breve sosta Papa Pio IX, accompagnato dal Granduca Leo- 
poldo II durante il viaggio in Toscana, salutato da una folla stimata in 15-20.000 
persone”. Nel 1869 dopo alterne vicende, fu inaugurato il ponte presso Fucec- 
chio. Era stato iniziato nel 1854 proprio per favorire gli spostamenti da e verso 
la stazione. Alla fermata viaggiatori si unì lo scalo merci e nei campi circonvicini, 
specialmente nel Primo Dopoguerra, cominciarono a nascere alcune attività. Da 
ricordare la SAIAT, acronimo di Società Anonima Industrie Alimentari Toscane, 
meglio nota come la “fabbrica delle conserve”, la cui ciminiera è a tutt'oggi l’e- 
dificio più alto di San Miniato Basso e ne caratterizza il paesaggio urbano. Era 
presente anche una piccola struttura alberghiera. Nei pressi fu attivato anche un 
distaccamento circondariale del Consorzio Agrario della Provincia di Pisa che, 
grazie alla ferrovia, garantiva l’approvvigionamento dei primi antiparassitari e 
dei primi concimi chimici. Inoltre poteva ammassare e successivamente inviare i 
prodotti agricoli coltivati nella piana sanminiatese. Poco dopo l’attivazione della 
ferrovia, fu installata anche la i telegrafica e presso la stazione fu costruito 





! Sulla costruzione della ferrovia si veda Landi 1974. A San Miniato, in occasione dei 150 anni 


dalla costruzione della linea ferroviaria, fu allestita una mostra. In proposito Giuntini 1997. 

2 Anche Carlo Lorenzini ne Un romanzo in vapore riporta la denominazione di San Pierino. 
Collodi 1856, pp. 133ss. 

3. In particolare si tratta della medievale Strata vie nove qua itur Ficecchium, documentata negli 
Statuti trecenteschi di San Miniato e realizzata fra gli ultimi anni ’80 e i primi anni ’90 del XIII secolo. 
In proposito Fiumalbi 2012, pp. 394, 397. 

4 Della sosta di Pio IX presso la Stazione di San Miniato rimane l'articolo pubblicato dal «Moni- 
tore Toscano», n. 202 del 1 settembre 1857. Una fonte narrativa è rappresentata anche dal testo, redatto 
sotto forma di scartafaccio da Antonio Vensi. In proposito Archivio Storico del Comune di San Mi- 
niato, Scartafaccio di me Antonio Vensi dall'anno 1842 fino all'anno 1893, cc. 132r-133v. Si veda anche 
Piombanti 1894, pp. 47-48. 


645 


Francesco Fiumalbi 





l’edificio della posta e del telegrafo ad uso pubblico. Solo in un secondo momen- 
to, infatti, la linea telegrafica fu allungata fino al centro storico di San Miniato”. 
Dunque attorno alla stazione nacque un piccolo aggregato, con numerose attività 
e servizi, che fu collegato definitivamente a San Miniato Basso fra gli anni ’50 
e 60 del XX secolo, con lo sviluppo urbanistico lungo l’asse di viale Guglielmo 
Marconi°. 


Il contesto: l’ Operation Strangle 

Durante la cosiddetta “Campagna d’Italia” (1943-1945) i civili furono diret- 
tamente coinvolta nelle azioni belliche. Per le persone fu un'esperienza completa- 
mente nuova. D'altra parte, l’ultima guerra combattuta nel territorio sanminia- 
tese risaliva ad oltre quattro secoli addietro. Dunque, la popolazione non aveva 
una memoria personale o familiare che in qualche Lu potesse far presagire 
il dramma che si sarebbe consumato. Gli uomini avevano partecipato in massa 
alla Grande Guerra, il cui ricordo era continuamente riproposto attraverso i nu- 
merosi luoghi della memoria, allestiti in tutto il territorio comunale®. Tuttavia, 
i reduci delle trincee del 1915-18 conservavano un ricordo legato alla guerra, 
sì drammatico, ma non paragonabile con quanto stava per accadere. Infatti, ri- 
spetto alla “Grande Guerra”, nel giro di un quarto di secolo, le tattiche e gli 
armamenti militari avevano maturato un'evoluzione significativa: da una guerra 
di posizione, basata sostanzialmente sul logoramento del nemico e sull’apporto 
principale delle fanterie e delle artiglierie, si era passati ad un conflitto in cui la 
marina e l'aviazione erano utilizzati in maniera complementare e sincronica alle 
forze terrestri, in larga parte motorizzate e corazzate. Ciò produsse modalità di 
guerra totalmente diverse, contraddistinte da aggressioni e occupazioni terrestri 
su larga scala, con la possibilità di effettuare incursioni e colpire obiettivi molto 
lontani dal fronte. Più recentemente l’Italia era stata impegnata nella campagna 
coloniale in Africa Orientale o nella Guerra Civile Spagnola?, due conflitti che 


° L'ufficio postale e telegrafico si trovava nell'edificio neomedievale all’angolo fra la via che con- 


duce alla stazione e via dei Fossi, oggi abitazione privata. Era gestito da Carlo Morelli di Luigi e Maria 
Bagnoli [Forcoli, 1886 — San Miniato, 22 luglio 1944]. Originario di Forcoli e vedovo di Ida Sardelli, 
abitava a San Miniato Basso dove era Direttore dell'Ufficio Postale. Durante i giorni del passaggio del 
fronte sfollò a San Miniato presso l'abitazione del Direttore delle Poste assieme alla figlia. Successiva- 
mente si spostò in Valdegola e il 22 luglio 1944 raggiunse Collebrunacchi. Mentre stava scendendo 
verso Corazzano, in Loc. Cappitrone, fu colpito da un colpo d'artiglieria, probabilmente statunitense. 
Nel medesimo episodio rimase ucciso anche Giovanni Mascagni che abitava in quel luogo. Furono 
sepolti nel Cimitero di Corazzano. Successivamente la salma di Carlo Morelli fu tumulata al cimitero 
di San Lorenzo. Archivio Diocesi di San Miniato, Archivi Parrocchiali, Duplicati dei Registri dei Morti 
(varie parrocchie), n. 598, Corazzano, anno 1944; Niccolai 2013, pp. 57-59. 

6 La denominazione di viale Guglielmo Marconi risale al 25 aprile 1939, nell’ambito delle cele- 
brazioni approntate in occasione del 65° anniversario dalla nascita dello scienziato. Archivio Storico del 
Comune di San Miniato, F200 S022 UF32, n. 748, Archivio Postunitario, Protocolli delle Deliberazioni 
della Giunta Comunale, Protocolli delle deliberazioni del Podestà, delib. 25/1939. 

7. Per un quadro generale del contesto italiano la bibliografia è sterminata. Per semplicità si riman- 
da a Liddell Hart 2009, pp. 735-761; Von Senger 2002, pp. 172-440; Klinkhammer 2016. 

In proposito si veda Fiumalbi 2019a, pp. 65-146. 
Si ha notizia di due volontari per il Fronte Popolare (Florindo Eufemi e Oreste Ristori) e 7 
volontari della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), inquadrati nel Corpo Truppe 


9 


646 


La strage della stazione di San Miniato — 7 Aprile 1944 





tuttavia si erano consumati in contesti geopolitici e secondo modalità particolari. 
Ciò fa comprendere come la popolazione fosse completamente impreparata ad 
affrontare un diretto coinvolgimento in una guerra di tale dimensione, combat- 
tuta con tattiche e tecnologie nuove. Anche per questo motivo, le conseguenze 
per i civili furono drammatiche: nel territorio sanminiatese le vittime civili asce- 
sero a circa 250 unità". 

Nella primavera del 1944 l’Italia era spaccata in due: al centro-nord la Repub- 
blica Sociale Italiana e l'occupazione tedesca, al centro-sud il Governo Badoglio 
sostenuto dalla monarchia sabauda e l'occupazione alleata, con gli eserciti che 
si stavano fronteggiando a sud di Roma. È in questo contesto che prese avvio 
la cosiddetta Operation Strangle — l'operazione “strangolamento” — con l’obiet- 
tivo strategico di interrompere o ridurre il più possibile le linee di approvvi- 
gionamento tedesche attraverso l’uso massiccio dell’aviazione, con operazioni di 
interdizione aerea, bombardamenti e incursioni. Nelle intenzioni degli Alleati 
ciò avrebbe dovuto costringere la Wehrmacht a ritirarsi, cosa che avvenne solo 
dopo l’Operation Diadem o IV Battaglia di Montecassino nel maggio successivo!!. 
Uno degli obiettivi colpiti durante l'Operation Strangle fu proprio la stazione di 
San Miniato. 


La strage della Stazione di San Miniato 

Era il 7 aprile 1944, il Venerdì Santo. Quell’anno si prospettava una Pasqua 
davvero molto difficile, con le forze aeree alleate impegnate a colpire gli obiettivi 
strategici, i depositi e le vie di comunicazione dell’Italia centro-settentrionale per 
“strangolare” il nemico tedesco. I bersagli più importanti erano le linee ferroviarie 
ed in particolare i ponti, poiché una volta danneggiati o distrutti venivano ripri- 
stinati con maggiore difficoltà e potevano passare anche diverse settimane prima 
che la linea fosse di nuovo percorribile. Bloccare una ferrovia significava arrecare 
gravi danni con uno sforzo relativamente limitato, e costringere l'avversario a 
dover adoperare decine e decine di camion per trasportare le truppe, le munizioni 
e i generi alimentari che potevano essere caricate su un unico treno. Nel caso di 
San Miniato Basso, la stazione era situata all'intersezione fra la ferrovia e l’unica 
strada che metteva in comunicazione San Miniato al ponte di Fucecchio: colpire 





Volontarie, della Missione Militare Italiana in Spagna a sostegno del il Bando Nacional di Francisco 
Franco (Ugo Capponi, Galliano Caciagli, Ugo Giglioli, Giuseppe Bertini, Luigi Falaschi, Alessandro 
Martelloni, Cesare Paletti, Ezio Nacci, Adone Grossi). Di questi tre furono caduti sul campo di battaglia 
(Florindo Eufemi, Ezio Nacci e Adone Grossi). In proposito si veda «La Domenica», Anno I, n. 36 del 
5 settembre 1937, p. 3. 

!° Allo stato attuale delle ricerche sono stati individuati 251 nominativi di vittime civili, decedute 
per fatti di guerra, fra l'estate del 1943 e la fine del conflitto. I caduti militari, su tutti i fronti bellici, 
sono stati individuati in numero di 145 unità, portando il totale complessivo a 406 morti. Durante la 
“Grande Guerra”, invece, i caduti furono interamente militari e assursero al numero di 565. Comples- 
sivamente la popolazione del Comune di S. Miniato, nei due conflitti mondiali del XX secolo, contò 
971 morti accertati, su una popolazione di poco superiore alle 20.000 unità, dunque intorno al 5%. 
Ho trattato in passato l'argomento delle uccisioni di civili nel territorio sanminiatese, con particolare 
riferimento alla Strage di Stibbio-Vaghera. In proposito Fiumalbi 2019b, pp. 509-521. 

!! In proposito si veda Sallagar 1972; Fischer 1993. Per un quadro generale della situazione circa 
l'occupazione dell’Italia meridionale fino alla primavera 1944 si rimanda a Liddell Hart 2017, pp. 701- 
716. 


647 


Francesco Fiumalbi 





in quel punto avrebbe significato interrompere non solo la viabilità ferroviaria, 
ma anche quella veicolare. 

Nel primo pomeriggio di quel giorno, tre-quattro squadriglie di aerei erano 
transitati dal territorio sanminiatese. Enzo Giani, testimone oculare, nelle pagine 
del suo diario riferisce di bombardieri inglesi scortati da caccia. In realtà, molto 
probabilmente, si trattava di aerei statunitensi che facevano ritorno in Corsica"? 
dopo le azioni pianificate: in particolare, quel giorno, fu colpita la stazione ferro- 
viaria di Prato!' e venne bombardata la città di Treviso!*. Poi, verso le 17.15, una 
squadriglia di aerei cominciò a volteggiare attorno al fabbricato della stazione di 
San Miniato. Queste le parole di Enzo Giani: 


Alle ore 17,15 circa [...] mi sono affacciato alla finestra ed ho sentito gli apparec- 
chi. Mi sono gettato fuori di casa e siamo scappati sopra al rifugio. Erano i 
da caccia che giravano sopra alla stazione, si incrociavano, tornavano indietro, poi 
uno di questi si è lanciato in picchiata mentre noi siamo riusciti ad entrare nel rifu- 
gio. Abbiamo udito un'esplosione seguita da altre due o tre, e accompagnate dall'ulu- 
lare dei motori in picchiata. La paura ci ha invaso in quei momenti terribili, tutti 
rannicchiati lè dentro fissi in un solo d-. che si confonde fra la vita e la morte. 
Quando sono uscito ho veduto tutto il fumo dalla parte della stazione, e infatti è stato 
quello l’obiettivo di quei sedici cacciabombardieri. Poco dopo è tornata mamma che 
era andata a fare l'erba nei campi limitrofi alla ferrovia. Gli impianti colpiti sono la 
casa del gestire e di Matteucci, la ferrovia da ambedue le a. del fabbricato viaggia- 
tori e lo scalo merci. Altre bombe sono cadute negli orti dei capi stazione. Il Brotini è 
rimasto iaia ad una spalla; la signorina Rossi Fao nel dorso ed il figlio del titolare 
ferito alla testa. Altri ann il Matteucci e sua moglie e contusioni le hanno riportate 
il capo stazione Rossi. Il Chiaravelli, sua moglie e sua figlia (la piccola), non li hanno 
ancora trovati perché sepolti dalle macerie. Speriamo che siano ancora vivi! È cosa in- 
degna e vergagniosa per una umanità che si vanta civile il far guerra alle popolazioni 
inermi. [... 


Nel caso della stazione di San Miniato, in realtà, non si trattò di un vero e pro- 
prio bombardamento, bensì di un'incursione aerea!°. La vera novità dell’operazio- 
ne Strangle, infatti, fu l'utilizzo di cacciabombardieri, ovvero aerei in i di so- 
stenere dai aereo ma anche di sganciare ordigni e quindi di colpire 
bersagli a terra. Erano aerei che non avevano la capacità distruttiva delle “fortezze 
volanti”, ma erano in grado di svolgere operazioni molto più rapidamente (erano 
molto più veloci dei bombardieri) e soprattutto potevano scendere in picchiata e 





12 E noto che l’aviazione inglese operasse in ore notturne, mentre di giorno erano attivi prevalen- 


temente gli acrei statunitensi. 

!5 Cardini 2004, p. 203. 

#4 Brunetta 1992. Dal Veneto, per rientrare alle basi della Corsica, i bombardieri statunitensi 
passarono necessariamente sopra la Toscana. 

!5 Giani 2003, pp. 105-106. 

6 Conl’appellativo di “bombardamento”, vengono indicate le operazioni pianificate: una squadra 
di bombardieri, scortata dai caccia, si alza in volo con un obiettivo specifico, lo colpisce e fa rientro alla 
base. L’'incursione aerea, invece, è un'operazione estemporanea: alcuni aerei, passando dalla zona, si ren- 
dono conto che un edificio, una infrastruttura può avere un ruolo strategico e lo colpiscono. 


648 


La strage della stazione di San Miniato — 7 Aprile 1944 





raggiungere un grado di precisione nettamente superiore. Proprio a partire dall’a- 
prile del 1944 i cacciabombardieri statunitensi P47 Thunderbolt — “fulmine” di 
nome e di fatto — cominciarono ad attaccare quotidianamente le vie di comuni- 
cazione toscane, ed in particolare le ferrovie. La base di partenza era la Corsica 
liberata: dall'Aeroporto di Bastia e dalla base di Alto (oggi dismessa). Qui erano 
dislocate le “ali” della Twelfth Air Force statunitense si in particolare del 57th 
Fighter Group che nei primi giorni di aprile 1944 superò le 50 sorties al giorno! 
Da un punto di vista tattico, durante le sortite aeree i piloti, oltre a cercare di col- 
pire obiettivi prestabiliti e pianificati, avevano carta bianca sui cosiddetti targets of 
0 ni i bersagli estemporanei dettati dall’opportunità del momento. È uno 
i questi fu proprio la stazione di San Miniato-Fucecchio!8. 


Nel drammatico episodio, che scosse la comunità di San Miniato Basso, per- 
sero la vita quattro persone: Pietro Chiavarelli, 47 anni, nato il 4 febbraio 1897, 
originario di San Giovanni Valdarno (FI) e “gestore” per le Ferrovie; la moglie 
Matilde Zazzeri, 43 anni, nata il 25 maggio 1901, insegnante elementare e la 
figlia Piera Chiaravelli di quasi 8 anni, nata il 2 agosto 1936. Gli altri due figli, 
Vilna e Vico, sopravvissero miracolosamente, probabilmente perché si trovavano 
a giocare da alcuni amici e non erano in casa. L'abitazione dei Chiavarelli andò 
completamente distrutta. Era situata nel punto dove attualmente è presente la 
scala che scende dal piazzale antistante la stazione verso la fermata autobus lungo 
viale Marconi. Al piano superiore abitava la famiglia Girelli, rimasta incolume 
poiché le persone non si trovavano in casa. La quarta vittima fu Rosa Ulivieri di 
67 anni, vedova Serafini, figlia di Pietro e Sestilia Montanelli. Spesso era ospite 
del nipote Alfredo Ulivieri, ma in quel momento aveva una stanza presso ci 
go della stazione!?. Nel momento dell’incursione aerea fu colta mentre si trovava 
all’esterno. Testimoni riferirono che fu rinvenuta con in mano le chiavi per ri- 
entrare all’interno dell’albergo. I funerali si tennero presso la chiesa parrocchiale 
la sera del giorno di Pasqua. Il proposto Don Nello Micheletti, sul Registro dei 
Morti, annotò le vittime sotto al titolo “Pasqua di Sangue”?0. 


Desidero ringraziare, per le numerose informazioni e le immagini delle vitti- 
me, Piera Codognotto, raccolte dalla madre Vilna Chiavarelli. Nella vita è stata 


Sul 57th Fighter Group si veda Doods 1985; Molesworth 2011, pp. 87-113; per un quadro 
generale sulle operazioni aeree nel Mediterraneo dall'invasione della Sicilia fino alla liberazione di Roma 
si veda Shores Massimello 2018, pp. 481-595. Nello specifico dell’ Operation Strangle si rimanda a Mc- 
Carthy 2004, pp. 65-96. 

18. Riguardo allo specifico della situazione in Toscana si veda Biscarini 2012. 

L’'Albergo della Stazione si trovava ai piani superiori dell’edificio dove si trova il bar e l’edicola- 
tabacchi ed era gestito da Angiolo Lotti e dalla figlia Rina. 

20. Archivio Parrocchiale di San Miniato Basso, Registro dei morti, anno 1944; Archivio Storico 
del Comune di San Miniato, Archivio Postunitario, F200 S062 UF184, Fascicolo: Atti del Comune 
già carte raccolte dall’assessore Renzo Caponi. Materiali originali eccidio Duomo. Relazione Giannattasio 
e altro, Documento: Cittadini deceduti per vicende belliche durante il passaggio del fronte da San Minia- 
to — periodo dal 12-2-44 al 17-10-45. Si veda inoltre Niccolai 2013, pp. 41-44, dove sono riportate le 
testimonianze di Franco Mori, Ivo Guernieri, Renzo Fattori, Gino Mazzoni. Desidero ringraziare Don 
Luciano Niccolai per le preziose informazioni raccolte. 


19 


649 


Francesco Fiumalbi 





insegnante, proprio come la madre Matilde, ed è stata una donna forte e autono- 
ma. Solo negli ultimi anni è riuscita ad aprirsi e ad esprimere tutto il suo dolore 
per il tragico episodio che sconvolse la sua famiglia. Una coincidenza: Vilna è 
mancata nel 2017, all’età di 93 anni, proprio nel giorno del Venerdì Santo. 


Bibliografia 


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fa sul sito Della Storia d’Empoli il 02-03-2012 al seguente indirizzo 

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sultato il 04-10-2020). 


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mini e donne nell'epopea della Grande Guerra, a cura di A. De Blasio, Consiglio 
Regionale della Toscana, Comune di San Miniato, Edizioni dell'Assemblea, 
Firenze, 2019. 

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li, Longanesi, Milano, 2002, (orig. Der Krieg in Europa, Verlag Kiepenheuer 
& Witsch, Kéln, 1960). 


651 


Francesco Fiumalbi 








In alto, Matilde Zazzeri assieme al marito Pietro Chiavarelli. In basso la piccola Piera Chiavarelli as- 
sieme alla sorella maggiore Vilna. Le immagini sono state gentilmente messe disposizione da Piera 
Codognotto a cui va il nostro ringraziamento 


652 


I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo 
a metà del XX secolo 





(/USEPPECHELLI 


Prefazione 


Mi sono occupato per un paio d'anni a ricostruire tutta la vicenda dei monaci che 
vissero a Collelungo di Palaia negli anni '60-°70 del secolo scorso. L'ho fatto perché, 
essendo monaco nella stessa comunità di quei giovani che abbandonarono l'esperienza 
religiosa, mi sono sentito in dovere di ripercorrere tutta l'esperienza di quel tempo, 
per capire e specificare meglio quale fosse il carisma monastico del fondatore di questa 
Comunità, don Divo Barsotti, che fu ordinato sacerdote a San Miniato nel 1937 e 
del quale è aperta ufficialmente la causa canonica per la beatificazione. 

Conoscere e sapere che cosa successe in quegli anni a San Miniato è importante 
non solo per gli addetti ai lavori della Chiesa, ma per tutti. Ogni forma aggregativa 
(e tanto più una così specifica e determinata come può essere quella di un monastero) 
che si instaura in un luogo, crea movimento, aggiunge qualcosa, pone domande e 
interrogativi e, in ogni caso, arricchisce la storia locale. Che negli anni ‘60 ci fossero 
a Collelungo dei giovani provenienti dalla Toscana, dalla Lombardia, dalla Sicilia, 
dal Piemonte, che avevano lasciato tutto e avevano costituito un eremo, non è cosa 
che possa essere lasciata sotto silenzio. Oltre tutto, rimasero diversi anni, non fu un'e- 
sperienza estemporanea di Di ore. Per sempre, dunque, i monaci della Fornace 
rimarranno patrimonio della storia di San Miniato, nonostante la fine per certi versi 
controversa e drammatica della loro esperienza. 

Vanno quindi conosciuti. 


padre Serafino Tognetti.! 


Cercando l’impegno spirituale 
Tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, ebbe vita 
alla Fornace di Collelungo, località del Comune di Palaia’, una esperienza di 





! — Serafino Tognetti è nato a Bologna nel 1960 e dal 1983 è membro della Comunità dei Figlio di 
Dio, fondata da don Divo Barsotti. Ordinato sacerdote nel 1990, ha vissuto come monaco e sacerdote 
a Casa San Sergio, a Settignano (FI), che è la Casa Madre della Comunità e dove è sepolto lo stesso don 
Divo Barsotti. Padre Serafino Tognetti è stato superiore generale della Comunità e primo successore di 
don Barsotti. Ha scritto una dozzina di libri di spiritualità, ha condotto per qualche anno una rubrica 
radiofonica su Radio Maria su argomenti di vita spirituale. Tra le varie attività di predicazione, ha gui- 
dato numerosi corsi di esercizi spirituali in varie parti d’Italia per sacerdoti, vescovi, religiosi e laici. Ira i 
suoi scritti utilizzati per questo nostro lavoro, segnaliamo / giovani della Fornace, da cui è tratto il nucleo 
più importante della presente monografia. 

2 Repetti, alla voce Palaia, IV, 27: “...risiede sopra una collina tufaceo maruosa da più parti 


653 


Giuseppe Chelli 





monachesimo ispirato a quello di vita comune perseguito da Sergio di Radonez, 
nella Russia settentrionale nel 1354. 

Padre di questa esperienza fu un prete della Diocesi di San Miniato, don Divo 
Barsotti”, che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, si trasferì all'Istituto 
religioso della Calza?, a Firenze, ove iniziò la direzione spirituale di un gruppetto 
di ni che porterà alla nascita della Comunità dei figli di Dio. 

In sintesi, il pensiero e l’impegno spirituale della Comunità da lui fondata, 
si trova compiutamente espresso da don Barsotti, nel libro Ebbi a cuore l'Eterno, 





dirupata, cui sovrasta un risalto, sopra il quale esisteva la rocca o torrione con sottostante borgo ben 
popolato, tra il torrente Chiecinella e il Roglio, tributario del fiume Era che gli scorre sotto verso po- 
nente...”. Palaia è conosciuta a partire dall'anno 1000 quando il suo castello era posseduto per metà dai 
Vescovi di Lucca. Fu al centro della guerra tra Lucchesi e Pisani già dal 1172. Con tutti i castelli della 
Val d’Era, anche Palaia nel 1406 venne annessa alla Repubblica fiorentina, la quale promise il Castello, 
assieme a quelli di Lajatico e Peccioli a Giovanni Gambacorti, Signori di Pisa. Il castello di Palaia è 
stato a lungo conteso nelle lotte tra Pisani e Fiorentini per passare nel 1860 al Regno di Sardegna e poi 
all'unità d’Italia. Inoltre, v. it.wikipedia.org/wiki/Palaia. 

3 Cfr. santiebeati.info/san-sergio-di-Radonez: “Riformatore della vita monastica in Russia, Ser- 
gio Radonez (1314-1392) nacque da una nobile famiglia della Regione di Rostov. Con i suoi genitori 
fu cacciato dalla propria casa in seguito alla guerra civile e dovette guadagnarsi da vivere facendo il con- 
tadino a Rodonez a nord-est di Mosca. A vent'anni Sergio iniziò una vita da eremita, assieme al fratello 
Stefano, nella vicina foresta. In seguito altri giovani si unirono ai due fratelli e nel 1354 si trasformarono 
in monaci che conducevano una vera e propria vita comune. Sergio ebbe una grande influenza nella 
Russia del suo tempo. Uomo semplice, umile, serio, ai suoi monaci indicò come modelli da seguire 
gli uomini dell’antichità che, pur avendo fuggito il mondo, aiutavano il loro prossimo. Servire gli altri 
faceva parte della loro vocazione e la povertà personale era fondamentale: era un modo autentico per 
una vita di preghiera e di dedizione. A lui vennero attribuite visioni mistiche connesse con la liturgia 
eucaristica e trasfigurazioni fisiche attraverso la luce che lo rivestiva. Il popolo lo vedeva come un uomo 
scelto da Dio, su cui la grazia dello Spirito riposava visibilmente. Fu canonizzato in Russia prima del 
1449. Anche oggi molta gente va in pellegrinaggio al suo santuario nel monastero della Trinità di Ser- 
ghiev Posad. 

+ UCfr Tognetti (2012). Divo Barsotti, nacque a Palaia il 25 aprile 1914 e morì a Settignano il 
15 febbraio 2006. È stato un monaco cristiano, presbitero e scrittore. A 11 anni entrò nel seminario di 
San Miniato e fu consacrato il 18 luglio1937. Fu coadiutore di vari parroci della Diocesi sanminiatese 
e insegnante in Seminario, non riuscendo però a trovare una collocazione pienamente soddisfacente 
nel servizio parrocchiale. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, su invito di Giorgio La Pira, si 
trasferì a Firenze e il Card. Elia Dalla Costa lo nominò cappellano dell'Istituto della Calza ove fondò 
la Comunità dei Figli di Dio. Scrittore, conferenziere, predicatore tenne lezioni e corsi in ogni parte del 
mondo a preti, laici, seminaristi e vescovi. Vincitore di diversi premi letterali, gli fu tuttavia per un certo 
tempo impedito, dall’autorità ecclesiastica, di scrivere libri di commento alla Sacra Scrittura. È tra le fi- 
gure spirituali più significative del XX secolo tanto da essere definito, da Carlo Bo, “uno degli spiriti più 
alti del nostro tempo e il più importante autore spirituale del nostro secolo” (la citazione è contenuta in 
una e-mail inviata da p. Tognetti a Giuseppe Chelli il 01.02-2020 ed è ricavata dall’articolo Morto don 
Barsotti l’ultimo dei mistici sul Il Giornale.it del 16.02.2006). 

°. Istituto chiamato così per l'abbigliamento dei Frazel/li che vestivano un mantello grigio con un 
lungo cappuccio da sembrare una calza. 

6 La Comunità è una associazione pubblica di fedeli che desiderano vivere la spiritualità mona- 
stica nell’ascolto della parola di Dio, nell’esercizio della liturgia sacramentale e della carità cristiana. È 
stata riconosciuta dalla Chiesa il 6 gennaio 1984 con decreto dell’arcivescovo di Firenze card. Silvano 
Piovanelli. Nata tra il 1947 e il 1948 ha la sua casa madre a Settignano e filiali sparse in Italia e all’estero. 


Vedi, https://comunitafiglididio.net. 
654 





I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 





in cui il Padre (come viene chiamato nella Comunità) dice: “La ragione della 
Comunità è il primato della vita i e dell'unione con Dio — quel primato 
che finora sembrava essere il fine della vita claustrale e oggi dev'essere il fine di tutti 
i figli di Dio — nel matrimonio e fuori, nel mondo e nel chiostro. Per questo chi vive 
nella solitudine e nel silenzio deve vivere senza staccarsi, anzi rimanendo unito a chi 
vive nel mondo, e chi vive nel mondo non deve sentirsi staccato, anzi dev'essere unito 
a chi vive in solitudine e silenzio. La Comunità è una cosa grande. Si vive la propria 
vocazione nella Comunità, precisamente in questa unità di tutti nell'amore, unità 
non soltanto interiore ma concreta, viva, efficace. Bisogna che spezzi le resistenze. Dio 
vuole questo da me. Non l'imitazione e la ripetizione di tanti istituti che vivono delle 
opere e per le opere, non l'imitazione e la ripetizione di tanti ordini che vivono in 
clausura 0 monastero. E la Comunità dei Figli di Dio”. 

La Comunità che si sente da Dio chiamato, anzi “comandato,” a fondare, ha 
nel percorso spirituale tappe di impegno diverso, prima di arrivare al grado supre- 
mo®, ove la dedizione completa a Dio si esercita in una vita lavorativa di silenzio, 
di preghiera, di solitudine fedelmente vissuta nell’osservanza dei voti di povertà, 
castità e obbedienza, solennemente pronunciati in perpetuo. È a questo tipo di 
vita (IV grado) che si dedicarono alcuni giovani monaci negli anni ’60, vivendo 
nel nostro territorio un'esperienza monastica di assoluta rilevanza per la Chiesa 
intera, in quegli anni di cambiamenti e di rinnovamento nella Chiesa stessa. Non 
è compito di questo lavoro entrare nelle complesse e varie problematiche cultu- 
rali, religiose, e organizzative della Comunità dei figli di Dio. Il nostro impegno 
è rivolto solamente a raccontare la vicenda umana (e di riflesso religiosa) dei sei 
giovani, che di quella Comunità fecero parte per qualche tempo e che trascorsero 
all’eremo La Fornace di Palaia un pezzo della loro gioventù?. 

La nascita della prima esperienza comune possiamo datarla al 1954, quando 
un giovane studente universitario di giurisprudenza, Antonio Spezzani di Mestre, 
decise di lasciare gli studi e insieme a don Divo Barsotti andò a vivere sul Mon- 
te Senario!°, ove È Comunità dei Servi di Maria, per interessamento di David 
Maria Turoldo"!, concesse, in comodato gratuito, l’uso dell’eremo!? che fu di 





7. Barsotti (1981), p. 190. 

Tognetti (2010), p. 26. Lo stesso don Barsotti delineò le caratteristiche dei gradi nella Comuni- 
tà: I grado: non richiede i voti. È soprattutto quello per le persone legate da impegni familiari. II grado: 
richiede i voti. È composto da persone che vivono in famiglia. III grado: richiede i voti. È composto 
di anime libere da legami, che vivono in comune e lavorano nel mondo secondo le disposizioni della 
Provvidenza; IV grado: richiede i voti. Sono persone che vivono in eremi e la loro vita lavorativa si basa 
sulla preghiera, sulla penitenza e sul silenzio. 

?. I giovani di cui ci occupiamo sono: Emilio Collini, classe 1937 (Benedetto); Giuseppe Lampis, 
classe 1934 (Giovanni); Adolfo Frey, classe 1936 (Martino); Nino Natoli, classe 1938; Antonio Spezza- 
ni, classe 1932; Michele Sannino, classe 1941. 

!° Collina a nord di Firenze ove nel 1234 fu fondato da sette nobili fiorentini l'Ordine dei Servi 
di Maria. Vi venne anche eretto un santuario, elevato da Benedetto XV nel 1917 a Basilica Minore. 

!! David Maria Turoldo, al secolo Giuseppe Turoldo (1916-1992), presbitero, teologo, filosofo, 
scrittore, poeta, Membro dell'Ordine dei Servi di Maria, fu un sostenitore delle istanze di rinnovamento 
culturale e religioso del Concilio Vaticano II È stato definito “la coscienza inquieta della chiesa” (cfr. 
Addio a padre Turoldo, TGfuneral24 del 06.021992. 

°° Tognetti (2010), p. 31: “...i padri Servi di Maria decisero rapidamente di concedere ai due 
l’uso dell’eremo di Filippo Benizi per la durata di due anni, e anche più...”. 


655 


Giuseppe Chelli 





San Filippo Benizi'!* (Fig. 1). La struttura piuttosto fatiscente e la mancanza di 
condizioni oggettive A per attuare a pieno la loro esperienza spirituale, 
convinsero don Barsotti e Antonio a cercare un’altra sistemazione. Fu allora ac- 
quistata con l’aiuto di amici benefattori, una casa vicino a Firenze, precisamente a 
Settignano, dove i due andarono a vivere, e fu chiamata Casa San Sergio. Siccome 
però nel giro di pochi anni altri giovani chiesero di farsi monaci con loro, gli 
spazi divennero ristretti, e sorse l'esigenza di trovare una seconda sistemazione. 
Fu così che don Barsotti pensò alla sua Diocesi di origine, e gli fu offerta una 
piccola proprietà a Collelungo, che diventerà l'eremo della Fornace. Don Bar- 
sotti, infatti, ottenne dai proprietari della tenuta di Collelungo,!* Giovanni e 
Paolina Paganelli, un vecchio casolare abbandonato, in precedenza usato come 
fornace per la cottura dei laterizi da impiegare nei poderi della fattoria!’ (Fig. 2). 
La Fornace, come da qui in avanti chiameremo l'eremo, è situata in una radura 
in mezzo a boschi cedui di faggi, querce, lecci e carpini che ricoprono gran parte 
dei terreni della tenuta di Cia È situata proprio al culmine ddl salita di 
La Pazza nel punto esatto in cui questa, dagli ex Bagni di Chiecinella!” (Fig. 3), 
si congiunge con la strada che staccandosi dalla comunale Palaia-Toiano porta a 
Collelungo ed a Agliati!"8. 

Alla Fornace si trasferirono dapprima Antonio Spezzani e Sergio Scardigli, 
due dei giovani monaci di don Barsotti", poi via via anche gli altri? che pre- 
ferirono il luogo impervio delle colline palaiesi piuttosto che la casa Madre di 
Settignano?! dove avevano iniziato la vita monastica. Ritenevano, infatti, che alla 





15. Sulla storia del Santo, crf. Marcello Stanzione: “San Filippo Neri sacerdote” da Santi, beati e 


testimoni-Enciclopedia di Santi in www.santiebeati.it>Sezione F 

!#.Collelungo è una località nelle colline del comune di Palaia, da cui prende il nome l'azienda 
agricola e agroturistica di proprietà della famiglia Paganelli fin dai primi del 1900. Occupa una superfi- 
cie complessiva di 200 ettari intervallati da burroni e colline rivestite di boschi ed oliveti. 

5 Il cognome Paganelli deriva (ipotesi prevalente) dal latino pagus ovvero villaggio, a indicare 
una possibile provenienza dei capostipiti da un luogo di campagna. I Paganelli infatti oltre a Collelungo 
hanno proprietà a Marti, borgo agricolo nel comune di Montopoli Valdarno. 

!6 Natoli, in Tognetti (2010), p. 490: “Il sig. Paganelli, estimatore di don Barsotti, concesse la 
casetta in comodato gratuito ad Antonio Spezzani...”. 

!7 I Bagni di Chiecinella erano conosciuti fin dall’800 per le loro sorgenti di acque curative car- 
bonico-solforose, come rinomata stazione termale, dotata di eleganti strutture. La località si trova nella 
valle a sinistra appena la strada provinciale palaiese inizia a salire verso Palaia. Oggi le strutture sono in 
stato di abbandono e di degrado. 

!8..Toiano, antico borgo medioevale abitato fino alla fine degli anni ’80. Agliati, castello dell’antico 
distretto di San Miniato, dette il nome alla nobile famiglia pisana Agliata. 

19 Tognetti (2010), p. 65: “... i primi due pionieri sarebbero stati Antonio Spezzani e Sergio Scardi- 
gli. Si decise anche il tempo e il giorno adatto per l'apertura ufficiale: 8 novembre 1960...”. 

2° Natoli, in Tognetti (2010), p. 490, “Fra il 1960 e il 1961, la Fornace venne abitata a turno da 
Antonio, Giancarlo, Emilio, Peppino, Paolo e Sergio in alternanza con Casa San Sergio...”. 

2! Frazione a nord-est di Firenze. Deve il suo nome a Settimio Severo (fine II sec. d.C), cui nel 
XVI sec. fu eretto un monumento, distrutto nel 1944. Don Barsotti racconta come scelse questo luogo 
a sede della sua Comunità: ”Una notte sognai. Ero davanti a un cancello di ferro, sovrastava il cancello 
una pianta di glicine in fiore. Mi venne fatto di suonare al cancello, e attesi. Si aprì il cancello e mi 
apparve davanti senza farmi entrare un monaco orientale di circa 50 anni di età. Non disse una parola 
e io dall'altra parte non sapevo che dire. Fermo lui sulla soglia a guardarmi. Io ugualmente lo guarda- 
vo in una certa attesa che mi dicesse qualcosa. Allora sentii venire un canto dalla casa: era il cantico 


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I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 





Fornace ci fossero migliori condizioni per vivere la radicalità del monachesimo 

rimitivo. Don Divo andava e veniva, e per un certo tempo stette anche lui in 
aa stabile nell’eremo di Palaia. Il casolare originario fu trasformato in una 
accogliente Cappella e attorno ad essa sorsero, un po’ alla volta, le celle, gli spazi 
di vita comune, il laboratorio. A metà degli anni °60, la Fornace era diventata un 
vero e proprio eremo in cui veniva faticosamente ricercato lo stile di vita del IV 
grado (Fig. 4). Un giorno, poi, era arrivato uno sciame di api e si era aggrappato 
su un albero di pino, vicino all’eremo. I giovani capirono che quello sarebbe stato 
il loro lavoro: l'allevamento delle api e la produzione del miele. A questa attività 
i giovani affiancarono anche lavori di artigianato, commissionati dalla cartoleria- 
legatoria Giannini di piazza Pitti a Firenze??. Per l'esecuzione di questi lavori, 
occorreva però, la corrente elettrica e l’acqua, di cui la Fornace era sprovvista. 
Chiesero allora il permesso di poter utilizzare un laboratorio della vicina fabbrica 
di Marcello Candia”, che produceva estintori con il gas CO2, sfruttando le emis- 
sioni del sottosuolo (Fig. 5). Ogni giorno in lambretta, gli addetti, percorrevano 
il viale padronale di La Pazza che congiungeva (e ancora congiunge) la Fornace 
allo Lit Candia? e alla Palazzina (sede della direzione della fabbrica) 
lavoravano agli oggetti loro commissionati: scatole decorate, carte marmorizzate 
a mano, copertine, segnalibri, intagli ecc. che poi portavano in pullman a Fi- 
renze. La vita alla Fornace trascorreva segnata da orari e impegni ben precisi che 
andavano dai lavori manuali, allo studio, alla preghiera individuale o collettiva, 
al riposo e anche allo svago, nel silenzio ombroso dei boschi. La Fornace, pur 
dotata di Cappella, ove poteva celebrarsi la liturgia sacramentale e dove i monaci 
si riunivano per le preghiere comuni, non aveva, tuttavia, tra i consacrati, un 





di San Sergio di Radonez...” (v. “Il sogno di San Sergio si avvera” in https://orantidistrada.blogspot. 
com>2011/07>il-canticodi-san-sergio). In un giorno di primavera del 1956 don Barsotti venne invi- 
tato ad andare a Settignano. Oltrepassata la villa Gamberaia, lo si vide accelerare il passo e prendere la 
rincorsa fino a fermarsi davanti ad un cancellato verde da cui sporgeva un glicine in fiore. Quando gli 
accompagnatori di viaggio lo raggiunsero, trovarono il Padre commosso e pieno di entusiasmo: aveva 
riconosciuto la casa del sogno! 

2. Fondata nel 1856, la bottega d'Arte Giulio Giannini & Figlio opera nell’artigianato artistico di 
qualità. Porta avanti una tradizione secolare da sei generazioni ed è conosciuta a livello internazionale. 
Produce carte marmorizzate a mano, biglietti e oggetti originali ecc.. 

2 Camillo Candia, nato a Milano, si trasferì per lavoro a Portici (NA), dove costruì quattro stabili- 
menti per l'estrazione dell'anidride carbonica (Milano-Aquileia-Portici-Palaia). Negli anni ’50 passò al 
figlio Marcello la guida della FIAC, “Fabbrica italiana di acido carbonico dott.Candia & C.”. Marcello 
diventò noto come imprenditore e filantropo, prodigandosi in azioni umanitarie in Europa e in Sud 
America, fondando associazioni e congregazioni di ispirazione cattolica. Morì a Milano il 31 Agosto 
1983. Nel 1991 il cardinale Carlo Maria Martini aprì il processo di canonizzazione del Servo di Dio. Il 
Papa Francesco il 9 luglio 2014 promulga il Decreto con cui Marcello Candia è riconsociuto Venerabile. 
Vedi, bttps://it.wikipedia.org>wiki>Marcello Candia 

24 Michele Fiumalbi (https://www.flickr.com>photos>neuropictures/8622996810) scrive: “In 
una stretta valle tra i crinali di Palaia e di Collelungo si trovano gli ex stabilimenti Candia che fin 
dal 1900 avevano attuato lo sfruttamento industriale delle sorgenti naturali di anidride carbonica e 
solforosa. Nel 1965 tutto passò di mano: dalla famiglia Candia ad una azienda francese, fino al 1987. 
In quell’anno lo stabilimento venne dismesso, sigillati i pozzi e cessata ogni tipo di attività. Allo stato 
attuale la zona è in forte degrado, ma per iniziativa del Comune di Palaia c'è allo studio un progetto di 
recupero per farne di nuovo un centro turistico-ricettivo”. 











657 


Giuseppe Chelli 





sacerdote. La mancanza del sacerdote obbligava i giovani a recarsi tutti i giorni 
alla chiesa di Agliati o alla pieve di Palaia, per adempiere i doveri religiosi (Santa 
Messa, Comunione ecc.). Era un dispendio di tempo, ma soprattutto un intral- 
cio allo stile di vita, proprio del IV grado. Don Barsotti soltanto di rado passava 
del tempo con i giovani, contrariamente ai loro desideri e alle loro aspettative. Il 
Padre era costantemente assente per via dei suoi impegni in Italia e all’estero, ove 
si recava a predicare gli esercizi spirituali, a tenere conferenze, a seguire i gruppi 
laici della Comunità, sparsi un po’ ovunque in Italia. L'assenza del Padre, finì ben 
presto per causare dissidi e polemiche tra don Barsotti e i giovani??. Per ovviare 
ai problemi dell’assenza lr sacerdote alla Fornace, venne deciso, su pressione 
del Padre, di avviare al presbiterato Antonio e Giovanni, i quali accettarono di 
frequentare il corso degli studi teologici nel Seminario vescovile di San Miniato. 
Antonio venne ordinato sacerdote a Ponsacco il 27 giugno 1964 e Giovanni il 
29 giugno del 1967, a San Miniato. Come sacerdoti erano incardinati nel clero 
diocesano di San Miniato, però il loro servizio sacerdotale era finalizzato solo alle 
necessità liturgiche della Fornace, come concordato con l’Ordinario diocesano. 
Solo raramente il vescovo Felice Beccaro?° si serviva di don Antonio per qualche 
servizio domenicale nelle parrocchie del Palaiese. In una di queste occasioni, An- 
tonio ebbe un incidente, scontrandosi a cavallo della sua lambretta con un moto- 
carro della nettezza urbana. Le conseguenze, causate da una superficiale diagnosi 
e da cure inadeguate, furono molto gravi per la salute di Antonio. A scongiurare 
il peggio ci pensò il fratello Luca, che lo trasferì nell'ospedale di Passignano sul 
Trasimeno”, ove il cognato lavorava come primario. L'incidente fu vissuto alla 
Fornace e da tutta la Comunità con apprensione e partecipazione, sia pure in pre- 
senza dello stato di crisi tra il Padre e i giovani. Da tempo, l’idea di stare tutti in- 
sieme alla Fornace era sentita da don Barsotti come un impegno ardito. Secondo 
Giovanni, il Padre alla Fornace “ci stava malvolentieri, era inquieto, quasi come 
un leone in gabbia”. Per loro, invece, era una necessità di primaria importanza 
vivere in un luogo, adatto e consono ai canoni classici dell’eremitismo o della vita 
cenobitica?*. Lo strappo definitivo era avvenuto nel settembre 1965 con la lettera 
firmata da Benedetto Collini, Giuseppe Lampis, Martino Frey, Michele Sannino 
e don Antonio Spezzali,?? a conclusione di una fitta corrispondenza tra don Bar- 





25. Cfr. Tognetti (2010), p. 310, intervista a don Giampiero Taddei. “...I giovani rimproveravano 


al Padre di non essere troppo presente. Dicevano: vorrebbe fondare un ordine monastico però non vive 
il monachesimo, come lo intende e come fa vivere a noi...”. 

26. Felice Beccaro, (Grognardo d’Acqui 13.01.1889 - 09.02.1972) fu Vescovo di Nuoro dal 1939 
al 1947 quando venne trasferito a San Miniato. A lui si lega il cammino della ricostruzione, non soltan- 
to materiale ma anche spirituale dell'intero contesto diocesano dopo la guerra. Sotto il suo episcopato 
la diocesi realizzò molti restauri dei danni causati dal secondo conflitto mondiale. Promosse il 2° Con- 
gresso Eucaristico e il 1° Congresso Mariano. Nel 1969 lasciò la diocesi per ragioni di salute, ritirandosi 
nel paese natale. 

27 Tognetti (2010), p. 157, intervista a Paolo Pezzani, fratello di Antonio, “... quando lo portaro- 
no a Passignano, era in condizioni tremende. Stava per morire. Noi familiari andammo all'ospedale e lo 
seguimmo giorno e notte. Ricordo che ci fu un momento in cui ci dissero che non avrebbe superato la 
notte. I miei stettero lì con lui diversi giorni e anche io rimasi lì con loro...”. 

28 Ivi, p.112. 

2°. Ivi, p. 121. “...Erano allora alla Fornace in cinque...,e quando presero questa decisione scrissero 
immediatamente a Nino Natoli in Friuli [ dove prestava servizio militare], mettendolo al corrente della 


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I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 





sotti e i giovani a proposito del loro diverso modo di vivere il IV grado? (Fig. 6). 
In Appendice si riporta integralmente la lettera che riassume quel travaglio con il 
Padre, che sancì il definitivo distacco, certamente doloroso per tutti?!. Alla lettera 
don Barsotti rispose con poche righe ringraziando i giovani di avergli tolto “il 
peso della responsabilità di una situazione che proprio sul piano religioso non era 
più tollerabile”, ma annunciando che non desiderava vederli: “Forse fra qualche 
tempo sarà possibile”, fu la secca risposta del Padre. La consapevolezza che la 
situazione creatasi tra loro non avrebbe avuto la possibilità di ulteriori sviluppi, 
non fece venir meno, però, la volontà dei giovani a proseguire il cammino comu- 
ne: “... se il Signore ci aiuterà, dicono nella lettera, siamo certi di poter continuare 
a vivere insieme tra noi questa vita che abbiamo in comune sperimentato e che troverà 
nel Signore stesso il suo perfezionamento”. Essi volevano infatti proseguire la loro 
vita monastica, pur staccati dal ceppo originario della Comunità di don Divo 
Barsotti. Per questo, chiesero e ottennero di poter rimanere alla Fornace. Non 
appena rimasti soli, si dedicarono alla stesura delle Costituzioni della Comunità 
Monastica della Fornace®. Ispiratore e redattore della regola fu Antonio, ricono- 
sciuto da tutti il più capace per la sua preparazione giuridica e letteraria, anche se 
ogni capitolo fu frutto di discussione comune. Le Costituzioni vennero presen- 
tate, per l'approvazione, alla Curia vescovile di San Miniato il 25 maggio 1966. 
La risposta della Curia non si fece attendere a lungo?‘ e con Decreto, redatto in 
latino, fu concesso a don Antonio Spezzani, al suddiacono Giuseppe Lampis e ai 
fideles laici: Adolfo Frey, Michele Sannino e Antonio Natoli il diritto di fare vita 
comune nella nuova comunità, sotto l’autorità episcopale”. La Comunità Mona- 
stica della Fornace fu accolta subito con favore in seno alla chiesa sanminiatese, 
interagendo con molti preti diocesani?°. Lo stesso vescovo Beccaro definì il ceno- 
bio “Fumus aromaticum in conspectu Dei”. Non passarono però molti anni che 
quel profumo d’incenso si disperse, sospinto dal vento innovativo del Concilio 
Vaticano II e dai movimenti giovanili del comontismo” e degli hippy", con 
frange dei quali i giovani, come vedremo, vennero in contatto. Nel 1968, pro- 
prio quando la Comunità Monastica della Fornace aveva raggiunto la sua stabilità 
con il riconoscimento delle Costituzioni, e ordinazione sacerdotale di Giovanni 


situazione e chiedendo il suo parere. A stretto giro di posta, Nino rispose di essere d’accordo con loro 
per la separazione da don Barsotti. Non più cinque, dunque, ma tutti e sei concordi...” 

30 Ivi, Epistolario. 

31 Ivi, pp. 123-125. 

3 Ivi, p. 125. 

8. Ivi, Appendice B Costituzioni della Comunità monastica della Fornace, pp. 449-474. 
Ivi, p. 165: “Nel testo pervenuto a noi non vi è la data, ma è da supporre che sia stato scritto 
nel periodo estate-autunno 1966...”. 

5 Ivi, p. 163, “..inde ab annum 1960 vitam in comunim ducentes, congregationis Nobis tradiderint, 
omnibus inspectis autoritate nostra decernimus et statuimus...” 

36. Ivi, pp.310 — 318. Cfr. interviste a don Giampiero Taddei e don Romano Maltinti. 

87 Ivi, p. 78: /Incenso soave che sale fino a Dio. 
Il Vaticano II fu convocato dal papa Giovanni XXIII il 29 giugno 1959. Sospeso a seguito della 
morte del papa, venne ripreso dal successore Paolo VI e si concluse l'’8 dicembre 1965. È stato il 21° 
Concilio della Chiesa Cattolica ed è ancora oggetto di dibattito storico e dottrinale. 

39. V. successiva n. 56. 
V. successiva n. 55. 


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Giuseppe Chelli 





ne aveva arricchito l’aspetto ecclesiale; quando il buon andamento dei lavori di 
cartoleria e dell’apicultura avevano, addirittura, permesso il completamento dei 
lavori dell’eremo, don Antonio andò in crisi. Senza discostarci troppo dal propo- 
sito di limitare il nostro racconto alle vicende strettamente umane te sei giovani, 
non possiamo porci la domanda del perché della crisi di Antonio. 
Paradossalmente, condividendo if pensiero di Tognetti, riteniamo che la crisi 
vada ricercata nelle Costituzioni stesse. “Antonio aveva lavorato con grande im- 
pegno”, dice Tognetti “per la stesura delle Costituzioni e forse mentre le scriveva 
aveva immaginato una vita ideale, ossia di poter vivere effettivamente così, se- 
condo quelle regole scritte. Ma si sa che la vita pratica non risponde mai piena- 
mente a quella scritta nella carta”. Inoltre “i giovani si erano emancipati, erano 
cresciuti. Don Divo pur essendo l’ispiratore iniziale, non era più il loro padre”."! 
Chi allora doveva essere la loro guida se tutti erano co-fondatori della Comunità? 
E senza un guida è possibile vivere in una comunità? La scelsero infine la guida, 
ma non fu Antonio. Parve loro più adatto il pragmatico Benedetto! Anche se non 
lo manifestò apertamente, Antonio ci rimase male. Si sentì, forse, rifiutato dai 
confratelli per i quali si era impegnato molto. Prima di approdare tutti assieme 
alla Fornace, Antonio aveva avuto un'esperienza diversa dagli altri: “l’esperienza 
con Don Divo e di Don Divo che gli altri non avevano avuto”‘. Ci fu, forse, 
verso Antonio, una specie di riverente distacco. Era bravo a fare il muratore, sa- 
peva cucinare e gli piaceva farlo, ma soprattutto Antonio amava studiare. Aveva 
un buon rapporto con tutti, ma non era un compagnone. Lui c'era per gli altri, 
ma per lui chi c'era? E forse non furono solo queste le ragioni della sua crisi. Il 
vento innovativo del Concilio Vaticano II scompigliò i fondamentali spirituali su 
cui aveva pensato di fondare la sua vita e il suo rapporto con Dio. Lui era aman- 
te della legge, si potrebbe dire che fosse un tradizionalista, e certe innovazioni 
liturgiche o certe libertà interpretative di talune costituzioni conciliari praticate 
alla Fornace non le sopportava‘. Come non sopportava un approccio più libero 
all'accoglienza del mondo esterno nella Comunità, lui amante del silenzio e del 
raccoglimento. “... Il problema non è che ci fosse indecisione tra vita attiva e vita 
contemplativa”, precisa Antonio in una intervista,” ma sul modo di celebrare la 
Messa, sul modo di realizzare la preghiera. Ci fu un certo disorientamento, non 
c'era più consenso unanime, c’era travaglio, e finì che ognuno si trovò di fronte 
alle proprie scelte...”‘. Don Antonio Spezzani lasciò definitivamente la Fornace il 
13 dicembre 1969. Con il permesso di Benedetto, Priore della Comunità, si tra- 
sferì a Ca’ Savio, una località vicino a Jesolo, ove la sua famiglia aveva una casa e 
lì trascorse tutto l'inverno da solo prestando servizio sacerdotale nella parrocchia 





4! Tognetti (2010), p. 180. 

4 Ivi, p. 180. 

4 Ivi, Intervista p. 247, risposte di Giuseppe Lampis (Giovanni) a domanda di Tognetti: “ ...Il Con- 
cilio aveva invitato le piccole comunità a fare le sperimentazioni liturgiche, dicevamo la Messa a tavola, 
io consacravo il pane e il vino, le scritture le leggeva chi c'era, avevamo ospiti... Era come la Pasqua 
ebraica, c'era un pezzo di pane sotto la tovaglia che rappresentava il Messia nascosto... A volte venivano 
gli operai della Piaggio, comunisti, facevamo questa cena, si leggeva il vangelo, si distribuiva il Corpo, 
poi si continuava con la cena...” 

44 Ivi, intervista a Vasco Lucarelli, anno 1996, p. 269. 


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I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 





di Treporti. “Il distacco di Antonio”, scrive Nino Natoli nella sua tesi di laurea 
“fu straziante e l’inizio della fine della Comunità”. Alla partenza di Antonio seguì 
un periodo molto difficile. “Era come se fosse passato un uragano che aveva di- 
strutto ogni certezza interiore e ogni base materiale. Non sapevamo più cosa dire, 
che cosa dirci, come se tutto fosse stato detto”‘. Qualche mese più tardi, anche 
Nino Natoli lasciò la Fornace, desideroso di altre esperienze di vita non religiosa 
e tanto meno monastica, ma di tipo civile, comune ai tutti i trentenni della sua 
età. Andò a Milano; trovò lavoro e qualche anno dopo contrasse matrimonio da 
cui ebbe due figli. Ha vissuto tra Milano e la Sicilia, sua terra di origine. Non 
passarono poche settimane che anche Michele Sannino lasciò la Fornace. Andò 
a Lione, in Francia, per studiare filosofia e teologia presso i Padri del Prado”. 
Messo di fronte all’alternativa di diventare sacerdote dell'Ordine monastico o di 
lasciare il convento, Michele preferì andarsene, cercare un lavoro e continuare gli 
studi. Trovò alloggio presso un Istituto di Asilo per senza tetto dove operò come 
educatore sociale. Furono anni durissimi. Ogni tanto si recava in Piemonte a tro- 
vare la famiglia. Fu durante uno di questi viaggi che si fermò in un campeggio a 
Briancon e Î conobbe una ragazza, assistente sociale, Annick, con la quale poi si 
sposò. Si stabilì definitivamente con lei e la figlia Claire a St. Bruce in Bretagna. 
Negli anni ’90 rientrò nel I grado“ della Comunità dei Figli di Dio, da cui, come 
affermò, “credo di non esserne mai partito”. Con la successiva partenza di Adol- 
fo Frey (Martino), fu evidente che l’esperienza della Comunità monastica della 
Fornace era finita. Adolfo tornò dalla sua famiglia a Milano e trovò subito lavoro 
presso la ditta Acrofis, cosa che gli permise di sposarsi nel 1975 con Loredana e di 
trasferirsi con lei a Rozzano. Dal matrimonio nacquero due figli, Davide (1976) e 
Gigliola (1980). Della sua esperienza alla Fornace non fece mai cenno a nessuno 
e mai più ebbe rapporti con alcun componente della Comunità. Tipo piuttosto 
solitario e taciturno Adolfo frequentava la chiesa e i sacramenti a iu: della 
moglie che, figlia di padre ateo e di madre agnostica, non aveva avuto una educa- 
zione religiosa. Si cimentò nella pranoterapia. Negli ultimi anni di vita manifestò 
una certa inquietudine psichica che lo portò a cambiare spesso lavoro. Provò con 
la musica componendo al computer alcuni brani di modesta qualità. Morì a 53 
anni in seguito a un incidente stradale. 

Alla Fornace rimasero Emilio Collini (Benedetto), Priore, e Giuseppe Lampis 
(Giovanni), sacerdote, i quali continuarono a fare vita comune per circa un anno 
e mezzo. Resta tuttavia inspiegabile come possano essere passate sotto silenzio da 
parte della Curia diocesana e di don Barsotti le vicende accadute alla Fornace, con 
l'uscita di quattro consacrati su sei. Vero, che la Comunità Monastica della For- 
nace si era del tutto distaccata da quella di Settignano e aveva intrapreso una au- 
tonoma funzionalità, ma don Barsotti era stato il loro ispiratore iniziale e quindi 


5. Cavallino-Treporti fa parte della Città metropolitana di Venezia. Il suo nome deriva da una 


delle località che compongono il territorio comunale di Ca’ Savio. 

4 Nino Natoli, riportato integralmente in Tognetti 2010, pp. 484-537. 
Il Prado è un istituto secolare maschile di diritto pontificio che comprende un ramo clericale e 
uno laicale. Fu fondato da Antoine Chevrier (1826-1879) in una zona periferica di Lione. Con Camille 
Rambaud si occupava dell’assistenza materiale e morale della gioventù operaia. 

8 Èil grado che non richiede voti, in cui le persone sono legate da vincoli familiari. 
Tognetti (2010), intervista a Michele Sannino, p. 282. 


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Giuseppe Chelli 





come poteva lui disinteressarsi completamente dei “suoi figli” ed in particolare di 
Antonio??°. La Curia vescovile, poi, alla Fornace aveva due suoi Sacerdoti che, se 
pur non impegnati “in cura d’anime”, appartenevano al Presbiterio sanminiatese 
e in questo erano incardinati. Di queste partenze, insomma, e del disfacimento 
della Comunità della Fornace, dice Lucentini?!, non se ne parlò nei Notiziari di 
Settignano, né nei documenti diocesani. Lo sfaldamento della Comunità pare 
non abbia destato nessun particolare riflesso nella Diocesi? né in don Barsotti, e 
“questo ci pare piuttosto singolare”’. Dopo la partenza dei quattro, alla Fornace 
ci fu un certo movimento di presenze di giovani, spinti più dalla curiosità che da 
un motivato desiderio di vita monastica?*. Furono, talvolta, presenze fugaci come 
quella di alcune suore brasiliane. Giovani e allegre, le suore accompagnavano le 
messe di Giovanni con canti, balli e musiche con la chitarra. Proposero addirit- 
tura ai giovani di andare con loro in Brasile, ma l'invito non venne accettato. 
Più solidale fu invece l’incontro che Giovanni e Benedetto ebbero con le piccole 
comunità degli hippies” e dei Comontisti?° insediati sul territorio. A pochi chilo- 


50 


Ivi, p. 312. Ivi, pp. 310-315; v. anche intervista a don Giampiero Taddei: “...volli parlare con 
lui dell'argomento Fornace. Ma il Padre mi disse che quello era un capitolo della sua vita che voleva 
chiudere...”. 

21 Paolo Lucentini, conosce don Barsotti nel 1960. Prende i voti triennali nel 1961 con il nome 
di Nicola. Nello stesso anno si laurea in giurisprudenza e a settembre, dopo un breve soggiorno alla 
Fornace, parte militare. Alla fine della ferma non rientra più a far parte della vita comune. Insegnante 
di filosofia medioevale all’Università di Napoli, dice di sé: “... fino l'età di 30-35 anni sono rimasto 
credente, poi mai più” (Tognetti 2010, pp. 226-230). 

9. Tognetti (2010), p. 317, intervista a don Romano Maltinti: “...A parte noi giovani che an- 
davamo là, [alla Fornace] la Diocesi non prese atto della cosa, si disinteressava. Non se ne parlava in 
Diocesi...”. 

53. Ivi, p. 187. 

5 I giovani che si unirono a Giovanni e a Benedetto, più stabilmente furono Daniele Chiletti, 
Luciano Costagli e un certo Giorgio. Daniele, monaco laico trappista, abita oggi all’eremo di Agliati. 

Gabrielli, alla voce 4ippy “Un movimento giovanile nato agli inizi degli anni sessanta negli 
Stati Uniti che contestava in modo non violento le regole e i costumi della società dei consumi e della 
cultura di massa, alla quale contrapponeva un modello di vita alternativo attraverso esperienze di vita 
comunitaria, il recupero dell’interiorità individuale, un abbigliamento anticonvenzionale, l’uso delle 
droghe leggere, la predicazione dell'amore universale e libero”. Per i loro vestiario colorato di fiori vivaci 
e la loro folta capigliatura gli hippies venivano chiamati anche i figli dei fiori o capelloni. 

5 Alfredo Passadore (v. sitografia), alla voce comontismo: “La parola in effetti fu proposta da Dada 
Fusco, fresca di tesi di laura su Gadda e quindi inevitabilmente portata al neolinguismo. Voleva significare, 
in effetti, il superamento del comunismo come semplice comunità di beni, a favore di una comunità degli 
esseri ed era ricavata dal genitivo greco ònzos, “dell'essere”, appunto un richiamo alla gemeinwesen marxia- 
na, il seme della nuova umanità in marcia, la cui realizzazione poteva iniziare da subito, da parte di piccoli 
gruppi rivoluzionari in grado di stravolgere la realtà loro attorno...”. Nato nel Nord Italia arrivò anche in 
Toscana e precisamente a “Ponte a Egola, un paesone piuttosto brutto del pisano, per di più centro di 
concerie che inquinavano il rio locale sollevando un puzzo infernale. La casa era un casermone in rovina, 
affittato ai ragazzi perché probabilmente nessuno lo voleva, un due piani di cemento grigio, freddissimo, 
dotato di uno stanzone con un enorme camino dove era possibile bruciare un albero intero (e in effetti 
spesso accadeva). Qui conveniva gente da tutta Italia, coinvolta da Riccardo [d'Este] nei suoi tour delle 
varie città. Un mix dei più diversi tipi sociali, dai borghesi annoiati trasformatisi in rivoluzionari radicali, 
ai piccoli delinquenti amati da Riccardo, che aveva fatto dello slogan contro i/ capitale lotta criminale una 
regola di vita e in carcere aveva conosciuto simpatici giovani, dediti all’esproprio e al furto con scasso...”. 
V. anche Cevro-Vukovic in www.nelvento.net>riccardodeste. 


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I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 





metri dalla Fornace, a Montefoscoli, paese del Comune di Palaia, a metà anni ’60 
si era stabilita in un casolare preso in affitto una “comune” di hippies. Si trattava 
di giovani, uomini e donne, che avevano scelto uno stile di vita molto in voga in 
quei tempi. Vivevano all'insegna della più completa libertà, in piena ribellione e 
contestazione della vita borghese fatta di regole e doveri. Le due comunità non 
tardarono a venire a contatto tra loro per via di certi tratti di stile di vita che li 
accomunavano. Ormai la Fornace non odorava più di incenso e Giovanni e Be- 
nedetto furono aperti e disponibili oltre che incuriositi ad incontrare i giovani di 
Montefoscoli. “Le due comunità divennero amiche”, dice Tognetti e tra la gente 
del posto cominciarono a circolare delle chiacchiere. AI di là di queste chiacchiere 
certamente “il tono spirituale della vita della Fornace s'era notevolmente abbas- 
sato”. La Messa veniva celebrata raramente; la preghiera liturgica non era più 
praticata; il raccoglimento e il silenzio che avevano costituito la peculiarità della 
vita monastica alla Fornace erano andati perduti completamente. Nelle stanze 
della Fornace ora si passava il tempo a discutere, a chiacchierare, anche per tutta 
la notte, e a fumare di tutto. Spesso uomini e donne rimanevano a dormire in una 
promiscuità che specialmente Giovanni “viveva con interesse e passione”. 
Un'altra comunità, a cavallo tra gli anni °60 e ’70, si stabilì in un cascinale nei 
pressi di Ponte a Egola, frazione del Comune di San Miniato, non molto distante 
dalla Fornace. Erano i Comontisti, un gruppo di giovani provenienti dal Nord 
Italia, per lo più di buona famiglia, ma dichiaratisi in completa rottura con la so- 
cietà capitalistico-borghese. Erano apertamente a favore delle droghe pesanti, un 
modo sbrigativo per (beni dall’oppressione clerico-borghese. Solitamente face- 
vano azione di propaganda politica contro tutto e contro tutti. Nel 1971 avvenne 
l’incontro tra le due comunità. “Eravamo diventati amici”, - racconta Giovanni 
Lampis. “Non so come mai li conoscemmo. Venivano da noi alla Fornace, man- 
giavano lì, erano amici, molto amici. In qualche modo si riconoscevano in noi, 
perché anche loro erano apocalittici, anche se su un altro piano: avevano un ideale 
molto sconvolgente della società. Però i nostri rapporti erano reciprocamente 
buoni”. I rapporti sempre più stretti con gli hippy di Montefoscoli e le frequen- 
tazioni dei Comontisti di Ponte a Egola, fecero certamente ritenere, all'opinione 
pubblica non solo di Palaia, che la Fornace fosse diventato un luogo di promi- 
scuità, in cui si consumavano droghe, un ambiente politicizzato di sinistra, dove 
si nascondevano terroristi e brigatisti. “Questa voce - scrive Tognetti - fu viva per 
parecchio tempo in paese, e anche oggi, a distanza di tanti anni, qualcuno ricor- 
da che a quel tempo si diceva così. Certo le voci di paese sono voci di paese, ma 
l’esperienza insegna che le voci difficilmente nascono a caso”. Non risulta che 
le forze dell’ordine abbiano mai sottoposto i locali della Fornace a perquisizione. 
È però credibile che ne tenessero sotto controllo ogni movimento. “Era il tempo 


57 Tognetti (2010), p. 191: “... Più raramente quelli della Fornace andavano a Montefoscoli: era 


più frequente che gli hippy si recassero alla Fornace. Non erano però particolarmente interessati alla vita 
di preghiera, né alla Messa, né a Dio. Ogni tanto si fermavano, sì, incuriositi anche alle funzioni, ma più 
che altro passavano il tempo a discutere, a chiacchierare, forse anche a mangiare e bere. Naturalmente 
andavano alla Fornace uomini e donne. Nacque così una promiscuità che però non faceva problema agli 
abitanti della Fornace...” 

98 Ivi, p. 246. 

59 Ivi, p. 194. 


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Giuseppe Chelli 





degli anarchici, delle bombe, dei tralicci fatti saltare per aria, del terrorismo al 
tritolo. E lo stato di allarme si intensificò quando ad una tratto si sparse la voce 
che alcuni terroristi che avevano fatto un attentato dinamitardo nelle regioni del 
nord Italia e che erano ricercati, si trovavano in Toscana dalle parti tra Lucca, Pisa 
o Empoli. Ci fu chi - voce di popolo - sostenne che proprio alla Fornace qualcuno 
di loro fu tenuto nascosto per qualche tempo ”°. 

Tra i giovani hippy che frequentavano la Fornace c'era una giovane donna di 
Padova, separata e convivente con il padre dei suoi due figli, Fabio e Laura. Tra 
lei, Lucia, e Giuseppe Lampis (Giovanni) nacque da subito una simpatia che in 
breve tempo si trasformò in passione. Giuseppe era sacerdote e le cose per lui non 
erano certamente né facili, né semplici da risolvere. Non voleva creare problemi 
a Benedetto, sempre suo superiore. Di punto in bianco, senza avvertire nessuno 
della Curia vescovile di San Miniato, decise di lasciare la Fornace, andandosene 
da solo in Grecia, a Corfù®!. Rimase lì per qualche tempo, poi tornò in Italia, si 
incontrò con Lucia e assieme a lei ritornò in Grecia. Da lì passò in India e qui, a 
Benares, nacque il loro figlio, Raffaele. Vissero in India qualche anno, fin quando 
non rientrarono in Italia, a Firenze. Poi la loro unione entrò in crisi, si separaro- 
no. Giuseppe aprì un negozio di oggetti di artigianato indiano. Conobbe Zaira, 
anch'essa di Padova, con cui si sposò civilmente. Dal loro matrimonio nacque 
una figlia Teresa. Anche questo matrimonio andò presto in crisi. Si separarono. 
Giuseppe continuò a occuparsi di artigianato, aiutato dalla figlia Teresa, con cui 
ha gestito per il resto della sua vita un negozietto in piazza Santissima Annunziata 
a Firenze. E morto agli inizi del secondo decennio del 2000 per un ictus cerebra- 
le, di ritorno dal Nepal®. 

Alla Fornace rimase Benedetto con altri due giovani, ma ben presto si verifi- 
carono grossi problemi con i comontisti. Questi si approfittavano di loro, ricordò 
Giuseppe Lampis, in maniera assai arroganti, volevano rilevare il lavoro che Be- 
nedetto ancora intratteneva con la cartolibreria fiorentina Giannini. Lo ricattava- 
no, e una sera svaligiarono la cantina portando via il vino che c'era custodito®. A 
Benedetto non rimase altra scelta: nell'autunno del 1971 lasciò definitivamente 
la Fornace. Girò per qualche tempo da una comune all’altra: a Montefoscoli, poi 
a Reticaglia, a Castiglion Fiorentino, fino ad approdare in una comune agricola a 
Pontagnone di Sorano, in Maremma, ove fece il pastore fino alla sua morte, avve- 


6 Ivi. p. 195. 

6! Tognetti, e-mail del 9 feb. 2020 a Giuseppe Chelli (archivio privato): “A riguardo di Giovanni 
Lampis, egli stesso disse di aver lasciato la Fornace e quindi il sacerdozio, senza alcuna comunicazione e 
senza alcun permesso. Questo sembra persino incredibile, ma così è successo. Probabilmente ha sempli- 
cemente comunicato a qualche amico sacerdote che sarebbe andato via, pregandolo di comunicarlo alla 
Curia. Non esiste pertanto alcun documento. Evidentemente la Curia deve aver emesso poi una sorta 
di verdetto di uscita dal Clero, ma siccome non vi fu nessuna domanda da parte di Lampis, non si sa 
nemmeno se vi sia stato questo ipotetico documento”. 

6 Notizia riferita da Daniele Chiletti, monaco trappista, che visse per qualche tempo alla Fornace 
e attualmente vive all’Eremo di San Martino ad Agliati (Palaia). La notizia mi è stata confermata da 
Serafino Tognetti in una e-mail del 20 febbraio 2020. I viaggi in Nepal, India, Tibet ecc. erano legati 
alla sua attività di commerciante di oggetti etnici. 

5 Daniele Chiletti (trappista) e Luciano Costagli. 

6 Tognetti 2010, p. 246. 


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I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 





nuta il 1 dicembre 2005. A differenza degli altri che una volta lasciata la Fornace 
ripresero i loro nomi di battesimo Emilio Collini mantenne il nome di Benedetto 
che aveva scelto al momento della professione dei voti. 

Don Antonio, che nell’inverno del 1969, come abbiamo visto, aveva lasciato 
la Fornace ed era tornato nel Veneto a Ca' Savio, vicino Mestre, per alcuni mesi 
esercitò il ministero sacerdotale a Treporti. Poi decise di chiedere di essere restitu- 
ito allo stato laicale e si mise a insegnare diritto nelle scuole di Mestre. Iscrittosi al 
Sindacato, divenne un esponente della CGIL-Scuola, ove fece carriera nel diretti- 
vo nazionale, occupandosi per vent'anni del rinnovo della scuola media superio- 
re. Dopo un periodo itinerante tra Roma e Mestre, ottenne il distacco sindacale e 
si stabilì definitivamente nella Capitale. Rimase a Roma fino al 1989. A seguito 
di un episodio di ischemia si ritirò in pensione. Tornato a Mestre, dopo un perio- 
do di vita da pensionato, riprese i contatti con il vescovo di San Miniato, Mons. 
Paolo Ghizzoni®° e con il Patriarca di Venezia Card. Marco Cè”, manifestando 
l'intenzione di essere restituito al sacerdozio. Ottenuto di nuovo il presbiterato, 
gli fu affidato un servizio religioso a Caorle, oltre ad incarichi didattici che man- 
tenne fin quando un nuovo attacco molto grave di ischemia lo lasciò paralizzato. 

Mori il 5 agosto 2001, “nell’ora dei Primi Vespri della festa della Trasfigura- 
zione del Signore”, dopo essersi riconciliato, negli anni ‘90, col Padre e aver 
celebrato l’Eucarestia con lui alla casa di San Sergio, a Settignano.® 


E la Fornace? 

Il fatiscente casale della fornace, che i proprietari Paganelli avevano dato, in 
comodato gratuito, ad Antonio negli anni ’60 e che i giovani avevano con il 
loro lavoro e a loro spese trasformato nell’accogliente Eremo “La Fornace” fu, 
nei primi anni ‘70, oggetto di un contenzioso, tra i giovani e la proprietà, per 
un'azione di indebito arricchimento”, quando i Paganelli, rivendicarono il diritto 
di proprietà. Se la vicenda non fini in tribunale il merito si deve ad Antonio che 
volentieri rinunciò a qualsiasi sua utilità: “...Amo la Fornace - scrive Antonio a 
don Barsotti - non per quello che è, ma per quello che ha significato nella nostra 
vita e quel bello che per me è stato... Ci ho lasciato tanta parte di me incorporata 
come plusvalore, non vorrei che si contaminasse facendola diventare un bene in 





65 Per distacco sindacale, regolato dalla legge n. 300/1970, detto anche aspettativa sindacale retri- 


buita, si intende una parziale o totale riduzione dell’orario di lavoro presso l’amministrazione pubblica 
di appartenenza, per espletare il proprio mandato all’interno di una organizzazione sindacale. A poter 
fruire del distacco sindacale sono dipendenti e dirigenti che hanno un mandato all’ interno del sindaca- 
to in possesso di determinati requisiti. 

6 Nato ad Arcello di Pianello il 22 marzo 1912, fu ordinato sacerdote il 6 aprile 1935 e vescovo 
ausiliare di Piacenza l'11 febbraio 1962. Dal 1970 fino alla sua morte, avvenuta 11 giugno 1986 a 
seguito di ferite riportate in un incidente stradale, resse la Diocesi di San Miniato come Pastore buono, 
umanissimo e instancabile costruttore di comunicazione. 

9. Marco Cè (1925-2014), nominato da papa Giovanni Paolo II Patriarca di Venezia, nel 1978 
fu elevato, l’anno successivo, alla porpora cardinalizia. Ha ricoperto vari incarichi di notevole rilievo in 
seno al collegio cardinalizio e nella chiesa. 

6 Natoli, in Tognetti (2010), p. 275. 

9 Ivi, p. 264, “... il 24 novembre 1995 concelebrazione alla casa di San Sergio con il Padre dopo 
la ripresa del sacerdozio”. 

70 Natoli, in Tognetti (2010), p. 540. 


665 


Giuseppe Chelli 





liquidazione. Essa rimane un valore e lo è stata anche per gli altri, quelli che ci 
vogliono bene e che conoscono il nostro itinerario e la fondatezza della nostra 
ricerca, così oscura per chi si sente già nell’ovile e non ha da ricercarlo. La Fornace 
è stata per me una terra promessa e il suo desiderio è ancora più bello di un suo 
concreto possesso”7!. 

Dopo questa lettera i “sei della Fornace” decisero di accogliere il parere di 
Antonio, abbandonando ogni rivendicazione. 

“La nostra diaspora” scrive Nino Natoli nella sua tesi di laurea” fu, da allora, 
senza possibilità di ritorno””?. 


A modo di conclusione, padre Serafino Tognetti ci scrive: Sono contento, del 
lavoro e della memoria che San Miniato fa di questa esperienza, che fa parte di un 
periodo storico specifico che ha visto nel territorio presenze diversificate ma storica- 
mente interessanti, come quelle dei gruppi eversivi degli anni ’70, degli hippy e anche 
dei monaci eremiti, che certo danno uno specifico spessore a San Miniato, anche se poi 
è terminato in un modo che conserva toni di drammaticità, ma non di fallimento. 


La Fornace è di proprietà della Comunità dei Figli di Dio” (Fig. 7). 


Appendice 


Lettera dei cinque monaci della Fornace a don Barsotti (settembre 1965) 

“Caro Padre, abbiamo voluto attendere per rispondere alle sue lettere perché 
il tempo desse modo a ciascuno di noi di decantare i giudizi, di valutare con 
serenità la nostra situazione e di saggiare la costanza delle nostre intenzioni. Qua- 
lunque sia il giudizio che si formerà circa le nostre parole, sappia che queste non 
sono dettate altro che dall'amore vivi e profondo per lei. Anni di vita insieme 
parlano al nostro cuore con un'intensità e una ricchezza di accento che nulla po- 
trebbe mai cancellare. Sentiamo che la nostra formazione religiosa si è compiuta 
attraverso di lei, così che nel nostro rapporto con Dio non possiamo ne potremo 
mai prescindere dalla sua persona. Lo abbiamo e lo avremo sempre presente in 
noi. Le nostre parole sono dettate da un desiderio di reciproco bene. Con questi 
sentimenti ci sembra ora di poter sciogliere questa nostra attesa, esprimendo tutti 
insieme quello che sentiamo in coscienza di dover agire. Ognuno di noi sente 
quanto sia stato profondo in questi anni il proprio rapporto con lei, rapporto non 
solo di affetto e amicizia, ma rapporto religioso, tanto da impegnare ciascuno di 
noi ad una vita religiosa in comune, che ha importato per ciascuno una rinuncia 
effettiva alle proprie dimensioni e condizioni di vita, e l'assunzione di forme 


7 Ivi, p.221. 

2 Ivi, p. 540. 

73. Ivi, pp. 216-217, “ la Fornace passò definitivamente in proprietà della Comunità dei figli di 
Dio solo nel 1976. Giovanni e Paolina Paganelli, che avevano deciso di cedere la Fornace al Padre e alla 
Comunità fin dagli anni ’50, pensarono che fosse giunto il momento di sollevarsi da ogni responsabilità 
riguardo quel bene immobile. I Paganelli stipularono l'atto di donazione davanti al notaio Galeazzo 
Martini di Pontedera il 26 gennaio 1976...La donazione presente viene effettuata ... in memoria del 
figlio del donante e di Paolina Ferrari, Carlino Paganelli.” 


666 


I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 





dettate non solo da un comune consenso ma derivanti nella loro ispirazione fon- 
damentale da una sua visione ed esperienza della vita religiosa. Per quanto iniziale 
o almeno incompiuto possa essere lo svolgimento e la tl... di questa 
nostra vita in comune, ci sembra per altro che un nucleo fondamentale ci sia stato 
proposto fin dall’inizio e stia, almeno nel nostri giudizio, rimasto fermo: quello 
di un carattere monastico senza opere, anche di apostolato che ne qualificassero 
esteriormente la natura: in altre parole il fine della vita di preghiera cui dovevano 
essere ordinati gli altri aspetti sia pure necessari (lavoro, studio). È per questo che 
ciascuno di noi ha sentito la scelta di questa vita come una chiamata del Signore 
ed una risposta alla sua parola. Ognuno di noi sente a questo riguardo, nonostan- 
te le infedeltà che certo il Signore è sempre disposto a perdonarci nella sua bontà, 
di aver fatto una scelta definitiva, scelta che ci Ta prima a Dio, che a lei e fra noi, 
scelta a cui ci sentiamo di rimanere fedeli per tutta la nostra vita. Proprio riguar- 
do a questa scelta fondamentale si è lentamente operata una frattura tra lei e noi 
durante questi ultimi anni, e ci sembra ormai con chiarezza di non poter più per 
il futuro non prendere atto di questa profonda divisione di propositi e di giudizi 
Ci sembra che il nostro rapporto con lei sia senza possibilità di ulteriore sviluppo 
perché la sua vita risponde a degli impulsi oggettivamente in tensione fra loro 
anche se soggettivamente, in linea eccezionale, conciliabili. Da una parte è richia- 
mato ad una testimonianza attiva, ad un apostolato sia pure in particolari forme, 
verso una cerchia sempre più ampia di persone verso cui si è ormai qualificato 
come scrittore e come predicatore. Dall'altra si sente profondamente impegnato, 
a differenza di noi, verso la comunità femminile che assorbe gran parte della sua 
vita, e nell'attività di predicazione e nella direzione spirituale e religiosa. Infine 
vive in lei una componente verso la vita monastica che non può interiormente 
accettare come esclusiva delle altre, e che nella misura che accetta sente in qualche 
modo estranea alla sua vocazione. Qualunque sia la validità di questo giudizio, 
resta il fatto che se ci anima una profonda fiducia di lei come sacerdote e come 
uomo religioso, non possiamo sentire altrettanto di lei rispetto alla vita monastica 
e in particolare rispetto alla nostra vita comunitaria, che per tanti aspetti non può 
essere da lei accettata come forma di vita. La sua autorità è svuotata per il fatto 
che sono venuti meno i suoi presupposti. Non si può avere autorità dall’esterno, 
senza un’accettazione piena e reale della vita comune. Purtroppo ogni tentativo 
di ricostruire incominciando da zero questo rapporto di autorità è reso vano dalla 
presa di coscienza verificata in anni di consuetudine comune. Le chiediamo di 
prendere atto di questa situazione. Per quanto possa essere dolorosa questa presa 
di posizione nei suoi confronti, essa è sempre migliore, se ci vuol bene, del saperci 
tutti a lei contro un dettame della nostra coscienza. Non si tratta di abbandonare 
i nostri giudizi particolari per obbedire, perché anche l'obbedienza si fonda sopra 
un rapporto preliminare valido per noi e per lei, che fissa l'ambito ed i limiti 
della sua autorità come della nostro obbedienza. Se poi, al di là di una visione 
giuridica, propone di affidarci ad un suo carisma di paternità, occorre affermare 
che ogni carisma non può essere sottoposto ad alcun giudizio morale, perché 
l'affidamento non divenga irragionevole o irresponsabile. La decisione non è solo 
dolorosa, estremamente penosa per lei, ma anche per noi si tratta di operare un 
taglio nella nostra vita, e ognuno sente di essere unito da una carità vera verso 
di lei. Certo questa scelta ci carica ciascuno di una maggiore responsabilità e 
apre per noi un periodo, forse lungo, e difficile, di gravi problemi in ordine so- 


667 


Giuseppe Chelli 





prattutto alla Diocesi e alla nostra vita comune. Sebbene abbiamo fiducia nella 
Provvidenza, comprendiamo quanto duro sarebbe il mantenersi fedeli a Dio in 
una situazione di tensione, verso l’esterno, e quanto gravi le conseguenze, anche 
di ordine personale di fronte alla certezza morale di doversi mantenere uniti al 
di là di ogni differenza esterna. Rimane la nostra volontà ferma di proseguire il 
cammino con il Signore. Prendere atto della situazione per noi e per lei vuol dire 
anche rendere più semplice possibile questo distacco, senza polemiche e senza 
prese di posizione nocive nei confronti degli altri. Vorremmo sperare che il nostro 
giudizio appaia anche a lei sincero e oggettivo. Se il Signore ci aiuta, siamo certi 
di poter continuare a vivere insieme tra noi questa vita che abbiamo in comune 
sperimentata, e che troverà nel Signore stesso il suo perfezionamento. Con im- 
mutata riconoscenza ed affetto, in attesa di poter parlare a viva voce con lei...”7*. 


Bibliografia 


BarsoTTI D., Dio è misericordia, Melara (RO), Ed. Parva, 2008. 


BarsotTI D., Ebbi a cuore l’Eterno, Diario Mistico 1962-1965, Firenze, Rusconi 
libri, 1981. 


BarsotTI D., Meditazioni Bibliche, Brescia, Ed. Queriniana, 1987. 
BarsotTTI D., Mistici russi, Torino, Ed. Il Leone Verde, 2000. 


Bellucci B., CHeLLI G., MaccHÙÒi L., PARENTINI M., Società di Misericordia di 
San Miniato — Trecentesimo anno 1716-2016, S. Miniato, Bongi, 2016. 


CinEeLLI C., DesIDERI S., ProsPERI A.M., (a cura di Vasco Simoncini), San Mi- 
niato e la sua Diocesi, Tirrenia, Ed. Del Cerro, 1989. 


CoeLHo P., Hippie, Milano, La Nave di Teseo, 2017. 

EpiFANIO il Saggio, (a cura di A. Piovano), Vita di San Sergio di Radonez, Roma, 
Ed. Paoline, 2013. 

LucENTINI P. (a cura), Il libro dei ventiquattro filosofi, Milano, Adelphi, 1999. 

LUCENTINI P. , PERRONE CompagnI V., / testi e i codici di Ermete nel Medioevo, 
Firenze Ed. Polistampa, 2001. 


NaroLI N., Esperienze eremitiche nell'Italia Centrale. La Comunità monastica della 
Fornace di Palaia 1960-1971, tesi di laurea, anno accademico 2005-2006, 
Università degli Studi di Napoli, Facoltà di lettere e filosofia, pubblicata in 
Tognetti 2010, appendice D. 

PaoLETTI P., I/ Cardinale che tradì Firenze. Elia Dalla Costa 1943-1945, Lecce, 
Youcanprint, 2019. 

RepeTTI E-, Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, Siena, Ed. Del Gri- 
fo, 1979. 





7 Ivi, pp. 123-125. La lettera, scritta il 15 settembre 1965, fu recapitata a don Barsotti il 18 set- 


tembre a Laverno Monbello ove si trovava per gli esercizi spirituali a suore di quel convento. Latrice ne 
fu Valentina Ceccuzzi, una consacrata che curava la casa San Sergio di Settignano. 


668 


I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 





ToGnETtTI S., / giovani della Fornace — Don Divo Barsotti e la prima vita comune, 


anni 1954-1971, Settignano Firenze, stampato in proprio presso Comunità 
dei figli di Dio, 2010. 


TOGNETTI S., Divo Barsotti. Il sacerdote, il monaco, il padre, Cinisello Balsamo, 
San Paolo edizioni, 2012. 


ToGNETTI S., Don Divo Barsotti, Gorle, Vellar, 2013. 


Torcivia M., Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Segrate (MI), Piem- 
me, 2001. 


TuroLpo D.M., Amare, Roma, Ed. San Paolo, 2002. 


Sitografia 


Cevro-Vuxovic Emira, Un'esperienza oltre la politica da Vivere a sinistra in www. 
nelvento.net>riccardodeste 


DonatLp Attwater in www.santiebeati.it>Sezione S 


Frumatsi Michele, Pozzo di estrazione, presso ex stabilimento Candia, https:// 
www.flichr.com>photos>neuropictures 


GaBrIELLI ALDO, Grande dizionario italiano Milano, Hoepli, 2015, alla voce 
Hippy /Hippie in https://www.grandidizionari.it>dizionario.italiano 


Passapore Alfredo, Gli anni del ‘68: Comontisti in www.gebox. 
it>breakingpoint>gli-anni-del-68 
STANZIONE Marcello in www.santiebeati.it>Sezione F 


669 


Giuseppe Chelli 








Fig. 1: L’eremo di Monte Senario dove don Divo Barsotti e Antonio Spezzani abitarono dall'ottobre 
1955 al marzo 1956 (foto E Tognetti, g. c.). 





Fig. 2: La Fornace agli inizi degli anni ’60. Sulla sinistra l'antico forno trasformato in cappella (foto F. 
Tognetti, g. c.). 


670 


I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 








Fig. 3: Lo stabilimento balneare dei Bagni di Chiecinella (Palaia), sorgenti naturali di acido carbonico, 
attorno agli anni ’60 (foto della collez. di Fabio Lazzareschi e Franco Fiorentini, g. c. da Studio Arzilli 
e Braccagni, San Miniato). 


671 


Giuseppe Chelli 





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Fig. 4: L’eremo La Fornace al tempo in cui ci vivevano i monaci, fine anni 60 (foto E Tognetti, g. c.). 





Fig. 5: Lo stabilimento Candia di Chiecinella (Palaia) con i pozzi di estrazione dell'acido carbonico 
negli anni ‘60 (foto della collez. di Fabio Lazzareschi e Franco Fiorentini, g. c. da Studio Arzilli e Brac- 
cagni, San Miniato). 


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I sei giovani della fornace di Collelungo di Palaia. 
Una esperienza di eremitaggio tra utopia e misticismo a metà del XX secolo 








Fig. 6: I cinque firmatari della lettera della separazione da don Barsotti, datata 13 settembre 1965. Da 
sinistra: Benedetto Collini, Giuseppe Lampis, Martino Frey, Michele Sannino e don Antonio Spezzani 
(foto E Tognetti g. c.). 


673 


Giuseppe Chelli 








Fig. 7: L’eremo La Fornace di proprietà della Comunità dei Figli di Dio com'è oggi (foto di Daniele 
Benvenuti g. c.). 


674 


Vita dell’Accademia nell’anno 2020 


ACCADEMIA DEGLI EUTELETI DELLA CITTÀ DI SAN MINIATO 
COMPOSIZIONE DELLE CARICHE SOCIALI 


Il Consiglio Direttivo risulta ad oggi 12 Dicembre 2020 composto da: 


Saverio Mecca Presidente 
Maria Grazia Messerini Vice Presidente 
Bruno Bellucci Segretario 
Francesco Fiumalbi Vice Segretario 
Alberto Falaschi Tesoriere 
Anna Alessi Consigliere 
Lucia Catarcioni Consigliere 
Alexander Carmine Di Bartolo Consigliere 
Riccardo Gucci Consigliere 
Luca Macchi Consigliere 
Roberta Roani Consigliere 


Tutti i componenti del Consiglio Direttivo non percepiscono alcun compen- 
so derivante dalle cariche in seno all'Accademia. 


Il Presidente dell’Accademia degli Euteleti di San Miniato 
Prof. Saverio Mecca 


677 


ACCADEMIA DEGLI EUTELETI 
DELLA CITTA DI SAN MINIATO 


SOCI ONORARI 


Cristina Acidini 
Alessandro Bandini 
Luigi Bernini 

Igino Bonechi 
Giuseppe Roberto Burgio 
Giovanni Cipriani 
Marco Fagioli 
Crescenzio Franci 
Angelo Frosini 
Vittorio Gabbanini 
Renzo Gamucci 
Eugenio Giani 
Franco Giannoni 
Simone Giglioli 


SOCI ORDINARI 


Anna Alessi 
Adriana Banella 
Bruno Bellucci 
Piero Bruschi 
Federico Cantini 
Lucia Catarcioni 
Giovanni Conforti 
Andrea Cristiani 
Antonia D’Aniello 
Alexander Carmine Di Bartolo 
Francesco Dini 
Alberto Falaschi 
Maria Fancelli 
Francesco Fiumalbi 


Giorgio Giolli 
Antonio Guicciardini Salini 
Francesco Gurrieri 
Lino Lensi 

Alfonso Lippi 
Romani Masoni 
Andrea Migliavacca 
Giorgio Rondini 
Salvatore Settis 
Mario Sladoyevich 
Fausto Tardelli 
Paolo Taviani 
Alberto Vierucci 
Luigi Zangheri 


Isabella Gagliardi 
Antonio Galanti 
Riccardo Gucci 

Luigi Latini 

Luca Macchi 

Andrea Mancini 
Saverio Mecca 

Maria Grazia Messerini 
Rossano Nistri 

Anna Padoa Rizzo 
Roberta Roani 

Renzo Rossi 

Francesco Salvestrini 
Andrea Vanni Desideri 


SOCI CORRISPONDENTI 


Amedeo Alpi 

Carlo Baccetti 
Massimo Bacchereti 
Renato Baldi 
Pierluigi Ballini 
Danila Banti Cerri 
Antonio Baroncini 
Carlo Baroni 
Nicola Baronti 
Riccardo Belcari 
Giuseppe Bellandi 
Gianluca Belli 
Antonio Bellucci 
Silvia Benassai 
Giovanni Benelli 
Giacomo Benvenuti 
Virginia Benvenuti 
Maria Pia Bertagnolli 
Antonella Bertini 
Emilio Bertini 
Daniela Bianconi 
Francesco Biron 
Claudio Biscarini 
Stefano Boddi 
Roberto Boldrini 
Adolfo Bucalossi 
Alfredo Bucalossi 
Claudia Maria Bucelli 
Adriano Buggiani 
Susanna Caccia 
Mario Caciagli 
Fabio Calugi 
Johara Camilletti 
Francesco Campigli 
Daniela Cancherini 
Andrea Capecchi 
Carlo Capoquadri 
Rosario Casillo 
Mattia Catarcioni 
Costantino Ceccanti 


Susanna Cerri 
Amerigo Cheli 
Giuseppe Chelli 
Andrea Ciarini 
Ruffo Ciucci 
Giovanni Coppola 
Francesca Romana Dani 
Luca Danti 
Giuseppe De Juliis 
Giuseppe De Luca 
Andrea De Marchi 
Angelo Fabrizi 
Anna Falchi 
Michele Feo 

Alice Fiaschi 
Ludovica Fiaschi 
Michele Fiaschi 
Marco Fioravanti 
Delio Fiordispina 
Maria Antonietta Frosini 
Marzio Gabbanini 
Antonio Galli 
Vincenza Galli Angelini 
Laura Galoppini 
Graziano Ghinassi 
Alice Giani 

Aldo Giannarelli 
Benedetta Giugni 
Simone Giugni 
Ezio Giunti 
Andrea Gozzini 
Sergio Gronchi 
Alessio Guardini 
Anna Lambertini 
Lamia Hadda 
Renzo Lapi 

Carlo Lapucci 
Marco La Rosa 
Silvia Lensi 

Pier Giuseppe Leo 


679 


Giuseppe Lotti 
Luca Lupi 

Pier Luigi Luti 
Rosalia Mannu Tolu 
Emilia Marcori 
Claudia Massi 
Tessa Matteini 

Rita Mazzei 
Patrizia Mello 
Luca Menichetti 
Giovanni Meozzi 
Giulia Micera 
Nicola Micieli 
Paolo Morelli 
Barbara Mori 
Eugenio Murrali 
Maria Grazia Napoli 
Lucia Nacci 

Masao Noguchi 
Costanza Pacini 
Franco Paliaga 
Valentino Pancanti 
Manuela Parentini 
Ettore Parmeggiani 
Barbara Pasqualetti 
Rossano Pazzagli 
Ernesta Pellegrini 
Valfredo Pellegrini 
Carla Pieri 

Alfiero Petreni 
Susanna Pietrosanti 
Davide Provenzano 
Stefano Renzoni 
Graziana Rocchi Giannoni 
Gianfranco Rossi 
Giuseppe Rossi 
Mario Rossi Locci 
Francesca Ruta 
Lucilla Sacc. 
Sandro Saccuti 
Fausto Sacerdote 


680 


Giulio Santini 
Alessandra Scappini 
Anna Scattigno 

Fabio Sottili 

Maria Donata Spadolini Ferruzzi 
Bruno Spagli 

Luigi Spezia 

Matteo Squicciarini 
Piero Taddeini 

Maria Grazia Tampieri 
Maddalena Tani 

Paolo Tinghi 

Varo Tinghi 

Aldemaro Toni 

Denise Ulivieri 
Valerio Valori 

Daniele Vergari 
Edoardo Villani 
Cesare Viviani 
Marcello Viviani 
Claudia Weber Saglam 


Emiliano Zucchelli 


SOCI BENEMERITI 
Franco Frulli 
Lodovico Inghirami 
Rodolfo Panarella 
Luigi Testaferrata 


Ilvano Vannozzi 


SOCI DECEDUTI 
Silvano Rocchi 
Ettore Fabbris 
Giampaolo Zucchelli 


Il Presidente 


dell’Accademia degli Euteleti di San Miniato 


Prof. Saverio Mecca 


LE ATTIVITÀ DEL’ACCADEMIA DEGLI EUTELETI DI SAN MINIATO 


Le attività dell’Accademia degli Euteleti che già negli ultimi anni hanno dovuto 
confrontarsi con una forte riduzione delle risorse provenienti dalle istituzioni, 
sono state limitate dalla pandemia Covid19, ma le sue scelte fondamentali sono 
state mantenute: 


* il Bollettino che raccolga contributi di ricercatori e studiosi soci e non soci 
dell’Accademia su temi articolati dalle scienze fisiche alle scienze umane, alla 
storia e all’arte, In particolare è stata rinnovata e qualificata la veste grafica ed 
editoriale. Il Bollettino si conferma come uno dei più prestigiosi contributi al 
dibattito culturale del Valdarno e della Toscana; 


* mostrediarte, dalla pittura alla scultura, la grafica, la fotografia. E in preparazione 
la mostra di da di Rossano Nistri nol l'estate 2021 e la relativa pubblicazione 
del catalogo che andrà ad arricchire la collana “Le mostre dell’Accademia”; 


* sostegno e cooperazione con altre istituzioni e associazioni presenti nel 
territorio mediante la condivisione di progetti e la messa disposizione della 
sede rinnovata e adeguata tecnicamente per lo sviluppo di mostre, seminari, 
convegni e conferenze. 


* rinnovamento dei soci componenti il consiglio, i soci ordinari e corrispondenti 


dell’ Accademia; 
* costruzione del sito web dell’Accademia; 
* mantenimento delle attrezzature e degli arredi; 
e adesione al Sistema Museale di San Miniato. 


Le attività sopra riassunte sono state rese possibili utilizzando in pieno le risorse 
economiche sia quelle provenienti dai contributi del Ministero dei Beni Culturali 
e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato che dai Soci dell’Accademia. 


La continuità della attività nei prossimi anni dell’Accademia richiederà risorse 
adeguate, anche se modeste, integrate dall’impegno, dal lavoro e da contributo 
volontario di tutti i soci, che per quanto generoso non potrà essere sufficiente. 


Rivolgiamo un appello affinché da parte delle Istituzioni Pubbliche del territorio 
e della Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato si possano assicurare le ri- 
sorse necessarie affinché iccani possa continuare ad operare nella necessaria 
autonomia e libertà nell'interesse della comunità. 


681 


ATTIVITÀ DELlACCADEMIA DEGLI EUTELETI DI SAN MINIATO 
NELL'ANNO 2020 


L'Accademia degli Euteleti ha perseguito il suo fine statutario di “attuare iniziative 
e di lavori per la promozione degli studi letterari, storici, scientifici ed artistici”. 
Le attività si sono quindi articolate, pur nelle limitazione indotte dalla pandemia, 
in: 


* promozione della cultura mediante la redazione, la pubblicazione e la diffusione 
del Bollettino dell’Accademia con periodicità annuale, e di altre opere a stampa; 


* organizzazione delle Mostre dell’Accademia 


* organizzazione di Conferenze, progetti e iniziative nel campo degli studi 
letterari, storici, scientifici ed artistici; 


* attività di cura, conservazione e valorizzazione del patrimonio librario, 
archivistico e artistico dell’Accademia a beneficio degli studiosi e della comunità. 


L'Assemblea dei Soci Ordinari nella seduta Gennaio 2020 ha approvato il Bilancio 
consuntivo dell’anno 2019, il Bilancio preventivo dell’anno 2020, il Programma 
delle attività per l’anno 2020 e il Programma delle attività per il triennio 2020- 
2022. 


Incontri dell’Accademia 
Gli incontri dell’Accademia sono stati sospesi da marzo 2020 


Sabato 11 gennaio 2020 

Vieri Mazzoni 

Un leale tradimento. La conquista fiorentina di San Miniato a 650 anni di distanza 
(1370-2020) 


Sabato 12 dicembre 2020, 
Saverio Mecca 
Presentazione e diffusione del Bollettino n° 87, anno 2020 


Mostre dell’Accademia 


Le mostre dell’Accademia sono state sospese 


Pubblicazioni 


Bollettino dell’Accademia n° 87-2020 
La pubblicazione del Bollettino n. 87 ha avuto luogo Sabato 12 dicembre 2020 
presso la sede di Palazzo Migliorati. 


682 


Cura, conservazione e valorizzazione della Biblioteca 
e del patrimonio archivistico e artistico 


Con nostro rammarico il progetto di completamento della catalogazione su 
supporto informatico del patrimonio librario per la ricerca e la consultazione 
anche via Web del Catalogo della Biblioteca dell’Accademia degli Euteleti della 
Città di San Miniato anche per il 2020 è rimasto sospeso in quanto non ha 
ricevuto il contributo atteso. Il progetto di completamento della catalogazione 
sarà ripresentato nell’anno 2021 per poter mettere a disposizione della comunità 
e dei ricercatori l'importante archivio dell’Accademia. 

Per l’insufficienza dei contributi ricevuti non si è avviato il completamento 
dell’inventariazione dei dipinti e delle suppellettili di proprietà dell’Accademia 
degli Euteleti. Tale operazione sarà realizzata in collaborazione con la 


Sovrintendenza ai Beni Culturali di Pisa. 


Sistema museale di San Miniato 


Anche per quanto riguarda l’anno 2020 l'Accademia ha aderito al Sistema 
Museale di San Miniato. 


683 


LIBRI E PUBBLICAZIONI RICEVUTI NEL 2020 
A cura di Alexander Carmine Di Bartolo 


ACCADEMIA DEI SEPOLTI DI VOLTERRA, Rassegna volterrana. Rivista d'arte e 
di cultura, a. XCV (2018), Volterra 2019 

ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI FERRARA, Ati, a.a. 196, v. 96 (2018-2019) 

ACCADEMIA PETRARCA DI LETTERE ARTI E SCIENZE, Asti e memorie, 
nuova serie, v. 80 (2018), Arezzo 

ASSOCIAZIONE TURISTICA PRO EMPOLI, Bu/lettino storico empolese, v. XIX, 
a. LXII-LXIV (2019-2020) 

Aevum, Rassegna di scienze storiche linguistiche e filologiche, n. 1 a. XCIV (gennaio 
—aprile 2020), Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Cattolica del Sacro 
Cuore, VP, Milano 

Audisio, Aldo-Natta Soleri, Angelica, Tranquillamente al mare. Celle Ligure, 1905- 
1920: Jan Neer fotografo, Società savonese di Storia Patria, Savona 2020 
(«Collana di fonti e studi», n. 6) 

Bacci, Antonio, // decennio decisivo del Petrarca: 1333-1343. Monte Ventoso, Salmi 
Penitenziali, Secretum, University Book — Accademia Petrarca di Lettere Arti 
e Scienze, Arezzo 2019 

Bruschi, Mario, La chiesa di S. Chiara a Pistoia. Antonio da Sangallo ispirò Michelangelo, 
presentazione di F. Tardelli, GF Press, Pistoia 2018 

Bruschi, Mario, Gente di Leonardo. Uomini, chiese e territorio di Vinci e del Montalbano 
(secc. XV-XVIII), s.n., Pistoia 2018 

Bruschi, Mario, // Paesaggio di Leonardo datato 1473, il disegno RL12395 e alcune 
‘artifiziose invenzioni”, s.n., Pistoia 2019 

Bruzzone, Gian Luigi, Paolo Boselli e Angelo Caroggio, Società savonese di Storia 
Patria, Savona 2020 («Collana di fonti e studi», n. 7) 

Bruzzone, Gian Luigi, Savona in antichi autori e libri di viaggio: con un saggio 
bibliografico sulla Liguria, Società savonese di Storia Patria, Savona 2020 
(«Collana di fonti e studi», n. 5) 

Cesare Battisti e Arezzo (1915-1919), Luoghlinteriori - Accademia Petrarca di Lettere 
Arti e Scienze, Città di Castello - Arezzo 2019 

Edizione nazionale delle opere di Lazzaro Spallanzani. I manoscritti sul “chiuso” e le 
“arie” (1795 — 1799), Tomo 4, 1798-1799, (Parte sesta, Manoscritti, v. 2), a 
cura di M.T. Monti, Mucchi Editore, Modena 2019 


Erba d'Arno. Rivista trimestrale, nn. 159-160 (inverno-primavera 2020), Fucecchio 
2020 


Erba d’Arno. Rivista trimestrale, nn. 161-162 (estate-autunno 2020), Fucecchio 2020 


FONDAZIONE SPADOLINI-NUOVA ANTOLOGIA, Nuova antologia, a. 154, 
fasc. 2290 (aprile-giugno 2019), Livorno 2019 


FONDAZIONE SPADOLINI-NUOVA ANTOLOGIA, Nuova antologia, a. 154, 
fasc. 2291 (luglio-settembre 2019), Livorno 2019 


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FONDAZIONE SPADOLINI-NUOVA ANTOLOGIA, Nuova antologia, a. 154, 
vol. 622, fasc. 2292 (ottobre-dicembre 2019), Livorno 2019 

FONDAZIONE SPADOLINI-NUOVA ANTOLOGIA, Nuova antologia, a. 155, 
vol. 623, fasc. 2293 (gennaio-marzo 2020), Livorno 2020 

FONDAZIONE SPADOLINI-NUOVA ANTOLOGIA, Nuova antologia, a. 155, 
vol. 624, fasc. 2294 (aprile-giugno 2020), Livorno 2020 

FONDAZIONE SPADOLINI-NUOVA ANTOLOGIA, Nuova antologia, a. 155, 
vol. 625, fasc. 2295 (luglio-settembre 2020), Livorno 2020 

Mitteilungen des kunsthistorischen institutes in Florenz, LXI Band, Heft 2/3 (2019), 
Firenze 2020 

Mitteilungen des kunsthistorischen institutes in Florenz, LXII Band, Heft 1 (2020), 
Firenze 2020 

La poetica di Camillo Sbarbaro: a cinquant'anni dalla morte del poeta, 1967-2017 
(Atti del convegno: Arezzo, 11 novembre 2017), a cura di G. Baroni e G. 
Quiriconi, Franco Cesati Editore — Accademia Petrarca di Lettere Arti e 
Scienze, Firenze - Arezzo 2019 («Quaderni della Rassegna», n. 150) 

La poetica di Salvatore Quasimodo: a cinquant'anni dalla morte del poeta, 1968-2018 
(Atti del convegno: Arezzo, 10 novembre 2018), a cura di G. Baroni, A. Luzi, 
G. Quiriconi, Franco Cesati Editore — Accademia Petrarca di Lettere Arti e 
Scienze, Firenze - Arezzo 2020 («Quaderni della Rassegna», n. 165) 

Prato. Storia e arte, n. 124-125 (dicembre 2019), Fondazione Cassa di Risparmio di 
Prato, Noèdizioni 

Santori, Daniele, Vittorio Fossombroni matematico, Luoghlinteriori - Accademia 
Petrarca di Lettere Arti e Scienze, Città di Castello - Arezzo 2019 

SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA, Atti, nuova serie, LVII (CKXXXII), 
Genova 2019 

SOCIETÀ SAVONESE DI STORIA PATRIA, Savona, storie di luoghi fuori le 
mura, Atti e memorie: nuova serie, v. 66, Savona 2020 («Collana di fonti e 
studi», n. 7) 

SOCIETÀ STORICA ARETINA, Notizie di storia, a. XXI, n. 43 (giugno 2020), 
Arezzo 

SOCIETÀ STORICA DELLA VALDELSA, Miscellanea storica della Valdelsa,, a. 
CXXV, 2019-1 (336), 2020, Firenze 2020 

SOCIETÀ STORICA DELLA VALDELSA, Miscellanea storica della Valdelsa,, a. 
CXXV, 2019-2 (337), 2020, Firenze 2020 

SOCIETÀ STORICA LODIGIANA, Archivio storico lodigiano, a. CKXXV (2016), 
Lodi 2016 

Zanardi Prosperi, Paolo, L'Africa è troppo piena di sorprese. In cerca di una colonia: 
l'Italia nel mar Rosso (1869-1898), Accademia delle scienze di Ferrara, 
Ferrara 2019 («Atti dell’Accademia delle scienze di Ferrara. Supplemento», 
n. 96) 


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FINITO DI STAMPARE 
NELLA TIPOGRAFIA BONGI 
SAN MINIATO (PI) 
DICEMBRE 2020